Introduzione

Gli strumenti tecnici come esseri tecnici, partecipi dei meccanismi evolutivi. Dinamiche del potere tecnico: accumulato genera dominio, distribuito è presupposto di libertà possibili. L’alienazione tecnica oscilla in maniera schizofrenica fra tecnofilia e tecnofobia, eppure perde sempre di vista gli oggetti tecnici. L’attitudine hacker come pratica libertaria, rapporto alla pari con gli esseri tecnici, in cui non si obbedisce e non si comanda. Le regole del gioco della convivialità, o l’evoluzione del mutuo appoggio.

Esseri umani ed esseri tecnici

Gli strumenti tecnici sono l’ossatura del mondo umano. Gli strumenti tecnici digitali sono diventati anche centri nevralgici, veri e propri nervi, tendini, muscoli, riserve di energie e organi attivi del mondo intero. Grazie a essi, in maniera sempre più automatizzata, viene diretta la movimentazione delle infrastrutture logistiche globali, si combattono guerre, si allocano risorse nei luoghi reputati strategici, si giocano le partite finanziarie, si interviene nei flussi di comunicazione, si diffondono modelli comportamentali.

Macchine, computer, dispositivi elettronici, reti di comunicazione e così via giocano un ruolo sempre più fondamentale nelle interazioni psicosociali, politiche ed economiche in cui gli esseri umani sono immersi. Ma non sono solo strumenti utili ai nostri scopi. Sono qualcosa di più e di diverso: sono esseri tecnici dotati di caratteristiche proprie, peculiari, a prescindere da noi umani. Al pari degli altri esseri non umani che convivono su questo pianeta Terra, possono fare alcune cose e non possono farne altre; eccellono in alcune attività e sono carenti in altre; possono cooperare fra loro; si evolvono. Questi strumenti sono sottoposti agli stessi meccanismi evolutivi che regolano la co-evoluzione degli organismi viventi: l’adattamento (dalla funzione all’organo) e l’esattamento (dall’organo alla funzione).

Le piante non sono capaci di correre (anche se i semi possono volare, galleggiare…), ma sono capaci di effettuare la fotosintesi. Gli animali (alcuni) sono in grado di correre, altri nuotano o volano, o ancora fanno tutte e tre le cose insieme; ma non se la cavano bene con la fotosintesi. I microfoni collegati ai computer connessi in rete trasmettono i suoni che captano, ma non se la cavano bene con le addizioni. I fogli di calcolo possono calcolare in maniera soddisfacente, se adeguatamente programmati, ma non sono capaci di trasmettere video. Le telecamere in genere sì, sono in grado di trasmettere video, sempre che siano connesse a reti adatte. E così via, ognuno con le proprie caratteristiche. Con questi esseri tecnici siamo in relazione da molto tempo, proprio come siamo in relazione con protozoi, cromisti, funghi, piante e animali (tutti eucarioti come noi umani) e archeobatteri più batteri (procarioti), se accettiamo la tassonomia dei due super-regni e sette regni elaborata da un gruppo di scienziati che hanno raffinato le proposte dello zoologo britannico Thomas Cavalier-Smith nel 20151.

A differenza degli altri esseri citati, gli strumenti elettronici sono esseri non viventi. Ma, al pari degli esseri viventi, influenzano in maniera straordinaria le nostre vite umane. Così come ci preoccupiamo e ci prendiamo cura dell’aria che respiriamo, del cibo che mangiamo, dell’ambiente sociale e naturale in cui viviamo, sarebbe segno di saggezza pratica prenderci cura di questi esseri che fanno parte del nostro ambiente e lo determinano in maniera importante, perché sono fonte di grande potere. Ad esempio grazie a essi possiamo vedere a distanza, parlare a distanza, comunicare a distanza, ovvero: per mezzo delle relazioni che stabiliamo con gli esseri tecnici acquisiamo poteri straordinari.

Saltiamo alle conclusioni: sono potenziali alleati per costruire relazioni di mutuo appoggio. L’alternativa è semplice: se non ci aiutano a diffondere il loro potere per realizzare autogestione e abolire il principio del governo a tutti i livelli, allora sono strumenti di oppressione, individuale e collettiva. Il potere funziona così: o si accumula, e tende a strutturare gerarchie fisse che esercitano dominio dispotico; oppure si distribuisce per aumentare la libertà di tutti, di pari passo con la loro uguaglianza. Non esistono le vie di mezzo: anche perché la tecnica non è neutrale.

Genealogie e terminologie

Questo libro segue l’andamento dell’avventura, che è il farsi azione del pensiero. Appare quindi molto poco sistematico. L’effetto è voluto. Per questo si può leggere in un ordine diverso da quello proposto, perché i capitoli sono abbastanza autoconclusivi, anche se legati da rimandi per rendere l’argomentazione più solida. In particolare vi sono alcune espressioni ricorrenti. Cerco subito di chiarirle e inquadrarle, in particolare per chi ama avere un quadro di quel che segue con riferimenti autoriali.

Non sono un ammiratore dei concetti lisci e privi di appigli, soprattutto perché ogni termine e concetto appartiene a una stirpe, si porta dietro una genealogia, come ha ben mostrato Michel Foucault studiando la storia delle idee, e genera una serie di aspettative e precomprensioni. Preferisco cercare di osservare le situazioni, interrogando le esperienze concrete con uno spirito curioso, tentando di tradurre in maniera condivisibile ciò che accade nella complessità delle interazioni tecniche. Discuterne implica il ricorso a Übertragungen, trasposizioni arbitrarie, come Friedrich Nietzsche sosteneva fosse tutta la conoscenza in Su verità e menzogna in senso extra-morale, un testo del 1873 a mio parere fondamentale per qualsiasi tentativo di conoscere. Sono traduzioni metaforiche e allegoriche, senz’altro mai esaustive e con semplificazioni eccessive per chi è specialista, ma grazie alle quali si può effettuare un resoconto condiviso soddisfacente.

Questo modo di procedere è parte integrante della pedagogia hacker, una metodologia che sperimentiamo da anni con circe (Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche). Di fronte alle difficoltà, alle fatiche, alle novità della vita nel mondo tecnologico contemporaneo, cerchiamo di fare un passo indietro e di osservarci, di osservare come agiamo e re-agiamo. Di imparare dalle nostre vulnerabilità, dalle reazioni emotive, dagli entusiasmi e dalle delusioni che spesso punteggiano i nostri rapporti con gli esseri tecnici. Computer, cellulari, automobili, elettrodomestici: amati e odiati, necessari e superflui. Questo approccio rielabora e meticcia diverse tradizioni, in particolare l’apprendimento esperienziale di David Boud, Ruth Cohen e David Walker (1993), i metodi d’azione di Jacob Levi Moreno (2007) e la pedagogia critica di Paulo Freire (2014). In questo senso, lungo tutto il testo, le storie raccontate sono altrettanti episodi di formazione insieme alle tecnologie; nel capitolo conclusivo raccolgo alcune indicazioni di metodo, riprendendo le questioni sorte nei capitoli precedenti. Ho chiamato attitudine hacker questo atteggiamento nei confronti delle tecnologie.

Un’attitudine si può imparare e insegnare; si assume, non è un fatto naturale, non è per nascita, per censo, per genetica, per investitura. Con hacker intendo un essere umano che, nelle sue azioni concrete, mira a ridurre l’alienazione tecnica, cioè il baratro che nel corso dell’evoluzione è stato scavato nei confronti degli esseri tecnici. Non si tratta quindi di mercenari al soldo di multinazionali, agenzie governative o altri deprecabili attori nel panorama della cosiddetta sicurezza, ma di persone amanti delle tecnologie, della riservatezza (privacy), intenzionate a conoscere e comprendere gli esseri tecnici per vivere armoniosamente e piacevolmente insieme. L’hacker perciò non ha a che fare solo con i computer, ma con qualsiasi essere tecnico.

A mio avviso, l’allontanamento da questi esseri artificiali è principalmente dovuto a un duplice movimento di delega cieca nei confronti degli esperti e, da parte di questi ultimi, di strutturazione in caste gerarchizzate al servizio del retaggio del dominio. Nel capitolo primo viene descritta l’emersione della tecnoburocrazia organizzata a partire da semplici meccanismi di delega, più evidenti quando gli esseri tecnici abbisognano di riparazioni a causa di guasti.

L’articolazione delle tecnologie contemporanee in reti di esseri tecnici viene analizzata nel capitolo secondo, esplorando la rete di Internet dal punto di vista della sua costituzione materiale e dei meccanismi di interazione basica, che rivelano immediatamente la straordinaria complessità di quelle che, a prima vista, sembrano operazioni banali. Attingo a piene mani dall’idea di saperi situati (situated knowledges) di Donna Haraway, fin dall’articolo del 1988 Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective. Estendo questa idea del privilegio della prospettiva parziale, della corporeità e del sapere come prospettiva condivisa a una comunità (cui preferisco i gruppi di affinità), in special modo al sapere tecnico che si genera navigando la rete di Internet. I corpi degli esseri tecnici sono in gioco tanto quanto i corpi umani, e così pure le rispettive, parziali prospettive. Non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, diceva Eraclito; nemmeno navigare due volte nella stessa Internet: mutiamo noi, muta l’ambiente circostante, mutano i dispositivi.

Con tecnologie intendo l’incarnazione concreta, materiale, tangibile di teorie e procedure che sono dei modi di fare, modi di costruire, ovvero tecniche. Un dispositivo elettronico portatile, ad esempio uno smartphone equipaggiato con un sistema operativo Android, è quindi un oggetto tecnologico, frutto di specifiche tecniche (produttive, organizzative); queste tecniche sono ispirate da specifiche ideologie, convinzioni, credenze. In questo senso la tecnica non è, e non può essere, neutrale: le sue concretizzazioni tecnologiche incorporano sempre visioni del mondo situate, parziali, definite storicamente, socialmente e psicologicamente. Inoltre, tendono a far nascere ulteriori generazioni di tecnologie (e di umani che dicono di servirsene) che agiscono e re-agiscono in maniera poco consapevole, determinata in maniera preponderante dall’orientamento tecnico sottostante. Di fatto, le macchine, proprio come gli umani, non sono tutte uguali: dipende da come vengono «create al mondo».

Quelli che vengono solitamente rubricati come oggetti tecnologici o strumenti tecnologici sono qui chiamati esseri tecnici. Sostengo che, poiché questi esseri coabitano con altri esseri viventi e non sul pianeta Terra, e sono frutto delle loro interazioni tecniche, ne condividono le dinamiche evolutive di base, ossia adattamento (dalla funzione all’organo) ed esattamento (dall’organo alla funzione). I meccanismi di esattamento sono stati descritti in primo luogo da Stephen J. Gould ed Elizabeth Vrba, raffinando il concetto di preadattamento già formulato da Darwin. Dal momento che gli esseri tecnici sono fonte di potere, a seconda di come il potere viene concepito e gestito dalle teorie sottostanti alla loro costruzione si otterranno diversi retaggi evolutivi, presentati nel capitolo terzo. Rifacendomi a Murray Bookchin, distinguo tra retaggio della libertà e retaggio del dominio. In quest’ultimo lignaggio, storicamente maggioritario e attualmente predominante, gli esseri tecnici vengono cooptati per realizzare le fantasie di dominio umane, e integrati come ingranaggi di meccanismi di comando/obbedienza reciproci. In particolare, gli esattamenti tossici di massa (di cui i social network commerciali sono un buone esempio) selezionano attivamente esseri tecnici ed esseri umani che strutturano le Megamacchine contemporanee, co-evoluzioni gerarchizzate di esseri al servizio della brama di supremazia. Il retaggio della libertà è storicamente minoritario e oggi in grave difficoltà: in queste linee evolutive, gli esseri tecnici vengono concepiti e realizzati nell’ottica del mutuo appoggio, per ampliare la libertà nell’uguaglianza reciproca; gli esseri umani selezionano attivamente comportamenti appropriati in tal senso.

Da qui discendono quelle che chiamo tecnologie conviviali, rifacendomi all’espressione di Ivan Illich, ma adattandola alla dimensione della rete. Nelle reti digitali globali la questione della scala, della dicotomia industriale/conviviale e della prossimità va rivista in maniera non dogmatica, consapevole della materialità e delle dinamiche interattive concrete. Allo stesso modo, i limiti e i correttivi da porre all’evoluzione tecnica non possono essere calati dall’alto di una teoria cristallina, ma devono nascere da un corpo a corpo quotidiano, comune e condiviso con gli esseri tecnici, per selezionare e selezionarci reciprocamente, per affinità, organizzando sistemi federati (capitolo quarto).

Nel capitolo quinto propongo un’analisi dell’evoluzione di una tecnologia complessa, il denaro, evidenziando l’approfondirsi e aggravarsi dell’alienazione tecnica attraverso la ricostruzione genealogica di alcuni dispositivi di pagamento (l’analisi completa è riportata fra i materiali di approfondimento all’indirizzo tc.eleuthera.it). Un carattere chiave del retaggio del dominio è l’ossessione per la riduzione della frizione (frictionless) e dell’attrito tramite intermediazione tecnica. Ma integrare gli esseri tecnici in maniera che non si scorga alcuna soluzione di continuità con l’umano (seamless) è una chimera pericolosa che in realtà serve per nascondere le transazioni di potere sottostanti e le continue deleghe ai meccanismi tecnoburocratici; una catena senza fine in cui tutto si tiene, ovvero l’incarnazione contemporanea della Megamacchina descritta magistralmente da Lewis Mumford.

Il capitolo sesto cerca di fare il punto sulla filosofia della tecnica senza addentrarmi in discussioni specialistiche. Si tratta delle teorie implicite, sottostanti alla tecnica e quindi alla realizzazione degli esseri tecnici, sempre presenti anche e soprattutto quando non dichiarate. Sostengo che la filosofia si è occupata molto di tecnica e tecnologia, ma paradossalmente senza saperne granché, senza sporcarsi le mani con gli esseri tecnici. La maggior parte delle filosofie della tecnica si possono ricondurre alle concezioni antropologiche della tecnica, secondo cui l’umano è al centro, attore protagonista, e gli oggetti tecnici sono meri supporti delle sue azioni. Ad esempio, l’analisi del sistema tecnico di Jacques Ellul appartiene senz’altro alle concezioni antropologiche e, infatti, non presenta alcuna via d’uscita operativa, a parte il rifiuto totale di quello che viene descritto come sistema anche se, in realtà, è davvero ben poco sistematico. Oppure, le filosofie della tecnica si rifanno più o meno esplicitamente alla concezione heideggeriana della Tecnica come Gestell, come scaffalatura, sfondo e destino della contemporaneità, proliferazione di dispositivi che dispone il mondo in un certo modo. La Tecnica diventa così un paio di occhiali di cui non siamo davvero consapevoli, e quel che è peggio è che anche questa volta l’oggetto tecnico viene di fatto accantonato, le sue caratteristiche specifiche non vengono studiate perché l’essenza della tecnica viene considerata non tecnica. Le argomentazioni perentorie e apodittiche di un pensatore come Byung-Chul Han rientrano in questo lignaggio di pensiero. Forse si può recuperare parte dell’analisi di Hans Jonas, quanto meno il suo lucido e dichiarato rifiuto sia dell’assoluta negatività del principio disperazione di Günther Anders, sia dell’assoluta positività del principio speranza di Ernst Bloch. Ma il suo principio responsabilità non mi pare sufficientemente operativo nel mondo tecnologico. Anche Jonas aveva poco a che fare con gli esseri tecnici. Propongo quindi di riprendere lo studio di Gilbert Simondon rispetto alla possibilità di costruire macchine aperte, aperte alla possibilità di liberazione, per quanto sia necessario aggiornare le sue intuizioni all’epoca digitale.

L’ultimo capitolo e la conclusione delineano alcune linee guida per sviluppare tecnologie conviviali, di liberazione reciproca per tutti gli esseri coinvolti, a partire dalla consapevolezza che non esiste una natura umana immutabile, né alcuna altra natura immutabile, e nemmeno una natura tecnica. Esistono composizioni transitorie, alleanze possibili, simbiosi immaginabili e già operative per rimanere nella turbolenza della co-evoluzione, non solo con gli altri esseri viventi non umani, come ha ben raccontato Haraway nei saggi raccolti in Staying with the Trouble, ma anche con gli esseri tecnici. In termini di retaggio della libertà, finché c’è spazio per un’evoluzione, sarà possibile operare in maniera altra rispetto al principio del governo, basato sulla coppia comando/obbedienza, e diffondere potere, anche potere tecnico, per costruire spazi di mutuo appoggio.

Alla bibliografia è stata aggiunta, tra i materiali online, una raccolta di servizi esistenti che mostrano come il retaggio della libertà sia vivo e vegeto anche nel mondo tecnologico. Si tratta di diffondere, moltiplicare e meticciare fra loro i margini di libertà già operativi, nell’ottica di quello che Colin Ward chiamava anarchia come organizzazione. La libertà, come ci ricorda Tomás Ibáñez, non è, ma accade. La libertà non è una sostanza singolare assoluta ma vive nella molteplicità delle sue libere manifestazioni, dei processi plurali di liberazione, relativi.

Strumenti e potere

Un uomo. Una pistola. La sua pistola.

Un uomo. Un’auto. La sua auto.

Un uomo. Un computer. Il suo computer.

In queste formulazioni, i primi possiedono i secondi, subordinati. Il possesso e l’uso dello strumento tende a strutturare, quasi a determinare automaticamente, una relazione asimmetrica. L’essere umano possiede l’essere tecnico, lo ha in pugno, lo comanda; eppure, nel concreto ne è a sua volta posseduto, comandato, determinato, anzi persino definito nella sua identità. Le parole non mentono, si dice infatti: pistolero, automobilista… computerista? (no, ma nei corsi di sicurezza sul lavoro si trova il videoterminalista, cioè l’umano che passa molto tempo al videoterminale).

Che tipo di relazione asimmetrica è? Di dominio/sottomissione, di reciproco comando/obbedienza. Si domina, e si è dominati, alternativamente, ma senza che sia stata esplicitamente negoziata alcuna regola, o norma di comportamento cui attenersi.

Gli strumenti tecnici sono al tempo stesso vittime e carnefici della smania di dominio degli esseri umani, in particolare della parte maschile degli Homo Sapiens. Vittime, perché nessuna pistola, auto, computer o altro aggeggio ha scelto volontariamente di sottomettersi ai capricci di qualche umano sbalestrato: non ha scelto di sparare, accelerare, calcolare senza costrutto. Carnefici, perché in definitiva le pistole, le auto, i computer e molti altri aggeggi tengono in pugno coloro che le impugnano, le guidano, li comandano; ovvero i loro proprietari.

A maggior ragione dominano il resto del mondo circostante, vivente e non; da cui la sensazione diffusa (ma piuttosto vaga) di un mondo dominato dalla Tecnica, qualsiasi cosa voglia dire. In prima approssimazione, possiamo definirla come un sentimento di lontananza, separazione e alterità rispetto alle manifestazioni tecniche, che però contemporaneamente esercitano un’attrazione straordinaria sugli umani. Incarnazioni mostruose del potere tecnico, spaventose ma affascinanti, gli esseri tecnici sono spesso percepiti dagli umani in maniera schizofrenica, oscillanti fra brama tecnofila e salvifica (la tecnologia ci salverà!) e avversione tecnofoba, millenarista (la tecnologia ci dannerà!). Siamo quindi di fronte a una sorta di alienazione tecnica. Come sosteneva il filosofo francese Gilbert Simondon, opponendosi alla limitata comprensione di Marx, l’alienazione tecnica è fisiologica, psicologica e sociale prima che economica. Riguarda innanzitutto i corpi, le menti, le interazioni sociali.

Certamente anche le donne possono ugualmente invischiarsi in simili relazioni di reciproco dominio, ma è interessante notare che nell’epoca moderna la macchina viene raffigurata come femmina, e, sottinteso patriarcale, logica vuole che debba essere dom(in)ata, tendenzialmente da un maschio. Anzi, sarà proprio quella compiuta sottomissione, che stabilisce i reciproci ruoli in una gerarchia da riprodurre senza posa, a farne un vero uomo: così raccontano un numero straordinario di film, romanzi, canzoni, videogiochi. Una macchina da comandare è un po’ come una donna da sottomettere (che, a sua volta, nel discorso colonialista rimanda alla Natura Selvaggia da soggiogare): la pubblicità, vero Cavallo di Troia del capitalismo, ha sempre sfruttato questa becera equazione per vendere qualsiasi cosa.

La macchina come incarnazione mostruosa, ovvero al tempo stesso affascinante e orrenda, si presenta spesso anche come capro espiatorio ideale, ricettacolo di tutte le iniquità. In questo tipo di narrazioni lo Stato controlla i suoi cittadini grazie alle Macchine del Controllo; lo stesso fanno le Multinazionali e, in definitiva, le persone stesse fra loro, grazie agli straordinari poteri degli strumenti tecnici: ad esempio, parlarsi e vedersi a distanza e, più in generale, estendere senza limiti il proprio raggio d’azione. Così il mito della Macchina da Dominare (per creare un Mondo Nuovo) si ribalta nel mito della Macchina da Distruggere (per tornare al Mondo Antico), ma in fondo cambia poco: la possibilità di ricreazione del mondo è subordinata in ogni caso all’affermazione incontrastata dell’umano, come Padrone o Distruttore della macchine.

Attitudine hacker come pratica libertaria

Ma a noi hacker piacciono le macchine, e non per sottometterle. Non vogliamo governarle, ma nemmeno vogliamo essere governati dalle macchine. Ci piace averci a che fare, capire come funzionano, modificarle, risolvere problemi assurdi, imparare insieme, dare forma alle fantasie più sfrenate, costruire mondi impensabili e così via. Impossibile vivere in questo mondo senza macchine. Saremmo più tristi e più soli. Eppure anche noi hacker abbiamo i nostri scheletri nell’armadio, o meglio, nel terminale.

Infatti usiamo la cli invece della gui, cioè la Command Line Interface invece della Grafical User Interface. In parole povere, comandiamo i computer con la riga di comando, invece che con le finestre grafiche. La ragione è semplice: la riga di comando è molto, molto più potente di qualsiasi altro modo di relazionarsi alle macchine elettroniche. Nelle nostre formazioni con circe facciamo spesso un giochino per dimostrarlo agli increduli: distruggiamo il nostro sito web con un comando in meno di un secondo, per farlo ricomparire al suo posto un attimo dopo. Una pura e semplice esibizione di… potere, mormora qualcuno.

Sì. Potere. Questo libro parla esattamente del potere, di come gli strumenti in generale siano fonte di potere, e in particolare gli strumenti elettronici che nel xxi secolo vanno sotto il nome collettivo di «tecnologie digitali», anche se si tratta di apparecchi molto diversi fra loro. Parla di come possiamo non solo immaginare, ma anche concretamente operare in modo che il potere possa essere esercitato in maniera diversa. Per fare ricreazione, costruire spazi dove può fiorire il mutuo appoggio.

Non è per niente facile. Non è come fare i giochi di prestigio per far strabuzzare gli occhi. Richiede pazienza, buona volontà, energia, fatica e anche un pizzico di incoscienza. O di leggerezza, spensieratezza, allegrezza sbarazzina. Non ci si può prendere troppo sul serio, altrimenti diventa un lavoro, un travaglio penoso, e la vita è troppo breve per perdersi in simili baggianate.

Il fatto che non vogliamo ignorare è che il potere è lì, in mezzo a noi. Ci interessa, anche letteralmente: è ciò che inter-est, sta-tra noi considerati come individui singoli, umani e non. Questo libro è una cavalcata nelle terre delle relazioni possibili con le libere macchine.

Il presupposto è chiaro: il potere non è una cosa brutta; il potere non è una cosa cattiva. Anzi: il potere è ciò che vogliamo, il più possibile, perché sia diffuso e distribuito il più ampiamente possibile, idealmente a tutti. Questo perché adottiamo la definizione proposta da Amedeo Bertolo nei primi anni Ottanta del xx secolo, secondo cui il potere è una funzione regolativa sociale, di per sé neutra, che esercitiamo sempre quando ci troviamo in relazione con qualcun altro. Nell’articolo Potere, autorità, dominio: una proposta di definizione, pubblicato sul secondo numero della rivista «Volontà» (1983), sosteneva che il potere serve alla produzione e applicazione di norme che regolano i rapporti fra gli esseri in società: non solo gli esseri umani, ma anche gli altri esseri viventi. Estendo la riflessione agli esseri non viventi, come è il caso degli esseri tecnici di cui ci interessiamo qui.

L’accesso al potere è la precondizione chiave di ogni possibile libertà. Senza potere, cioè senza possibilità di intervenire nella produzione e nell’applicazione di norme, non esiste libertà. In teoria, una volta che il potere è uguale fra tutti, il primo passo è fatto. Rimane il secondo, che è un passo ancora più lungo e difficile, cioè fare in modo che non ci si opprima a vicenda, cosa che come abbiamo visto accade regolarmente nelle «normali» relazioni con gli strumenti tecnici, ridotti a oggetti da possedere.

In linea di principio, per impedire che questo accada, è necessario evitare di obbedire ai comandi, ed evitare di impartirli. Il dominio infatti si stabilisce in questo modo: obbedendo, cioè attenendosi a norme stabilite da qualcun altro (tipicamente una minoranza, ma potrebbe anche essere una maggioranza oppressiva) ed espresse sotto forma di comando. O, viceversa, creando e applicando norme in maniera coercitiva: comandando. Insomma, quando il potere viene esercitato da un settore dominante, non è più neutro, ma diventa dominio. Tomás Ibáñez elabora questo concetto in L’anarchia del mondo contemporaneo.

Il dominio non è sinonimo di potere, lo Stato non coincide con il dominio. Potentia è la capacità implicita di condizionare l’ambiente in cui si vive con la sola nostra presenza; potestas è un condizionamento esplicito – nei suoi diversi gradi – esercitato sull’esistenza di altri umani, che dunque devono sempre mantenere un margine di autonomia affinché il potere possa in esso agire; dominio è il dissolvimento di tale margine nell’assenza della libertà. Si può esercitare potere soltanto su persone ancora libere, si pratica il dominio dove ogni libertà è scomparsa2.

Va sottolineato che gli individui umani sono in grado di praticare l’obbedienza, così come il comando, non solo nei confronti di altri umani, ma anche nei confronti di sé stessi. Questo è un aspetto fondamentale della relazione fra esseri umani ed esseri tecnici: spesso si esegue ancora e ancora una procedura automatizzata perché essa soddisfa profondamente la propria ansia di obbedire a sé stessi, di essere conformi, aderenti a sé. Il digitale diventa allora un elemento di costruzione e rassicurazione identitaria. Chi studia i sistemi per aumentare il livello di coinvolgimento degli utenti sulle piattaforme digitali di massa lo sa bene, e ne approfitta per i suoi scopi di lucro.

In che modo gli hacker, che si relazionano con i computer tramite cli, potrebbero aiutarci a concepire e praticare relazioni di libertà reciproca nell’uguaglianza, relazioni in cui il potere è di tutti e di ciascuno, in cui non è dominio oppressivo ma anzi relazione conviviale? La prima idea che viene in mente è: sottomettendo le macchine per il bene di tutti gli esseri umani. Ma così non può funzionare, perché in nessun caso la sottomissione al comando di qualcuno genera la libertà degli altri. Non funziona con gli umani, non funziona con gli animali, con le piante o con qualunque altro essere vivente: l’estensione del dominio restringe i margini di libertà tanto di chi esercita il comando quanto di chi obbedisce. E nemmeno funziona con le macchine.

Perciò a conti fatti esiste una sola possibilità, meno teorica di quanto potrebbe sembrare a prima vista: liberare gli esseri umani insieme a tutti gli altri esseri che convivono su questo pianeta, appoggiandosi allo straordinario potere delle macchine.

L’ipotetico uomo di cui sopra, capace di relazionarsi con una pistola, un’automobile, un computer, ha più potere di un uomo incapace di farlo. L’immagine è grossolana, ma come punto di partenza ci si può accontentare. La questione è come esercitare questo potere in maniera che si diffonda e soffochi sul nascere le tentazioni di dominio, o quanto meno le renda più difficili da mettere in pratica. Inoltre, l’esercizio di questo potere deve aiutarci a dissolvere la tecnocrazia, nelle molte situazioni in cui una gerarchia fissa e dispotica si è già costituita, retta da catene semi-automatiche di comando/obbedienza e organizzata in procedure burocratiche.

L’ipotesi da verificare è che nelle interazioni tecniche, in particolare con macchine digitali, le dinamiche di potere, cioè di produzione e applicazione di norme condivise, siano più evidenti che altrove. Sarà allora possibile andare più a fondo rispetto a interazioni non mediate da esseri tecnici. In particolare, una volta chiarito «come funziona» l’interazione, sarà possibile esplorare in ogni direzione, e quindi escogitare contromisure per limitare, anzi impedire l’accumulo di potere, l’emersione di gerarchie e di sistemi di dominio. Al tempo stesso, queste contromisure dovranno dimostrarsi efficaci nell’operare sottrazioni significative ai sistemi di dominio esistenti, specialmente attraverso diserzioni non velleitarie rispetto alle gerarchie vigenti. In sintesi, dovranno aiutarci a immaginare come diffondere modalità di relazione libertarie, che tendono all’anarchia.

La cli è semplice e brutale, senza mezzi termini. L’interfaccia grafica intorno serve solo a indorare la pillola; la riga di comando invece ci ricorda che sotto la scocca risuonano gli ordini, sembra schioccare la frusta. Al di là di questa prima impressione, il comando possibile con la command line è tutto sommato piuttosto equo, nel senso che assomiglia a un’autorevole richiesta formulata in maniera adeguata. L’operatore umano deve avere un’idea chiara di quel che digita. Il sistema non eseguirà comandi mal formulati; probabilmente restituirà un errore. Ciò significa che la forza bruta, l’imperio, la minaccia, la sopraffazione, il timore tipicamente associati al comando sono inutili. Per averci a che fare bisogna fare un certo sforzo, imparare; sbagliare e riprovare.

Anche perché, a differenza di altre interfacce di più alto livello, come le interfacce grafiche (finestre e simili), le righe di comando sono tendenzialmente parche ed essenziali. Ogni dettaglio è significativo, nulla di superfluo. Non proteggono da errori banali: presuppongono un certo grado di competenza. Se l’operatore copia e incolla comandi di cui non comprende il significato, il sistema potrebbe eseguirli e fare tutt’altro rispetto a ciò che l’operatore immaginava o desiderava. Distruggere, cancellare, invece di copiare!

Per poter avere a che fare con la riga di comando bisogna studiare, almeno un poco. Fare un po’ di fatica, applicarsi. Inoltre, chiedere a chi ne sa di più, a chi ha già fatto esperienza e può aiutarci, implica imparare a selezionare le persone di cui fidarsi e tessere una rete di fiducia, invece di affidarsi ciecamente agli esperti.

L’alternativa è ficcare la testa sotto la sabbia e lasciare che se ne occupi qualcun altro, tipicamente un essere tecnico gestito da sedicenti esperti. O una rete, anzi una catena di esseri tecnici, incatenati fra loro, ingranaggi di un sistema più vasto insieme agli esseri umani che pretendono di comandarli, dominati da procedure assurde dettate da legislazioni astruse, perlopiù dalla parte dei poteri costituiti: il sistema tecnocratico e tecnoburocratico che si estende fino a diventare Megamacchina globale, in cui tutto si tiene, ognuno obbedisce perché comanda e viceversa.

Non ci sono ricette magiche, né trucchi per imbrogliare le carte. L’apprendistato non può che essere lungo, e di necessità sempre incompleto. Ma è un gioco che vale la pena di giocare.

Le regole del gioco

Come distinguere le interazioni «giuste» da quelle «sbagliate»? La legalità giuridica non funziona affatto, perché dipende dagli Stati, dalle leggi e da tutti i loro rappresentanti (forze poliziesche, avvocati, giudici e così via). Ciò che risponde a criteri di correttezza giuridica non corrisponde a quello che si può fare con gli strumenti, cioè non discende dalla legittimità tecnica. Nel digitale è del tutto evidente: ad esempio, in alcuni paesi è lecito craccare i programmi informatici, in molti altri (fra cui l’Italia) è un reato penale, se viola il copyright. Altri parametri, come quello etico (è buono?) o estetico (è bello?) risultano poco efficaci, troppo vaghi e soggetti all’arbitrio ben chiarito dal detto de gustibus non disputandum est.

Non ho trovato molte fonti autorevoli per orientarmi. Il classico Tools for Conviviality di Ivan Illich (tradotto in italiano come La convivialità) rimane imprescindibile, ma teorico; soprattutto, propone l’ideale dell’uomo austero che non mi soddisfa, così in odore di pauperismo e di sottomissione a un principio trascendente. D’altra parte le compilazioni sulle tecnologie conviviali tendono a essere assai specialistiche (ad esempio si interessano alle tecniche costruttive a tutti i livelli, in particolare fai-da-te) o decisamente troppo astratte; risultano comunque obsolete rispetto alle apparecchiature elettroniche diffuse nel primo ventennio del xxi secolo e, in definitiva, troppo inclini a creare liste e tassonomie, a cercare di menzionare ogni possibile contenuto/oggetto/strumento, ma relativamente poco attente al metodo. Invece, il metodo è parte del contenuto. Sono andato quindi in cerca di un metodo per raccontare le nuove tecnologie per la convivialità.

Un aiuto inaspettato è venuto da Murray Bookchin, che nell’introduzione a L’ecologia della libertà chiarisce:

Questo libro si focalizza su alcune idee generali che si sviluppano secondo l’andamento erratico e occasionale proprio al pensiero organico piuttosto che secondo modalità strettamente analitiche3.

Non condivido completamente l’approccio di Bookchin e in ogni caso l’obiettivo di questo scritto è molto più modesto rispetto alla sua monumentale trattazione; ma mi convince la sua critica del procedere gerarchico insito nell’approccio analitico. Non è sempre vero, ma spesso nella mia esperienza di lettore mi lascia insoddisfatto la rigidità di gran parte delle strutture logiche tipiche degli accademici. Si presentano come fossero teorie lisce e levigate, senza punti d’appiglio se non quelli codificati e previsti (espressi secondo codici arcani per i non iniziati); perciò non lasciano spazio al dialogo con il lettore non specialistico. Risultano calati dall’alto di una gerarchia incancrenita e, al pari di tanta parte della produzione saggistica, mi sembrano davvero «pappette predigerite», eppure indigeste. Spesso trovo articoli e saggi estremamente puntigliosi, eppure, in definitiva, con una densità concettuale minima. Tendono a girare intorno a poche idee, annacquate in una quantità spaventosa di dati, citazioni e riferimenti, che servono per aumentare l’impact factor, cioè il valore di quel testo sul mercato della ricerca.

Mi è stato fatto notare che le trattazioni accademiche non sono necessariamente la sentina di ogni vizio, e che ci sono ben altri ambiti di spreco e corruzione al di là dell’università. Certo, è vero. Ma non mi stupisco se l’idiozia e il conformismo vengono alimentati da militari guerrafondai, politici corrotti, funzionari incompetenti o industriali avidi. Invece mi sconforta che troppi fra coloro che ricercano e studiano per mestiere abbiano contribuito, volenti o nolenti, alla crisi generalizzata di questi tempi. Con i loro complicati studi non hanno saputo arginare l’irrazionalismo montante e hanno anzi soffiato sul fuoco delle contrapposizioni identitarie.

Così, invece di cercare di distillare concetti granitici da una riflessione per forza di cose piuttosto ombelicale, ho pensato di lasciare spazio in primo luogo all’esperienza, per poi cercare di sintetizzare delle linee guida. Non per vana aneddotica, ma perché ritengo che un approccio in parte autoetnografico possa rivelarsi più adeguato a questa ricerca. Dopotutto non sono l’unico umano che ha a che fare con questi esseri tecnici: più che discettare in astratto, mi piace descrivere le situazioni concrete in cui altri potrebbero riconoscersi, e quindi contribuire a ridurre la diffusissima alienazione tecnica.

Mi piacerebbe anche ispirarmi agli straordinari dialoghi di Errico Malatesta in Al caffè: discutendo di rivoluzione e anarchia, ma non ho le idee così chiare da poter mettere in scena dei personaggi riconoscibili. Saranno dunque piuttosto stereotipati, o tratti da resoconti di fatti realmente avvenuti. In ogni caso, passando dalla pratica alla teoria, senza pretese sistematiche, cercherò di limitare la frammentarietà ritornando frequentemente ad alcuni punti saldi, concetti, autori.

Il potere come funzione regolativa sociale è già stato enunciato. La fiaccola dell’anarchia anche, e rimane un faro guida. Un altro è la convivialità. Pur mantenendo un certo grado di vaghezza e un sapore forse eccessivamente classico, carico dei tanti significati di una lunga storia, presenta alcune caratteristiche interessanti.

La convivialità è dinamica, plurale e mutevole. Il convivio, l’antico simposio, è infatti una cena, un pranzo insieme, un banchetto. Gli argomenti affrontati in questo libro e le indicazioni di metodo che ne derivano sono gli ingredienti grezzi da miscelare per creare convivialità; in alcuni casi sono anche le pietanze già cucinate e raffinate, le modalità di preparazione delle ricette, i consigli per ottenere risultati più appetitosi, presentarli, apparecchiarli e gustarli. Non mancheranno le avvertenze riguardo ai possibili rischi di accostamenti decisamente infelici, o potenzialmente dannosi, così come suggerimenti per lanciare la fantasia a briglia sciolta e immaginare combinazioni inedite.

La convivialità non è il caos in cui ciascuno fa quel che gli pare, né l’ordine in cui ogni interazione è prescritta e decisa in anticipo da un rigido programma in esecuzione. Il banchetto riuscito è un’armonia senza padroni e senza servi, in cui non si obbedisce né si comanda. Ma non è una semplice via di mezzo tra il dominio e la sottomissione: al contrario, è un percorso accidentato, perché si confronta non solo con le influenze reciproche fra esseri umani, ma anche, nel caso di interazioni mediate dalla tecnologia, con i poteri derivanti dagli esseri tecnici, che bisogna imparare a gestire.

Bisogna darsi delle regole di buona ricreazione, organizzare per bene, altrimenti va tutto in malora: senza organizzazione, c’è troppa poca varietà. Capita allora, nel caos disorganizzato, nell’anomia, che tutti hanno portato del vino, nessuno da mangiare; capita che c’è troppo di questo e poco di quell’altro; non tutti trovano posto, non si trovano gli utensili per distribuire le vivande, abbandonate senza riguardo; magari si manifesta l’ubriachezza molesta, esplode l’aggressività, i timidi si rifugiano sotto il tavolo mentre sopra si viene alle mani. Siccome ognuno ha le sue idiosincrasie, i suoi demoni da seguire o meno, è il caso di ascoltare gli altri, e di imparare ad ascoltarsi, insieme. Ci vuole buona disposizione d’animo, ovvero una certa grazia.

Di certo un convivio non si fa in solitudine: per creare convivialità si deve perciò tener conto delle sensibilità di chi partecipa. Oltre ai poteri, c’è da confrontarsi con le vulnerabilità che inevitabilmente risultano più evidenti, perché in pubblico, fra un boccone e un bicchiere, in una chiacchiera, in uno scambio, ci si confida, ci si lascia un po’ andare, si allentano le maschere della commedia quotidiana ed emerge con nettezza il carattere di chi partecipa. Vulnerabilità va inteso nel senso di sensibilità specifica, di cui prendersi cura; non nel senso di debolezza, da guarire in ossequio a una norma prestabilita. C’è chi non sopporta il peperoncino e chi ne vuole molto di più. Chi adora la cipolla al punto da ficcarla ovunque. Chi rifugge l’aglio, chi non digerisce il glutine.

C’è anche chi ha fatto un passo in più e ha imparato a convivere con le proprie vulnerabilità, associando un piatto a un altro, allungando una cottura, aggiungendo spezie diverse in momenti adeguati: evitando quindi di indulgere in un certo comportamento e privilegiandone altri. Gli esseri tecnici possono aiutarci a mettere a nudo e quindi ad affrontare le vulnerabilità degli esseri umani: dopotutto, sono stati creati per potenziarli, ovvero per cavarli d’impaccio e rimediare alle loro debolezze. Ma anche e soprattutto per divertire, stupire, provocare meraviglia.

Nei momenti conviviali le chiacchiere possono fissarsi in racconti e storie. Per questo di tanto in tanto ho inserito una storia capace di mostrare le qualità degli strumenti qui raccontati.

Questa non è un’enciclopedia completa né una trattazione esaustiva: è un piccolo assaggio, assolutamente di parte, degli strumenti, delle tecniche e delle metodologie per la convivialità che popolano questo pianeta e convivono con gli umani in questo scorcio di xxi secolo. Ce ne sono senz’altro altri. A chi legge il compito di trovarli, prendersene cura e diffondere quel che hanno imparato.

Senza illusioni e senza rimpianti.

Note all’Introduzione

1. Tassonomie e classificazioni sono sempre temporanee, oggetto di revisioni continue. Le specie si evolvono, i confini fra esse sono labili e le conoscenze in merito mai fissate una volta per tutte. Il modello a cui faccio riferimento è liberamente accessibile online.

2. Tomás Ibáñez, L’anarchia del mondo contemporaneo, elèuthera, Milano, 2022, p. 142.

3. Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, elèuthera, Milano, 2017, p. 42.