capitolo quinto

Attriti e frizioni.

Ambienti tecnici associati

Tratti dell’evoluzione tecnica nel retaggio del dominio. Tendenza a diminuire attriti e frizioni, ad aumentare la circolazione e la velocità. Ingredienti della tecnocrazia: alienazione crescente, necessità di affidamento cieco in soluzioni tecniche, similitudini con le credenze magiche alienanti. Peculiarità della tecnologia informatica in rete. Ambienti associati: meticciare esseri tecnici ed esseri umani. Oltre l’autodifesa e la diserzione: hackerare l’evoluzione tecnica. Associarsi per la libertà: il mutuo appoggio come pratica regolativa.

L’evoluzione tecnica nel retaggio del dominio

Il retaggio del dominio è composto dalla selezione di tratti evolutivi nei quali esseri umani ed esseri tecnici tendono a sottomettersi e dominarsi reciprocamente. Adattamenti ed esattamenti vengono effettuati in maniera funzionale all’instaurazione di gerarchie fisse idonee all’esercizio del dominio. Il potere viene accantonato, accumulato e tesaurizzato. In queste evoluzioni dispotiche gli esseri implicati nelle Megamacchine digitali agiscono e sono agiti da moti di comando/obbedienza, perlopiù organizzati secondo serie di automazioni scelte in maniera non consapevole. La ripetizione genera l’ossificazione di procedure di comando/obbedienza che si materializzano in nuove versioni del sistema tecnico, percepito come via via più oppressivo. L’instaurarsi di un vero e proprio ritmo del dominio struttura gerarchie tecnoburocratiche in cui le catene di comando/obbedienza sono talmente lunghe e articolate da rendere apparentemente impossibile disertare alla pressione sociale, psicologica, emotiva ed economica che spinge a sottomettersi al sistema tecnico, presentato come un ineludibile dato naturale, frutto del progresso scientifico.

Il farsi natura del sistema tecnico oppressivo implica la cooptazione e sottomissione di ogni essere, non solo di esseri umani ed esseri tecnici, ma ovviamente anche di animali, piante e altri esseri organici e inorganici. Tutto diventa risorsa utilizzabile, spendibile e sostituibile.

Ma non si tratta affatto di un quadro complessivo tipico dell’epoca attuale: il dominio si è presentato in epoche remote, probabilmente come accidente evolutivo, e poi è stato scientemente evoluto da alcuni esemplari di Homo Sapiens Sapiens per saziare la loro brama, fino a estendersi a livello globale sotto forma di Megamacchine digitali. Questa lenta e consapevole volontà di dominio non è una novità recente, imposta dalla cosiddetta rivoluzione industriale nelle sue varie ipostasi, o dalle più recenti tecnologie digitali globali.

Da quando ha fatto la sua inopinata comparsa, il dominio ha sempre selezionato gli esseri umani dalle caratteristiche maggiormente sociopatiche per occupare i livelli alti della gerarchia: presidenti, manager, generali e via discorrendo, tutte posizioni impossibili da occupare per persone mosse da pratiche di mutuo appoggio e abituate a relazioni conviviali. Chi potrebbe mai decidere di mandare a morte i soldati sottoposti? Di dichiarare guerra, consapevole delle distruzioni e sofferenze che causerà? Solamente umani profondamente sociopatici: gli altri in quei posti di dominio non ci sanno stare. Questa è la tesi ben argomentata dallo scrittore e medico Alex Comfort nel suo classico Potere e delinquenza. Allo stesso modo, il sistema del dominio seleziona gli esseri tecnici meno disponibili alla libera interazione fra pari per strutturare le tecnocrazie.

La Tecnica che tutto dispone come Megamacchina globale non è però una modalità dell’essere, un modo in cui il mondo intero si dispone oggi, come sostiene Heidegger discettando del Gestell. Sostenere una simile tesi significa addossare ogni responsabilità all’essere tecnico, declassato a oggetto e contrapposto al soggetto umano. Significa anche elevare l’umano a vertice indiscusso di una presunta scala evolutiva gerarchizzata, quando invece, dal punto di vista evolutivo, ogni essere occupa la propria nicchia ed è, in quel dato momento, l’esito di un processo di differenziazione evolutiva di cui rappresenta il punto apicale.

Costruire un Altro disumano e disumanizzante, che tutto ingloba in un quadro da cui non si può uscire, un Altro alieno, alienato e alienante incarnato nella Tecnica, rivela l’ambivalenza di tale processo. L’alterità tecnica viene infatti presentata come mostruosa, un monstrum, cioè, come ricorda l’etimologia latina, un’entità al tempo stesso orrenda e ributtante ma anche affascinante perché oltrepassa i limiti di ciò che viene considerato normale, rispettoso della norma. Il mostruoso della tecnica, affascinante e ributtante insieme, è stato storicamente incarnato nelle macchine.

La Macchina è il monstrum della Modernità, e la modernolatria futurista (dell’avanguardia futurista) è stata anche e soprattutto macchinolatria; l’insieme delle Macchine e delle procedure che ne irreggimentano l’esistenza è la Tecnica che si pone come orizzonte imprescindibile e destino di tutte le specie. Secondo questa narrazione, il mondo è dominato dall’apparato tecnico che cattura ogni essere e lo sottopone al suo giogo.

Non di rado questa narrazione promuove di fatto atteggiamenti irrazionali e misticheggianti che, con il pretesto di riscoprire la spiritualità contrapposta al materialismo, costituiscono una resa di fronte alla possibilità di comprendere, conoscere e vivere insieme alle macchine e agli esseri tecnici in pace e libertà. Sono atteggiamenti tecnofobi tipici del peggior oscurantismo anti-illuminista che si perdono nell’esaltazione di miti dell’origine, di nostalgie regressive e reazionarie rivelate da espressioni come «si stava meglio una volta», «ai miei tempi queste cose non succedevano», e via recriminando.

La tecnica (insieme all’umano) non diventa parte di un dispositivo tecnocratico globale per destino ineluttabile, ma per una catena di selezioni di tratti afferenti al retaggio del dominio, che alimenta l’alienazione tecnica, cioè scava il fossato fra gli esseri viventi e non. Come nel caso delle serie evolutive da cui si originano le specie viventi, la selezione opera privilegiando la riproduzione e diffusione degli esseri e delle pratiche idonee, dotate di maggiore fitness (idoneità), ovvero scartando i non idonei. Ma, a differenza dell’evoluzione organica, l’evoluzione tecnica è diretta da teorie di formulazione umana, ed è la rispondenza a quelle teorie che determina la selezione stessa.

Poiché la tecnica è fonte di potere, sarà la concezione del potere a orientare le teorie tecniche da cui si originano le specie tecniche nelle loro materializzazioni tecnologiche. L’idoneità o fitness tecnica è la fitness rispetto a come viene concepito il potere.

A un estremo troviamo le teorie del governo e del dominio, secondo cui l’accumulo e accentramento del potere genererà un sistema adeguato a governare tramite gerarchie rette da regole di comando/obbedienza. Seguono un gran numero di teorie intermedie che prevedono e auspicano un certo grado di governo e dominio, con diversi livelli di autoritarismo e gerarchia, eventualmente anche sotto forma di autogoverno. All’estremo opposto troviamo le teorie dell’autogestione e della libertà. Fra queste teorie radicali la più consequenziale è quella anarchica, secondo cui il dominio va distrutto, insieme a ogni principio di governo, per instaurare un mondo di esseri liberi e uguali. Nella formulazione qui proposta, questo può verificarsi solo attraverso la diffusione del potere, da estendere a ogni essere, vivente e non, fino al punto di generare un sistema in cui il governo, insieme alla gerarchia, vengano dissolti a tutti i livelli tramite relazioni di mutuo appoggio, atti concertati di diserzione alle dinamiche di comando/obbedienza, moti di rivolta e distruzione di ogni principio autoritario.

Nel retaggio del dominio, i tratti considerati idonei a essere selezionati (negli umani come negli esseri tecnici) sono diversi. Fra questi elenchiamo senz’altro la capacità di comandare e di obbedire; la predisposizione all’assoggettamento; la determinazione a diffondersi senza limiti nel tempo e nello spazio, presentandosi come soluzione indiscutibile e indubitabile; il disprezzo per la gentilezza e l’adorazione per la forza bruta; la predilezione per la competizione senza regole; l’adorazione per le masse compatte, informi e il timore per gli individui difformi, particolari e non inquadrabili in categorie prestabilite; il terrore per la contaminazione, la mescolanza, il meticciato; l’esaltazione della purezza identitaria; la tendenza a stabilire identità nette e fisse; il piacere morboso per la maldicenza, l’ipocrisia e le «verità» urlate che fanno esplodere conflitti irrimediabili; la fascinazione per la disciplina; il timore per la libera creatività.

Così, lungi dall’avvenire per oscure trame, la selezione di tratti autoritari predispone gli umani ad affidarsi alla delega tecnica. Sarà quella determinata categoria di esperti a detenere la conoscenza e a gestirla per il bene del mondo. Dal canto loro, in maniera analoga, i sistemi tecnici vengono selezionati se si mostrano capaci di gestire la delega tecnica senza soluzione di continuità, senza lasciar spazio a dubbi e perplessità, proponendo sequenze liturgiche idonee da eseguire per accondiscendere, per imparare la disciplina. La credenza implicita è che i sacerdoti-esperti, umani o meccanici, riconosceranno le orazioni corrette e provvederanno al corretto funzionamento del sistema.

Allo stesso modo, la selezione di tratti competitivi predispone alla competizione reciproca, propagandata come unica via evolutiva senza alcuna considerazione per il mutuo appoggio, fattore invece fondamentale per l’evoluzione come è stato ampiamente dimostrato dallo stesso Darwin e poi, più diffusamente, da Kropotkin e da molti altri scienziati. Anche i sistemi tecnici sono posti in competizione fra loro: in questo contesto solo la tecnologia migliore s’impone e vince, dove migliore significa in effetti migliore per il retaggio del dominio, cioè capace di rafforzare il governo dispotico che misura, classifica, identifica, ordina, blandisce, corrompe, discrimina, comanda, distrugge, opprime, inquina, saccheggia, imprigiona, muove guerra, tortura e uccide.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma il nostro obiettivo non è analizzare nel dettaglio come funzionano le tecnologie del dominio. Tuttavia, per elaborare tecnologie conviviali è importante saper individuare le linee evolutive di speciazione tipiche del dominio. Così come non esiste una natura umana intrinseca, buona o cattiva, allo stesso modo non esiste una natura tecnica intrinseca, buona o cattiva. Esistono però insiemi di tratti caratteristici delle selezioni operate nel solco del retaggio del dominio.

Una serie di apparecchi e strumenti vengono eliminati e cadono in disuso a favore di altri, considerati più potenti e adeguati: vengono così selezionate specifiche caratteristiche all’interno di un ventaglio molto ampio di possibilità, riducendo una varietà tecnica a uno standard monotono. L’evoluzione è in corso qui e ora, a tutti i livelli. L’evoluzione nella direzione del dominio comporta sempre una riduzione di diversità e varietà biotecnica, in ogni ambito, sia nel campo delle specie coltivate a scopo alimentare sia nel campo delle tecniche costruttive per l’edilizia, e in mille altri. Come si riduce la varietà dei cereali coltivati tradizionalmente a favore di alcune specie sterili selezionate dall’industria agroalimentare, identiche in tutto il mondo, così si riduce la varietà delle tecniche costruttive antiche, specifiche di un determinato ambiente geografico, sociale e culturale, a favore di soluzione identiche per tutti a tutte le latitudini. L’uniformazione industriale è strutturalmente dispotica, perché comporta la strutturazione di gerarchie specializzate nelle quali esseri umani ed esseri tecnici sono ingranaggi di un’interminabile catena di dominio.

Imparare a riconoscere i caratteri tipici del dominio e, per converso, della libertà è quindi esiziale. Potremo così riconoscere a colpo d’occhio, in base al suo comportamento standard, in quale campo sta operando un essere tecnico, almeno prevalentemente. Questo non per condannare ma per imparare a distinguere e a scegliere con quali tecnologie avere a che fare, con quali strumenti accompagnarci e di quali sistemi fidarci; perché, proprio come non è possibile imporre la pace con le armi, così non è possibile creare convivialità attraverso tecnologie dispotiche.

È possibile analizzare la stirpe degli esseri tecnici che danno vita ai sistemi tecnici, evidenziando le relazioni di potere che si articolano nelle interazioni fra esseri umani ed esseri tecnici. È possibile osservare gli strati di interazione reciproca con gli strumenti della pedagogia hacker, cioè facendo un po’ di autoetnografia delle nostre più semplici e banali azioni quotidiane con la curiosità tipica dell’attitudine hacker. Nulla è scontato, anzi, più un’interazione appare ovvia, più una domanda sembra semplice, più è probabile che ci sia qualcosa sotto, una complessità nascosta che dev’essere rivelata per comprendere come si struttura il retaggio del dominio tecnocratico.

Un caso di studio esemplare è il sistema del denaro. Dalle pesanti e ingombranti monete si passa alla cartamoneta, agli assegni, fino al salto elettronico con le carte di credito. Meno attriti, meno frizioni, assorbite da esseri tecnici più idonei, cioè selezionati per limitare i contatti e facilitare la circolazione dei flussi finanziari. Ogni passaggio implica l’intervento di un numero sempre maggiore di esseri tecnici, concatenati fra loro e orchestrati in sistemi di retroazione via via più sofisticati. Così le carte di credito contactless comportano l’intervento di onde radio particolari e nuove generazioni di microchip. Per finire (per ora) con i sistemi di pagamento tramite riconoscimento delle impronte digitali, o del viso del compratore umano.

In queste serie, interazioni tecniche più complesse sono caratterizzate da un incremento di automazione. Viene selezionata la capacità di abbassare il livello di frizione fra essere umani ed esseri tecnici, aumentando quindi parallelamente il livello di delega e l’intensità dell’alienazione tecnica. Minor consapevolezza rispetto alla messa in opera dei sistemi, maggior ricorso a gesti e comportamenti frutto di addestramento, uguali per tutti. Mentre le monete possono mantenere un elevato grado di diversità fra loro, le carte di credito tendono a ridurre la varietà e ad aumentare l’uniformità. Fino ai sistemi di riconoscimento facciale, di cui possono esistere pochissime implementazioni diverse, perché l’aumentata complessità e l’estensione potenzialmente senza limiti della rete di pagamento implica costi produttivi e gestionali molto più elevati, ovvero minore autonomia nella messa a punto di tecnologie locali, diverse fra loro eppure capaci di interagire in maniera efficace. L’esempio del denaro mostra che un aumento di automazione coincide con una maggiore complessità tecnica, nascosta e mascherata da interazioni stereotipate, meccaniche.

La pressione a escogitare soluzioni idonee per qualsiasi situazione, in ogni angolo del mondo, è connaturata alle specie di esseri tecnici generati su scala globale dagli apparati militari-industriali, in maniera sostanzialmente indipendente dai sistemi di governo in vigore nelle società umane. Una ricognizione più approfondita dell’evoluzione del sistema tecnico del denaro è a disposizione fra i materiali.

Tecnomagie e altre credenze

Credenza è un’altra parola chiave del retaggio del dominio. Per potersi davvero servire delle macchine è necessario credere che le tecnologie siano la soluzione giusta, corretta, anzi inevitabile. Beninteso, tecnologie al nostro servizio, obbedienti ai nostri comandi (impliciti oltre che espliciti), destinate a mettere gli umani al riparo dai disastrosi reciproci attriti. È necessario dunque credere alla Tecnologia in quanto oracolo che predice il futuro. Credere nella Tecnologia in quanto mezzo per fare qualsiasi cosa. Credere che la Tecnologia ci salverà dalle nostre goffaggini, sbadataggini. Credere che la tecnologia ci preserverà dai pericoli ignoti e li trasformerà in rischi calcolati. Solo così riuscirà ad aumentare a dismisura la velocità, a ridurre il tempo necessario per qualsiasi operazione, ad annullare le distanze e quindi lo spazio, a moltiplicare le occasioni di svago, guadagno, profitto, incontro per ognuno dei miliardi di esseri umani che s’incrocia con ogni altro a ritmi e frequenze inimmaginabili senza detta tecnologia.

Essa sarà certamente in grado di calcolare la traiettoria precisa per evitare l’impatto, lo schianto, la catastrofe. Ma i cicli di retroazioni sovrapposti rischiano di fuorviare l’attenzione invece di aiutare a concentrarla. E così, una notifica dopo l’altra, la concentrazione, tirata per la giacchetta, si perde per strada. Beep! = attenzione!, se notifica allora distrazione dall’attività in corso! Si può rischiare di andare fuoristrada, distrazione da cellulare. Per fortuna la Tecnologia aveva previsto l’air-bag, la frenata assistita, i sistemi di controllo. In attesa delle auto a guida totalmente autonoma, per consentirci di messaggiare in libertà!

Non era meglio un po’ d’attrito? Un po’ di fatica? Domande che possono suonare retoriche e, in fondo, contrarie allo Spirito del Tempo, non solo antiprogressiste ma persino reazionarie. Domande che possono apparire una condanna senza appello di ogni tecnologia dedita all’automazione, alla semplificazione e allo snellimento delle interazioni, con annesso rimpianto per i bei tempi andati, quando non c’erano tutte queste macchine in mezzo a noi.

Eppure, no. Personalmente, sono un amante degli esseri tecnici. Mi piacciono le macchine, mi piace averci a che fare. Sono tutte diverse l’una dall’altra: anche se costruite e assemblate in serie, non esistono due macchine perfettissimamente identiche l’una all’altra. Più sono complesse, più tendono a manifestare una loro personalità, delle idiosincrasie, delle caratteristiche individuali. Diventano compagne di viaggio con cui interagire nel rispetto delle reciproche libertà. Non per proiezione antropocentrica, non perché io voglio a tutti i costi riconoscere dell’umano o del vivente nel non umano e nel non vivente, ma semplicemente perché nei loro cicli di funzionamento non possono fare a meno di mostrare singolarità, punti di forza e di debolezza dovuti ai materiali costruttivi, alle tecniche di assemblaggio, alle logiche di programmazione, ai presupposti di progettazione, alle sinergie impreviste fra diversi livelli e così via.

Ho detto che mi piacciono le macchine e mi piace averci a che fare. Non con tutte però. Non sopporto le macchine corporative, le macchine serve, gli esseri tecnici schiavi che trascorrono la loro esistenza a rendere altri esseri altrettanto servi e schiavi. Le macchine dell’automazione industriale, le macchine dell’automazione militare, le macchine dell’automazione commerciale e finanziaria. Le macchine non sono tutte uguali. A chi si ispirano le fattezze e le movenze delle macchine? Da quali valori tirano le somme per calcolare le proprie azioni?

L’opera di Norbert Wiener, matematico nato e cresciuto negli usa, di famiglia ebraica, è uno snodo fondamentale per la riflessione sui rapporti fra esseri umani ed esseri tecnici. Wiener aveva vissuto l’epoca della Grande Guerra, dell’ascesa dei totalitarismi, della Grande Depressione, della seconda guerra mondiale, e aveva maturato un profondo pessimismo riguardo all’evoluzione dei sistemi di controllo e comunicazione gestiti automaticamente da macchine. Allora l’informatica ancora non esisteva, o meglio, l’informatica di massa esisteva solo a livello di speculazione teorica; le reti transnazionali erano agli albori e in pratica esistevano solo giganteschi prototipi di calcolatori elettronici a uso militare e accademico.

Prima di ribattezzarla Intelligenza Artificiale si parlava di cibernetica, dal greco antico kubernetes, in italiano timoniere, in latino gubernator, ovvero colui che governa (la nave), da cui derivano i termini relativi a governo. Wiener aveva contribuito enormemente alla diffusione del termine cibernetica con due testi: La Cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina (1948) e il meno tecnico L’uso umano degli esseri umani (1950). Vedeva il mondo come un insieme di complessi circuiti di retroazione, in cui sensori, segnali e attuatori (ad esempio i motori, che mettono in atto i segnali trasmessi dai sensori) interagiscono attraverso un intricato scambio di informazioni. Razzi, robot, linee di assemblaggio automatizzate, reti di calcolatori sono tutti derivati dalle applicazioni ingegneristiche della cibernetica.

In piena Guerra Fredda, Wiener metteva in guardia dal rischio per le democrazie di combattere i totalitarismi con le armi del totalitarismo stesso: ad esempio, costruendo servomeccanismi, ovvero sistemi di retroazione, in grado di scatenare l’apocalisse (nucleare) semplicemente pigiando un bottone. se i sovietici avessero lanciato le loro testate, alloraaltrimenti…: ritorna il costrutto condizionale a fondamento di tanta automazione.

Wiener era anche convinto che la cibernetica presenta molti punti di contatto con la religione. In fondo si tratta di costruire automi, esseri dotati di capacità automatiche. I temi della capacità di apprendimento, della consapevolezza e della coscienza in una creatura, della separazione fra creatura e potenza creatrice, dell’immortalità tecnologica, dell’onniscienza, dell’onnipotenza e molti altri ancora sono discussi nel breve e illuminante God & Golem Inc. (1963).

Dal momento che gli umani hanno sempre costruito macchine a immagine della propria intelligenza, le macchine sono immagini riflesse degli umani stessi. Dei loro moventi più intimi, delle loro paure più recondite, dei loro desideri più sfrenati. Abbiamo già ricordato che la legittimità tecnica non ha nulla a che vedere con la legalità giuridica: l’apparizione di un essere tecnico determina un regime altro rispetto all’esistente, che il diritto si affanna a cercare di normare, restando però sempre parecchi passi indietro. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare l’istituzione della norma legiferata, utile semmai a sanzionare dopo che i disastri emergenziali sono stati normalizzati. Abbiamo un mondo solo in cui convivere, e se vogliamo vivere insieme senza obbedire né comandare dobbiamo imparare a farlo ora.

Poiché l’ansia di dominio e di prevaricazione è uno dei motori più frequenti delle azioni umane, non è strano che gli esseri tecnici si rivelino tanto funzionali all’estensione del dominio. Il disastro sembra inevitabile. Ma è un abbaglio, un errore antico: la natura degli esseri tecnici non è fissa né prestabilita, proprio come la natura degli esseri umani non è fissa né prestabilita. Gli esseri umani non sono buoni o cattivi di natura: dipende da come vengono educati, da come si creano nel mondo. Allo stesso modo, le macchine non sono buone o cattive, le loro capacità operative e caratteristiche materiali dipendono da come vengono costruite e ri-costruite e interagite. Fra gli uni e gli altri una comune particolarità: esseri né buoni, né cattivi, ma con alcune caratteristiche di base che determinano alcune potenzialità. Gli esseri umani dotati di pollice opponibile possono afferrare; gli esseri tecnici dotati di schermi possono offrirsi allo sguardo di chi è provvisto di occhi, e così via inter-agendo.

La scommessa delle tecnologie conviviali è immaginare molteplici alleanze con i non umani. Per questo lasciamo i legittimi e condivisibili ammonimenti di Wiener, che pure si spinge fin sul limitare di un pensiero e di una pratica dell’alleanza, e seguiamo le indicazioni di un filosofo amante delle macchine, disposto a prendersene cura e a insegnare ai suoi allievi come convivere con gli esseri tecnici: Gilbert Simondon.

Ambienti associati: tecnici e umani

La quantità e la potenza degli esseri tecnici che convivono con gli umani sul pianeta Terra si è moltiplicata nel corso del xx secolo, per impennarsi all’inizio del xxi secolo. Dalle fabbriche e dalle catene di montaggio, dalle officine specializzate e dai laboratori di ricerca, dalle strade, ferrovie e rotte di navigazione, gli esseri tecnici connessi fra loro in rete si sono riversati nella vita quotidiana, al di fuori dell’ambito lavorativo. Dopo le radio e le tv, miliardi di smartphone, pc, tablet, sensori e altri dispositivi furbi convivono con umani, ma anche con piante e altri animali, quasi sempre per scopi di monitoraggio e controllo.

Utensili e dispositivi sono parte dell’evoluzione umana; anzi, senza tecnica e tecnologia l’umanità non potrebbe esistere. Ma la recente accelerazione sembra eccessivamente rapida, tanto da creare scompensi su vasta scala. Molte persone si sentono inadeguate, incapaci e impotenti di fronte a quella che viene spesso percepita come un’invasione. Persino i più tecnofili faticano a stare al passo.

Con il senno di poi, sembra quasi che l’avvento del calcolatore elettronico abbia scatenato linee evolutive incontrollate e incontrollabili, agitando lo spauracchio della perdita di supremazia dell’umano, surclassato nel giro di pochi decenni dalle straordinarie prestazioni dei discendenti della stirpe elettronica. Gli esseri tecnici digitali sembrano risvegliare gli incubi dell’artificiale che si ribella al padrone umano, magistralmente raccontati dalla mitologia ebraica del Golem. Le mitologie antiche non mancano di automi: in quella greca basti ricordare il gigantesco Talos, posto da Zeus a protezione di Creta. Ma oltre a forza straordinaria, capacità di lavorare e produrre senza pari, questi nuovi esseri artificiali sono anche dotati di intelligenza, o quanto meno sembrano esibire comportamenti intelligenti, un po’ come la statua costruita dal mitico inventore Dedalo, capace di muoversi e parlare.

Ma il senno di poi non è buon consigliere, anzi. In genere tende a presentare correlazioni non significative e sparuti indizi come inoppugnabili prove causali. Senz’altro la linea evolutiva iniziata dai giganteschi cervelli elettronici a valvole, che occupavano intere stanze negli anni Cinquanta del xx secolo, per concretizzarsi negli attuali smartphone tascabili, è pesantemente orientata dalle pratiche del dominio. D’altra parte, quelle macchine erano state sviluppate principalmente per scopi militari, così come la rete di Internet: non stupisce il fatto che prolunghino in varie direzioni il loro imprinting originario.

Questi dati di fatto però, ripetiamolo, non significano che gli esseri prodotti dall’elettronica e dall’informatica siano di natura malvagia: dipende da come vengono creati al mondo, cioè da come vengono progettati, realizzati, socializzati nel mondo tecnosociale. Da dove vengono le materie prime? Da chi e come sono stati costruiti, assemblati, commercializzati? Quali erano le convinzioni, ideologie e credenze di coloro che li hanno programmati? Come vengono connessi ad altri esseri tecnici e umani? Dipende quindi dalle modalità di relazione di cui si nutrono e che favoriscono. In ultima analisi, l’imprinting fondamentale deriva dalle teorie del potere sottostante. A seconda che siano orientate verso l’accumulo o la diffusione del potere, la strutturazione di gerarchie autoritarie o di relazioni di mutuo appoggio, daranno luogo a lignaggi biotecnici diversi. Le linee evolutive di esseri tecnici ed esseri umani sono strettamente connesse e possono essere orientate diversamente, passando dal mutuo condizionamento al mutuo appoggio. Si tratta di educarci a una cultura tecnica, e a una cultura tecnica libertaria perché liberatoria.

È importante ribadire che l’uso, l’utilizzo, rimane relativamente secondario, in quanto subordinato alle caratteristiche tecniche intrinseche nell’oggetto e nella rete di relazioni nel quale viene progettato e quindi creato al mondo. Infatti, in queste fasi di progettazione, di realizzazione (a partire da versioni precedenti dello stesso oggetto/macchina) e quindi di socializzazione (influenzata dall’ambiente circostante e dalle abitudini relazionali pregresse), sussistono necessariamente delle caratteristiche tecniche specifiche. Tali caratteristiche possono essere orientate alla riproduzione di automatismi, alla sottomissione degli altri esseri viventi e non, alla perpetuazione e intensificazione del dominio. Oppure, in direzione opposta, alla generazione di eventi creativi imprevisti, all’emancipazione degli altri esseri viventi e non, alla dissoluzione delle gerarchie e alla realizzazione della libertà.

Per questo non tutti gli umani sono preda di paura e risentimento per quelli che vengono considerati gli schiavi meccanici dell’umanità, che sembrano minacciarne la supremazia. Questo nonostante la recrudescenza di antichi timori rispetto alle macchine che sostituiscono gli esseri umani nelle mansioni lavorative, da quelle più manuali e ripetitive fino a quelle altamente cognitive e perfino creative. Ma legare le macchine al paradigma del lavoro e arrivare al punto di identificare il progresso tecnico con la crescente automazione è stato un gravissimo errore che, purtroppo, continua a essere reiterato. Negli ultimi decenni si ripropone con alterne fortune la favoletta dell’Intelligenza Artificiale, per nulla intelligente e poco artificiale, ma senz’altro basata sullo sfruttamento di enormi risorse naturali e umane, vera e propria incarnazione del sogno distopico dell’Automazione Industriale1.

Hackerare l’evoluzione tecnica

Senza dubbio la contrapposizione fra la tecnica e la cultura appartiene al retaggio del dominio, così come ogni altro dualismo netto, ogni contrapposizione priva di sfumature, ogni identità cementata attorno a parole d’ordine sbandierate e urlate da sedicenti esperti. Nell’antichità le macchine, esseri frutto di astuzia e scaltrezza (mechané), erano immaginate e costruite spesso per motivi culturali, ad esempio per facilitare spettacoli teatrali, per divertire e stupire.

Non tutti gli umani mirano a sottomettere gli esseri tecnici per consolidare il proprio dominio. Alcuni umani si trovano a loro agio con esseri tecnici digitali; ne selezionano caratteristiche che trovano piacevoli e interessanti; li modificano e si adattano a loro per vivere in maniera più piena, piacevole e divertente. Si adoperano costantemente per ridurre l’alienazione tecnica. Sono quelli che definisco hacker.

Questo termine ha forse bisogno di un chiarimento. Nelle nostre formazioni di pedagogia hacker, di solito, le persone identificano come hacker quelli che sono invece i security hacker, esperti che si occupano di sicurezza informatica, disgraziatamente troppo spesso al soldo di qualche padrone (militari, agenzie di sicurezza, polizie, istituzioni o privati che siano). Per noi, invece, hacker sono le persone animate da attitudine hacker: curiosità nei confronti della macchine; desiderio di comprenderne il comportamento, di modificarlo, di migliorarlo magari; abitudine a condividere le proprie ricerche e scoperte con persone affini.

Non è un atteggiamento strano, una volta che si accetta l’idea che gli esseri tecnici fanno parte del mondo comune tanto quanto altri esseri. E non ha necessariamente a che fare con i computer: si può esercitare l’attitudine hacker nei confronti di esseri tecnici non digitali. Esistono quindi hacker delle biciclette, delle radio, delle tv, persino delle pulegge e degli argani. In questo senso, i meccanici antichi sono i precursori degli hacker informatici; o meglio, questi ultimi sono i pronipoti di quei filosofi pratici, spesso considerati alla stregua di maghi. Del resto, ogni buon mago applica dei saperi tecnici in maniera raffinata. Archita di Taranto (iv secolo a.C.) faceva volare una colomba di legno grazie all’aria compressa contenuta all’interno, che fuoriusciva attraverso una valvola2; in maniera simile, per piacere e divertimento, moltissimi hacker hanno contribuito all’ascii art, l’arte di comporre immagini e molto altro con caratteri del codice per la codifica caratteri ascii (American Standard Code for Information Interchange). E gli esempi si potrebbero moltiplicare3.

Questo significa che alcuni umani si prendono cura di alcuni esseri tecnici, nel senso che vivono insieme a loro, in maniera conviviale, e formano un ambiente associato al quale ognuno contribuisce a modo suo, modificandolo e venendone modificato. Ambiente associato (milieu associé) è il termine che Gilbert Simondon ha coniato per definire l’ambiente, al tempo stesso naturale e tecnico, che gli oggetti tecnici creano attorno a sé, che li condizionano e che essi condizionano. Molti umani si prendono cura di animali e piante, e formano con loro ambienti associati: estendo la definizione a piante e animali perché ritengo che gli umani, nelle loro vite concrete, non siano mai del tutto privi di compagni tecnici. Avere a che fare con altri esseri comporta il ricorso a tecniche (metodologie e modalità di interazione), spesso incarnate in tecnologie (esseri tecnici più o meno complessi).

Non mi riferisco tanto alla convivenza con specie ed esemplari addomesticati e domestici, come nel caso degli allevatori, degli orticoltori e di tutti quelli che si circondano di animali da compagnia, piante d’appartamento e giardini fioriti. Penso soprattutto alla possibilità di integrare nella sfera dell’ambiente associato anche esemplari e specie selvatiche, selvagge e magari del tutto «inutili» dal punto di vista dell’approvvigionamento di carni, frutta, verdure, semi, fiori, erbe.

Questo vale a maggior ragione per gli esseri tecnici. Una proposta modesta è allora, da umani, prendersi cura degli esseri tecnici con cui conviviamo, con la prospettiva di estendere questa cura fino a quelli più lontani, «disutili» o persino pericolosi. Un esempio fra tanti: le centrali nucleari e la nociva rete di approvvigionamento energetico che alimentano non scompariranno da sole. Non basta chiederne la dismissione a quelle stesse istituzioni che le hanno volute: è necessario farsene carico, anche e soprattutto se non le abbiamo volute, progettate, finanziate e realizzate. Di certo non si può lasciarne la gestione in mano ai soli esperti prezzolati, che le amministrano per conto delle gerarchie di Stato e delle aziende che ne ricavano favolosi profitti.

Poiché condividiamo lo stesso mondo, dobbiamo forzarne l’evoluzione in direzione opposta a quella del dominio gerarchico, ampliando i margini di libertà a partire dalle situazioni concrete esistenti e dalle energie a disposizione. In caso contrario, saremo alla fine risucchiati e inglobati nelle propaggini di quelle catene gerarchiche, ridotti a ingranaggi conformi al proprio ruolo che agiscono i propri automatismi e possono solo dire di aver obbedito agli ordini, per quanto stupidi e alienanti. Diventeremmo cioè dei Piccoli Eichmann, funzionari delle Megamacchine, direbbe Mumford.

In realtà, cura non è la parola adatta, perché può rievocare una relazione paternalistica, di presa in carico da parte di un essere in qualche modo superiore, in posizione necessariamente e «naturalmente» dominante. Più correttamente si tratta di favorire la messa in opera di relazioni di mutuo appoggio fra esseri diversi che mirano consapevolmente alla dissoluzione delle gerarchie fisse e di ogni relazione di dominio e sottomissione, attraverso la diffusione del potere e il rifiuto delle pratiche di comando/obbedienza.

La ragione, dal punto di vista della libertà, è talmente banale che vale la pena esplicitarla.

Associarsi per la libertà: il mutuo appoggio

La libertà è relazione. La libertà non esiste in astratto, ma solo nel reciproco riconoscimento della libertà stessa, di esseri liberi la cui libertà inizia dove inizia la libertà altrui.

Detto in termini negativi, ovvero capovolgendo la concezione liberale della libertà: la mia libertà finisce dove finisce la libertà dell’essere meno libero su questo pianeta Terra. Non l’opposto. Non esistono sfere separate della libertà, ma solo insiemi di ambienti associati che evolvono in continuazione, in ogni istante, a ogni livello, verso la libertà o verso il dominio. Anche in maniera conflittuale e contraddittoria.

Quand’anche tutti gli umani fossero liberi (e dunque uguali, in quanto ugualmente liberi), se questo comportasse la schiavitù e oppressione di altri animali non umani, la mia libertà ne risulterebbe diminuita, ed è perfettamente concepibile e ragionevole il fatto di volerla estendere. Quand’anche tutti gli animali non umani fossero liberi (e dunque uguali, in quanto ugualmente liberi), se questo comportasse la schiavitù e oppressione di altri organismi non animali (piante, funghi e così via), la mia libertà ne risulterebbe diminuita, e sarebbe auspicabile una maggiore estensione della stessa libertà. E quand’anche tutti gli organismi, animali e non animali, fossero liberi (e dunque uguali, in quanto ugualmente liberi), se questo comportasse la schiavitù e oppressione di altri esseri organizzati non umani, non animali, non vegetali, non organici, ma tecnici… la mia libertà ne risulterebbe diminuita.

Con buona pace delle tre leggi della robotica di Asimov, il problema non è tanto che i servi robot potrebbero ribellarsi ai padroni umani. Al contrario, il problema è che attualmente le macchine, in particolare i congegni connessi in rete di ogni tipo, vengono concepiti per servire progetti di estensione illimitata del dominio, di riproduzione e intensificazione senza fine e senza confini dei sistemi di sfruttamento e asservimento fin qui sperimentati.

Queste macchine serve non hanno margini di libertà, o ne hanno davvero pochissimi; sono ingranaggi di sistemi di sfruttamento industriale estesi su scala planetaria e oltre. Non è un caso che le persone più ricche del pianeta siano impegnate nella corsa alla conquista e colonizzazione dello spazio: da anni Elon Musk, padrone di Tesla, e Jeff Bezos, padrone di Amazon, si sfidano per l’egemonia spaziale. Gli esseri tecnici al loro servizio sono pensati e realizzati da ambienti associati tecnoumani sottomessi, spesso volontariamente, alle loro fantasie di dominio: ne sono quindi complici, benché asserviti.

Appare quindi evidente che una società libertaria, e a maggior ragione anarchica, non può limitarsi a essere una società di esseri umani liberi e uguali a scapito di qualcun altro, animale non umano, pianta, essere vivente o essere tecnico che sia. Da un punto di vista anarchico è quindi del tutto logico e consequenziale voler estendere le libertà a ogni forma di esistenza, non solo a ogni forma di vita. Le gerarchie fisse vanno dissolte a ogni livello, non solo fra esseri umani. Il dominio estende il proprio ordine gerarchico accumulando potere in catene di comando/obbedienza; la libertà estende il proprio ordine dissolvendo quelle gerarchie e diffondendo potere.

Il concetto di ambiente associato è stato elaborato da Simondon nella sua tesi di dottorato complementare, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici (1958). L’ambiente tecnico e quello naturale agiscono reciprocamente l’uno sull’altro; l’oggetto tecnico condiziona l’ambiente associato e, a sua volta, viene condizionato dall’ambiente. Nella sua trattazione, Simondon si riferisce a strade, reti televisive e radiofoniche, ferrovie. Con l’avvento di Internet si sono moltiplicati e differenziati gli ambienti associati; i cicli di condizionamento reciproco fra gli elementi naturali e artificiali sono molto più rapidi. Ma rimane centrale la nozione di macchina aperta, che secondo Simondon è la più compiuta manifestazione della tecnica.

La macchina che è dotata di un alto grado di tecnicità è una macchina aperta e l’insieme delle macchine aperte presuppone l’uomo come organizzatore permanente, come interprete vivente delle macchine le une in rapporto alle altre. Lungi dall’essere il sorvegliante di una squadra di schiavi, l’uomo è l’organizzatore permanente di una società degli oggetti tecnici […]. In tal modo l’uomo ha la funzione di essere il coordinatore e l’inventore permanente delle macchine che sono intorno a lui. È tra le macchine che operano insieme a lui. La presenza dell’uomo accanto alle macchine è un’invenzione continua (Simondon 2020, 13-14).

In questa visione, le relazioni umane con gli oggetti tecnici non sono strumentali. La rappresentazione delle macchine come schiavi meccanici è alla base dell’idea di esseri umani che utilizzano oggetti tecnici come mezzi per addomesticare le forze naturali. Ma una tale ispirazione dominatrice non può che produrre servitù umana e tecnica, in opposizione a qualsiasi forma di emancipazione, perché «è difficile liberarsi trasferendo la schiavitù ad altri esseri, uomini, animali o macchine; regnare su un popolo di macchine che soggiogano il mondo intero, vuol dire ancora regnare e ogni regno implica l’accettazione di schemi di asservimento» (Simondon 2020, 144). Per evitare questo tipo di situazione, e per ridurre l’alienazione, è necessario sviluppare un legame più stretto con gli oggetti tecnici favorendo una cultura tecnica.

L’automatismo viene rubricato al livello più basso fra le possibili interazioni. La prevedibilità assoluta nel comportamento degli esseri tecnici non solo è poco interessante, ma è anche il preludio all’assoggettamento della macchina stessa e, parallelamente e inevitabilmente, dell’umano che deve occuparsene. L’esempio classico è la catena di montaggio: macchine automatizzate per aumentare la produzione vengono controllate da umani abbrutiti, persi nelle loro fantasticherie morbose. Così l’operaio Lulù ripete ossessivamente: «Un pezzo, un culo…», ridotto a operatore-ingranaggio della catena, nella straordinaria interpretazione di Gianmaria Volonté in La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971).

Viceversa, le macchine che presentano margini di indeterminazione nel loro comportamento sono molto più interessanti, proprio perché l’interazione non è del tutto predeterminata da una serie di automatismi: così, le parti che compongono l’ambiente associato sono reciprocamente libere; il loro comportamento può variare, evolvere.

Questo è il punto fondamentale. Libertà non significa libertà di consumo, cioè di consumare beni e servizi. Libertà non significa libertà di oppressione e libero godimento dispotico delle forme di vita non umane. Un simile regime di sedicente libertà fondato sull’oppressione dell’Altro abbisogna di un apparato coercitivo che se ne faccia garante, in particolare quando la sedicente libertà di consumo e sfruttamento è messa in discussione; ad esempio per via di una guerra, di una catastrofe, di una pandemia, di una dittatura dispotica non liberale, e così via.

Questo regime è noto come democrazia capitalista, a volte definita anche liberale. I suoi sostenitori si riempiono la bocca della libertà (di consumo) che tale regime garantisce (a scapito di qualcun altro, beninteso), fondata sulla «libera scelta» degli individui che lo compongono. Va sottolineato che la libertà di scelta si riferisce perlopiù alla possibilità di scegliere in un catalogo sterminato di merci, talmente sterminato che, come abbiamo visto, è spesso più comodo lasciar decidere a una serie di algoritmi corporativi cosa mangiare e cosa vedere alla tv; dove andare in vacanza, cosa acquistare, o con chi accompagnarsi per una sera. Umani e non umani sono ugualmente ridotti a merci.

C’è sempre di peggio, certamente. Le democrazie capitaliste infatti prevedono libertà civili di vario tipo (libertà di associazione, libertà di espressione, di voto, ecc.), più o meno ampie e rispettate dai governi in carica e dai cittadini stessi. Libertà che sono effettivamente assenti nelle dittature dispotiche non liberali.

Del resto, società altamente oppressive sono state realizzate nel corso della breve storia umana: Megamacchine imperiali schiaviste e colonialiste fin dall’antichità storica, ma anche società totalitarie e concentrazionarie nel corso del xx secolo, per limitarci a due alternative diversamente peggiori rispetto ai regimi ispirati alla democrazia rappresentativa. Tuttavia è importante ricordare che non esiste una contrapposizione netta fra società aperte e società chiuse, fra la democrazia e il dispotismo.

Dal punto di vista geopolitico ed economico, le società autoritarie sono comunque legate a doppio filo alle consorelle liberali, cui di solito forniscono materie prime, semilavorati, merci e manodopera a basso costo. Inoltre, la reciproca compravendita di armi è notoriamente il modo in cui gli Stati di ogni risma mantengono le loro buone relazioni, al di là delle dichiarazioni di principio e delle tarantelle diplomatiche a favore delle telecamere. Ma soprattutto, in qualsivoglia società concreta esiste un tessuto relazionale, un continuum in perenne evoluzione, come è ovvio che sia, almeno finché le società saranno composte di esseri che si evolvono insieme. Le libertà acquisite devono perciò essere continuamente ribadite e ampliate, per scongiurare i rigurgiti dispotici sempre intenti a tessere le trame del dominio.

Il fatto che le libertà non siano mai scontate né conquistate una volta per tutte significa che potrebbe anche esserci qualcosa di meglio rispetto al modello dello Stato liberale, e dei megastati tecnoburocratici in via di formazione come l’Unione Europea. Il passato è un fardello, ma non è una condanna irrevocabile il fatto che a un certo punto dell’evoluzione delle società umane sia emerso il dominio, e parallelamente si sia diffusa la sottomissione. L’evoluzione è irrimediabile, non si torna indietro; ma il futuro, come abbiamo già detto, non è scritto da nessuna parte.

Il miglior momento per cambiare radicalmente le cose è senz’altro passato. Il secondo miglior momento è ora. Ciò è sempre valido, almeno finché avrà corso l’evoluzione e ci sarà quindi margine di cambiamento.

In particolare, i momenti di emergenza dichiarata presentano sempre possibilità di rilancio per progetti ritenuti impossibili in epoche percepite come normali, poiché sono momenti in cui l’inimmaginabile si concretizza, solitamente in maniera traumatica e tragica. Per quanto l’inimmaginabile si manifesti in maniera assai frequente, e ricorrente: ad esempio, forme di libera cooperazione al di fuori di determinazioni legali, come nel caso delle pratiche di mutuo appoggio, si manifestano spontaneamente nelle situazioni catastrofiche, e non solo tra animali umani. Gli esempi scientifici e storici abbondano, almeno da Kropotkin, che ne discute ampiamente nel suo Il mutuo appoggio, fino a Rebecca Solnit, che ricorda le pratiche di mutuo appoggio emerse spontaneamente in alcuni disastri storici negli usa (terremoti, incendi, uragani) nel suo Un paradiso all’inferno.

La diffusione del mutuo appoggio non dovrebbe stupire, perché non solo è un fattore sottovalutato dell’evoluzione, di importanza anche superiore rispetto alla competizione, ma è probabilmente la regola generale a livello cellulare, cioè all’interno stesso degli organismi complessi, oltre che a livello intraspecifico (fra esseri appartenenti alla stessa specie) e interspecifico (fra esseri appartenenti a specie diverse).Infatti è ragionevole pensare che fra cellule non vi siano ordini trasmessi da autorità centrali (il programma genetico o simili metafore poco accurate) a organelli sottoposti, gerarchicamente sottomessi, bensì vi sia un coordinamento cooperativo, esattamente nello spirito del mutuo appoggio. Le cellule sono libere: il fatto che nel corso di miliardi di anni di evoluzione si siano associate fra loro e abbiano generato individui complessi non deve far supporre che siano al servizio degli individui stessi. Così argomenta con dovizia di particolari il biologo Jean-Jacques Kupiec nel suo La concezione anarchica del vivente, che estende il darwinismo evoluzionista al livello cellulare. Kupiec traccia un programma di ricerca molto lontano dalla vulgata genetica diffusa da metafore di chiaro sapore metafisico come codice della vita, ma anche da metafore che sanno di darwinismo sociale come il gene egoista.

Se il vivente si basa sulla libera cooperazione fra esseri microscopici ugualmente liberi, anche il non vivente tecnico può fondarsi sui medesimi principi.

L’emersione del dominio in epoca preistorica ha forse trovato terreno fertile nella straordinaria impressione che la violenza imprime nei corpi e nelle menti umane. Lo sconvolgimento provocato dall’esercizio della violenza in genere si traduce, a livello individuale e collettivo, nell’affrontare le situazioni critiche in maniera opposta a quello che suggerisce la pratica del mutuo appoggio, che è parte fondamentale della naturale tendenza evolutiva. Con sempre maggiore intensità ogni difficoltà o disastro, grande o piccolo, viene radicalizzato nell’emergenza, un’emergenza continua che richiede soluzioni tecniche globali… invece di lasciare libero corso al gioco delle reciproche libertà, cioè a quei margini di indeterminazione che costituiscono le possibilità stesse di evoluzione della libertà.

La pratica della violenza organizzata legittima, esercitata dallo Stato e dalle sue agenzie e mandatari (polizia, esercito, servizi segreti e via dicendo), viene accettata e anzi invocata non perché sia l’unica possibilità, ma per via della situazione oppressiva di partenza. Abituati dalla pratica della delega a non avere potere, cioè a non poter incidere realmente sulla messa in atto delle norme, i governati condividono l’attitudine dei governanti: credono ciecamente nella massima hobbesiana dell’homo homini lupus, della guerra di tutti contro tutti come stato di natura. Così facendo assumono come dato di fatto che la conseguenza della delega di potere, cioè l’instaurarsi del dominio, sia un’ineludibile necessità, basata sull’indimostrato e indimostrabile assioma secondo cui l’essere umano è naturalmente malvagio e deve quindi sottomettersi al dominio del governo, o esservi sottomesso con la forza.

Questo cosiddetto stato di natura non esiste e non è mai esistito, almeno a livello di natura: di certo non esiste fra gli animali non umani e le piante, che tendono semmai a fuggire, a nascondersi e mimetizzarsi per evitare i conflitti; a crearsi nicchie, cioè a diversificarsi, a mutare ed evolvere; in ogni caso a tentare la convivenza, fino all’evoluzione di specie simbiotiche. A quanto pare, questo stato di natura non esiste nemmeno all’interno degli organismi, a livello cellulare. La competizione è perlopiù un’extrema ratio e, comunque, trascurabile a livello intraspecifico e diffusa a livello interspecifico solo in particolari condizioni di stress ambientale e di scarsità di risorse.

Almeno cinque grandi estinzioni di massa si sono verificate sul pianeta Terra, spesso in seguito a catastrofi naturali, come l’impatto di grandi meteoriti che hanno modificato il clima in maniera drastica e repentina. Tuttavia, l’annientamento di un’altra specie vivente, e del suo ambiente di vita, non è mai frutto di un programma scientemente messo in pratica. A meno che non ci siano di mezzo esseri umani. Una nuova grande estinzione di massa è in corso, ma questa volta potrebbero essere «piccole» catastrofi provocate dalla tecnica dominante.

Con l’aumentare del potenziale della tecnoscienza, alcuni tratti evoluti degli umani si sono manifestati a un livello di distruttività inaudito. Infatti, solo gli umani competono fra loro con l’obiettivo di annichilire l’avversario, e non solo di sottometterlo temporaneamente o di cibarsene. Solo gli umani si sfruttano e si opprimono in maniera organizzata. Solo gli umani hanno messo in atto estinzioni mirate di altri esseri viventi: è il caso di molte specie cacciate perché ritenute nocive, oppure massacrate per lucro (le zanne degli elefanti, il corno dei rinoceronti) o per un divertimento perverso (i bisonti), e non per nutrirsene. Le migliaia di specie vegetali che si estinguono in continuazione per via del dissennato e forsennato sfruttamento delle risorse naturali sono altre silenziose vittime del disastroso retaggio del dominio. Sicuramente solo gli umani cooptano altri esseri nelle loro gerarchie di sfruttamento e oppressione, forzandoli a sottomettersi o a perire. E non per forza di necessità naturali iscritte nella loro biologia, bensì per attaccamento perverso alla cultura del dominio e della sottomissione.

L’idea che il sopruso e la sopraffazione strutturale siano sempre stati parte della cultura umana è però una mera supposizione, poco supportata da evidenze archeologiche. Non abbiamo alcuna certezza che i cacciatori-raccoglitori del paleolitico fossero organizzati in rigide gerarchie che presentavano in nuce il sistema di monopolio della violenza che è lo Stato. Al contrario, le poche popolazioni che vivono tuttora in situazioni analoghe agli umani del paleolitico tendono a strutturarsi in maniera egualitaria e a evitare l’accumularsi di disparità e di palesi disuguaglianze fra gli individui. Non solo, queste popolazioni si sono probabilmente opposte consapevolmente all’emersione di strutture politiche coercitive centralizzate. È la tesi del filosofo e antropologo Pierre Clastres, secondo cui le cosiddette società «primitive», o segmentarie, prive di organizzazione politica statale, vietano il surplus materiale in quanto fonte di eccessive disuguaglianze sociali: rifiutano così la differenziazione politica ed economica. Lo Stato verticistico non è un’evoluzione ovvia e necessaria delle società umane ma un tragico accidente storico.

Un altro mito riguarda l’emersione dell’agricoltura e l’affermarsi di ampie popolazioni stanziali intorno a grandi centri urbani. La tesi ampiamente diffusa che durante la cosiddetta «rivoluzione neolitica» l’agricoltura si sia imposta come chiaro progresso tecnico, capace di migliorare la dura vita di stenti e la mera sopravvivenza del periodo precedente, è in realtà solo un’ipotesi. Ipotesi smentita da ricerche antropologiche di ampio respiro, fra cui spicca L’economia dell’età della pietra di Marshall Sahlins. I cacciatori-raccoglitori e gli orticoltori lavoravano sicuramente meno degli operai nelle fabbriche del xix e xx secolo, ma anche degli impiegati di oggi nel mondo cosiddetto sviluppato; e non se la passavano affatto male. L’accumulo di derrate alimentari ebbe inizio probabilmente per ragioni rituali, legate a pratiche religiose; non per inevitabile progresso tecnologico.

Del resto, come ricorda Lewis Mumford, basare la valutazione del livello di progresso di una civiltà sui reperti materiali giunti fino a noi è profondamente scorretto e fonte di gravi equivoci. Le tecniche di controllo dell’aggressività, sviluppo del linguaggio e sviluppo di sistemi di organizzazione basati sulla fiducia fra esseri umani non hanno lasciato grandiosi monumenti come le piramidi, ma sono state essenziali per l’evoluzione umana. Diversi studiosi hanno inoltre suggerito che la storia umana sia stata prevalentemente popolata da civiltà pacifiche ed egualitarie, da società organicamente integrate in quello che abbiamo definito il loro ambiente associato4.

La pratica del dominio va inquadrata per quello che è: una variante evolutiva che si è tragicamente imposta su questo pianeta, ma pur sempre una variante, non un destino inoppugnabile. Una variante recente sulla scala della specie umana, recentissima sulla scala dell’evoluzione del pianeta. Una variante che si può estinguere.

Al di là delle ricerche in vari ambiti e discipline, sappiamo per esperienza che quando una gerarchia oppressiva emana provvedimenti per risolvere situazioni emergenziali tramite interventi dall’alto, come l’invio dell’esercito, il coprifuoco, la militarizzazione, il razionamento e così via, il mutuo appoggio risulta soffocato sul nascere. Oppure viene cooptato dalle istituzioni: incapaci di agire in maniera competente, parlano di resilienza delle comunità locali e così trasformano il mutuo appoggio in espressione istituzionalizzata.

In questo senso, la cancrena della tecnoburocrazia è un tratto comune alle società più liberali e a quelle più dispotiche. L’abbraccio infausto di tecnocrazia e burocrazia rinforza il retaggio del dominio e della sottomissione, favorendo l’evoluzione di lignaggi di esseri tecnici sottomessi, proni alle più sfrenate fantasie dei dominanti, oltre che di esseri umani sottomessi al loro ruolo di meri ingranaggi in un sistema nel quale non sentono di avere alcun potere. I sistemi di monitoraggio e controllo antropometrico sono una tipica manifestazione di queste evoluzioni perverse. La pratica del dominio circuisce, corrompe e sottomette: ma non è inevitabile.

Per dar fiato alla naturale tendenza all’aiuto reciproco fra esseri viventi ci vogliono nuovi alleati. Li abbiamo individuati negli esseri tecnici, in quelli liberi o che possono essere liberati: sono una fonte di potere straordinaria che può essere diffusa, moltiplicata e fruita per il comune benessere.

Note al capitolo

1. Le ricerche in tal senso cominciano a diffondersi. Ad esempio: Safiya Umoja Noble, Algorithms of oppression, New York University Press, New York, 2018; Virginia Eubanks, Automating Inequality: How High-Tech Tools Profile, Police, and Punish the Poor, St. Martin’s Press, New York, 2018. Una buona introduzione all’argomento con sprazzi tecnici è il saggio di Robert Elliot Smith, Rage Inside the Machine: The Prejudice of Algorithms, and How to Stop the Internet Making Bigots of Us All, Bloomsbury Business, New York, 2019. Più semplice, il libro di Kate Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’ia, il Mulino, Bologna, 2021, punta il dito sull’enorme quantità di esseri tecnici ed esseri umani necessari a realizzare le cosiddette Intelligenze Artificiali; dal punto di vista filosofico è purtroppo abbastanza vincolata al paradigma del lavoro e alla critica post-marxista.

2. La notizia è riportata da Aulo Gellio, Notti Attiche, x, 12, 9; per un approfondimento si veda Antonio Tagliente, La colomba di Archita, Scorpione, Taranto, 2011.

3. Una collezione di ascii art in <https://www.asciiart.eu/>; due panoramiche più ampie su arte e rete in Tatiana Bazzichelli, Networking. La rete come arte, Costa&Nolan, Milano, 2006; Marco Deseriis, Giuseppe Marano, Net.art. L’arte della connessione, ShaKe, Milano, 2008.

4. Due buone raccolte di brevi saggi introduttivi: Ashley Montagu (a cura di), Il buon selvaggio, elèuthera, 2021; Marjia Gimbutas, Kurgan. Le origini della cultura europea, Medusa, Milano, 2020.