capitolo quarto

Questioni di scala

Dinamica dell’evoluzione tecnica fra scala industriale e scala conviviale. L’evoluzione della rete di Internet, dal decentramento orizzontale all’accentramento verticale. I concetti di scala conviviale e Megamacchina rivisti e tradotti in ambito digitale. Appunti per un’informatica libertaria: oltre la coerenza mezzi-fini, o il come deve giustificare il cosa. Ingredienti: prossimità, affinità, federazione.

L’evoluzione tecnica fra industriale e conviviale

L’evoluzione degli organismi viventi si gioca sull’alternanza delle dinamiche di adattamento ed esattamento. Abbiamo mostrato per sommi capi come queste stesse dinamiche siano all’opera anche nella selezione sottesa all’evoluzione delle interazioni fra esseri umani ed esseri tecnici.

Finora però gli esseri tecnici sono rimasti un po’ nell’ombra, schiacciati fra esperti, comuni mortali, deleghe, adattamenti, esattamenti e così via, sempre sull’orlo di una crisi di nervi umana di cui sono il capro espiatorio designato. La loro esistenza tende a palesarsi quando non funzionano a dovere, non rispondono ai comandi, alle aspettative umane.

Quando comincia l’evoluzione degli esseri tecnici? Quando nascono le macchine, e perché?

Si dice che gli arnesi, gli strumenti manipolabili e infine le macchine siano state inventate per alleviare le fatiche umane. Invece di scavare con gli arti di cui è dotato, l’umano maneggia una pala e scava più in fretta; ancora più velocemente manovrando un’escavatrice, e con molta meno fatica.

Orchestrando un plotone di escavatrici comandate da umani addestrati a farlo in maniera semi-automatica, secondo un piano prestabilito, è possibile portare a termine opere immani in tempi minimi rispetto all’impiego di forze lavoro tradizionali. Allo stesso modo, invece di camminare, l’umano pedala sulla sua bicicletta, guida la sua automobile, barca, aereo, e può così coprire distanze inimmaginabili senza l’ausilio delle macchine, anche in ambienti altrimenti ostili come l’aria o l’acqua.

Orchestrando plotoni di mezzi di trasporto che viaggiano su reti interconnesse fra loro, comandati da umani addestrati a farlo in maniera semi-automatica (piloti di aerei, comandanti di navi, capotreni, ecc.), è possibile decidere di fare un salto dall’altra parte del mondo con un preavviso minimo, senza saper nulla di come funzionano quei complessi sistemi tecnici.

A due condizioni, per nulla scontate: in primo luogo, si deve disporre dei mezzi economici per poterselo permettere e liberarsi per il tempo necessario; in secondo luogo, si deve disporre di documenti d’identità adatti, cioè che ci conferiscano un’identità privilegiata dal punto di vista della possibilità di attraversare le frontiere immaginarie che distinguono gli Stati. Fra l’altro, va notato che la ragione ultima di un numero non esiguo di spostamenti e viaggi per motivi di svago è da ricondurre al condizionamento esercitato dal sistema pubblicitario, capace di proporre occasioni «irrinunciabili» all’attento consumatore umano.

Come è stato possibile che le macchine, da serve fedeli fabbricate per realizzare i desideri umani, siano diventate il fulcro dei sistemi di asservimento contemporanei, i mezzi della predazione industriale e dello sfruttamento globale a tutti i livelli, compreso quello esercitato dall’individuo su sé stesso? Per scoprirlo, continuiamo a studiare la rete di Internet, cui abbiamo già fatto ricorso per mostrare la materialità della tecnica e la straordinaria complessità delle sue manifestazioni odierne.

L’evoluzione della rete di Internet

La rete di Internet si è evoluta a partire da un sistema aperto e altamente decentralizzato fino a trasformarsi in un sistema molto centralizzato, soggetto a sorveglianza diffusa, censura e manipolazione su larga scala, da parte di imprese commerciali e istituzioni governative. Concepita come parte di un programma militare negli anni Cinquanta del xx secolo, è stata progettata per essere estremamente flessibile e adattabile, ovvero resiliente in caso di attacchi.

Una caratteristica teorica basilare è il principio end-to-end, «da un capo all’altro»: la rete si deve comportare come un «banale tubo» che trasferisce pacchetti di informazioni da una parte all’altra, cercando sempre di trovare il percorso migliore dalla sorgente alla destinazione per ogni pacchetto. Si differenzia così dal modello tradizionale delle telecomunicazioni, per cui si effettua una «connessione» o un «circuito» preferenziale e stabile attraverso cui scorrono tutti i pacchetti.

La rete distribuita è composta da diversi sistemi autonomi, liberi di interconnettersi (operando secondo i rispettivi vincoli strutturali) e di condividere le informazioni necessarie per calcolare i percorsi più appropriati per inviare e ricevere i pacchetti di dati. Questo contratto piuttosto approssimativo fra entità indipendenti è stato parzialmente formalizzato con il principio della neutralità della rete. Tutti i pacchetti di dati che attraversano la rete dovrebbero essere trattati allo stesso modo in termini di urgenza, indipendentemente dalla loro origine o destinazione.

In teoria ciò consente a chiunque si colleghi alla rete di agire, aiutarsi reciprocamente e anche di competere su un piano di parità: premesse indispensabili per la sperimentazione e l’innovazione, cioè per l’evoluzione di caratteristiche, funzioni e servizi desiderabili. La posta elettronica, uno dei servizi Internet più antichi e popolari, inizialmente è stato distribuito tra diversi server di posta elettronica operativi in luoghi diversi, in genere le università. Tuttavia, con l’aumento degli utenti di Internet, i servizi sono diventati sempre più centralizzati e la partecipazione delle persone online sempre meno anonima. Fra le cause possiamo annoverare i rilevanti vincoli fisici dell’infrastruttura (in particolare la bassa velocità di connessione e la larghezza di banda asimmetrica, cioè maggiore in download e minore in upload), le economie di scala, i tentativi di prevenire gli abusi.

Per rimanere all’esempio della posta elettronica, una percentuale molto elevata del traffico e-mail mondiale passa attualmente (2022) attraverso i server Gmail di Google, i cui agenti algoritmici analizzano il contenuto delle e-mail per sviluppare questo e altri servizi della multinazionale. Ad esempio, immagazzinare i testi e-mail scritti da esseri umani costituisce un’indispensabile base di dati per allenare modelli di scrittura automatizzata capaci di mimare gli agenti umani, cioè per sviluppare le cosiddette Intelligenze Artificiali. Gli algoritmi di Gmail effettuano anche molte altre operazioni: ad esempio, definiscono de facto ciò che è spam e ciò che non lo è; stabiliscono correlazioni con altre informazioni personali di mittenti e riceventi, come le posizioni gps registrate da Google Maps, query di ricerca, e altro ancora.

Le piattaforme Internet globali, commerciali e governative, mediano una quota parte sempre più preponderante delle comunicazioni quotidiane della popolazione umana attraverso le loro infrastrutture. Questo avviene a prescindere dalle scelte operate dai singoli esseri umani e da comunità autogestite di vario tipo, che potrebbero anche decidere di costruirsi i propri servizi (e non di rado lo fanno), ma non per questo sono al riparo dalla mediazione delle piattaforme globali. Le macchine al loro servizio, gli algoritmi implementati e continuamente «migliorati» dai loro ingegneri, diventano così sempre più efficienti nella gestione di grandi quantità di informazioni. Al contempo, queste stesse piattaforme diventano sempre più esperte nella progettazione dell’interazione con l’utente, aumentando a dismisura la loro «appiccicosità» (stickyness), ovvero la capacità di mantenere l’utente agganciato, determinandone il coinvolgimento (engagement) in termini di metrica delle prestazioni. Ciò rende i loro utenti sempre più dipendenti e assuefatti ai loro servizi, soggetti a manipolazioni e sfruttamento a fini commerciali e politici.

Questa situazione presenta i tratti di una «seconda soglia di mutazione» di Internet, secondo la terminologia introdotta da Ivan Illich nel suo La convivialità per l’analisi del ciclo di vita degli strumenti. Come nei casi illiciani della medicina e dell’istruzione, Internet nelle sue fasi iniziali è stata estremamente utile ed è stata cooptata da molti gruppi umani decisi a usarla per aumentare la libertà reciproca, sviluppando caratteristiche tipiche dei sistemi di mutuo appoggio: federazione di servizi, aiuto reciproco, condivisione di risorse e così via. Tutto questo nonostante l’origine non certo conviviale ed emancipatoria di Internet stessa, derivata da un programma di difesa militare e implementata con dispositivi ottenuti con lo sfruttamento industriale delle risorse naturali e umane. Uno degli effetti desiderabili di Internet, almeno inizialmente, è stato aumentare, facilitare e migliorare drasticamente l’accesso alla conoscenza e alle persone fra loro, potenzialmente in tutto il mondo.

Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo, l’evoluzione della rete si è affidata a grandi organizzazioni che offrono servizi efficienti e affidabili. La sopravvivenza di questi servizi e piattaforme dipende sempre più dalla partecipazione delle persone e dallo sfruttamento dei (meta)dati che esse producono. Questo crea un circolo vizioso tra le pratiche di design che creano abuso/dipendenza e la concorrenza sleale che viola il principio di neutralità della rete; per non parlare degli usi non etici di informazioni riguardo a comportamenti privati degli umani, attraverso l’analisi dei dati prodotti dalle nostre attività online quotidiane.

Oltre alle enormi implicazioni sociali, politiche ed economiche della centralizzazione del potere su Internet vi sono anche importanti conseguenze ecologiche. Di primo acchito sembrano essere conseguenze positive. La centralizzazione delle piattaforme online ha permesso ai proprietari di costruire enormi data center, specialmente in climi freddi, e di investire in tecnologie di raffreddamento dei server a costi energetici inferiori per via delle economie di scala. Ma contemporaneamente l’obiettivo principale delle piattaforme online è la massimizzazione del tempo totale trascorso online e della quantità di informazioni scambiate, non solo tra le persone ma anche tra le cose, gli oggetti connessi fra loro, e quindi l’aumento a ogni costo delle interazioni. La redditività di queste piattaforme dipende dall’elaborazione di enormi quantità di informazioni in grado di produrre previsioni statisticamente rilevanti, da vendere a inserzionisti pubblicitari così come a politici e a qualunque altro cliente.

Proprio come le aziende farmaceutiche e le scuole descritte da Illich, le piattaforme digitali globali creano e mantengono un mondo in cui sono assolutamente necessarie. Questo spiega anche perché aziende come Facebook (Meta), Google (Alphabet) e Microsoft sono in prima linea negli sforzi per fornire un «accesso Internet a tutti» e perché allo stesso tempo le comunità locali devono affrontare così tanti ostacoli economici, politici e legali per costruire, mantenere e controllare le proprie infrastrutture.

È urgente riflettere su quali di questi servizi debbano essere realmente offerti da piattaforme globali e quali invece possano essere ospitati su infrastrutture locali, di proprietà delle comunità locali di utenti e gestite dalle comunità stesse. Questo esercizio non è motivato da un romantico ideale del genere «piccolo è bello» o «locale è meglio», ma dalla necessità di diversificare le modalità con cui le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (tic) mediano la nostra vita quotidiana.

La ragione profonda è ecologica: così come gli organismi viventi possono essere minacciati dalla mancanza di biodiversità, è ragionevole supporre che la capacità di autodeterminazione e in generale di scelta libera e consapevole sarà sempre più in pericolo con la diminuzione della biodiversità della rete. In questo caso, aumentare la biodiversità, ovvero la tecnodiversità, significa maggiore varietà di sistemi d’interazione, di procedure operative, di algoritmi, di servizi implementati, di tipologie di organizzazione delle interazioni fra esseri umani ed esseri tecnici. Il contrario di diversità biotecnica è invece uniformazione, standardizzazione coatta frutto di accordi opachi fra tecnocrati; impiego delle medesime strutture gerarchiche per rispondere a esigenze differenti, in tutte le lingue, a tutte le latitudini; imposizione di procedure identiche a tutti, mediante una quota crescente di modelli premiali gamificati in cui si premia (con classifiche, badge, punti, like e altri segnali di ricompense chimiche) la partecipazione al Grande Gioco della Piattaforma di turno.

Gli esseri umani connessi alla rete di Internet nel 2022 raramente scelgono con quali esseri tecnici interagire e come; si trovano obbligati (volenti o nolenti) a imparare sequenze di comandi per poter effettuare operazioni banali. Devono imparare a comandare esseri tecnici presentati come servi(zi) inevitabili per vivere nel mondo, ineludibili forche caudine cui sottoporsi, cui obbedire. Imparare a comandare, imparare a obbedire. Anche i più ritrosi devono fare buon viso a cattivo gioco e impegnarsi per farsi amiche le tecnologie digitali, o almeno per evitare di irritarle e scatenarne così il potere distruttivo, con conseguente perdita di dati, preclusione di accesso a servizi essenziali (scuola, sanità, lavoro, ecc.), diffusione non voluta di informazioni riservate e così via. Non stupisce l’aumento esponenziale dell’alienazione tecnica, palese nel periodo della pandemia di covid-19, durante la quale la tanto decantata informatizzazione di scuole, aziende e servizi pubblici si è perlopiù concretizzata in deleghe tecnocratiche alle piattaforme dell’Internet globale, ben felici di essere chiamate a «risolvere» i problemi.

La diversità biotecnica delle reti è importante non solo per ragioni di amministrazione (governance) democratica e di indipendenza, ma soprattutto per motivi di sostenibilità psichica, sociale, economica ed ecologica a lungo termine1.

Questioni di scala?

La questione principale, se seguiamo il ragionamento di Ivan Illich, è la scala. Uno strumento conviviale è l’opposto di uno strumento industriale, e la scala fa la differenza. A suo parere, su scala globale possono esistere solo strumenti industriali oppressivi. Nel paragone fra la bicicletta (conviviale) e l’automobile (industriale) in quanto mezzi di locomozione, Illich mostra che, al di sopra di una certa soglia, una tecnologia diventa inutile e diventa rapidamente nociva al crescere della scala.

Così l’automobile, inventata per facilitare e potenziare la mobilità individuale degli esseri umani, diventa inutile quando le automobili si moltiplicano oltre una certa soglia, perché si genera traffico che rallenta la circolazione, consumando al contempo suolo per far spazio a strade e autostrade. Diventa poi nociva al di là di una seconda soglia di mutazione della tecnologia stessa, quando la scala aumenta al punto tale che le automobili, ormai eccessivamente numerose, diventano nocive per la salute delle persone per via dell’inquinamento atmosferico dovuto ai gas di scarico; nocive per il pianeta Terra anche per via del consumo abnorme di risorse non rinnovabili (petrolio, metalli, ecc.); nocive a livello sociale perché implicano la messa in opera di linee di produzione industriali che sfruttano la manodopera umana. Oltre a questo, l’originaria potenza del mezzo automobile risulta del tutto obnubilata perché nelle città ipertrafficate è impossibile circolare con l’automobile, e ancor di più trovare parcheggio. Questa controproduttività industriale è una questione di scala.

Ma la scala quantitativa non è un criterio sufficiente per individuare tecnologie conviviali nell’epoca digitale. Cerchiamo di aggiornare il ragionamento alle tecnologie digitali di massa. La nocività delle ricadute negative insite in quelle tecnologie è nascosta in bella vista. Le gigantesche catene di esattamenti tossici selezionano gli esseri tecnici che popolano il mondo umano in base ad alcune caratteristiche, orientate al profitto e al reciproco condizionamento. Eppure risulta abbastanza semplice nasconderne le esternalità negative per via dell’apparente semplicità che la tecnologia rappresenta, della sua disponibilità e diffusione. L’introduzione di schemi di gioco premiali (gamificazione) presenta la tecnologia come un piacevole surrogato, di gran lunga preferibile alla fatica di organizzare libere scelte in un mondo complesso, così esposte alla frustrazione e al fallimento. Ripetere una procedura gamificata gratifica l’umano in maniera immediata e potente.

La ristrutturazione cognitiva dell’ambiente interattivo tramite tecniche di nudging, la cosiddetta spinta gentile, è un metodo ancora più semplice per persuadere gli umani a comportarsi in un modo prestabilito dal sistema tecnico, cioè per manipolarne la volontà senza tirare in ballo complesse questioni etiche ed estetiche, e senza dover ricorrere immediatamente a sistemi coercitivi e repressivi. L’esempio classico di nudging è la mosca riprodotta nella ceramica degli orinatoi (maschili, naturalmente) dell’aeroporto di Schipol (Amsterdam) fin dal 2002. Invece di scrivere «fatela dentro», esortando a un comportamento adeguato, invece di minacciare ammende o reprimende (sistema punitivo), si fa leva sulla competitività degli individui penedotati che, alla vista della mosca, cercheranno di far centro… Banale? Forse, ma funziona, nel senso che statisticamente i bagni risulteranno più puliti della media.

Le tecniche di nudging sono fra quelle di maggior successo per aumentare il tasso di risposte automatiche. Generalmente applicata per influenzare i comportamenti, la teoria del nudge è stata elaborata a partire dal quadro cibernetico tratteggiato da Wiener, inteso nel senso piuttosto lasco di controllo di un qualsiasi sistema attraverso la tecnologia e sfruttamento dei meccanismi di retroazione (feedback). In questa interpretazione tipica dell’economia comportamentale, un nudge è «qualsiasi aspetto della scelta che altera il comportamento delle persone in modo prevedibile senza proibire alcuna opzione o cambiare significativamente i loro incentivi economici»2. Questa teoria continua a essere enormemente popolare presso politici e policy-maker di ogni risma, e questo nonostante l’argomentazione semplicistica rilevata da alcuni critici, o forse proprio grazie a essa. Infatti propone una serie di soluzioni comportamentali molto semplici a problemi sociali complessi; l’orientamento politico conservatore degli autori, noto come libertarian paternalism (paternalismo libertario), non sembra destare preoccupazioni in amministratori di dichiarato orientamento progressista.

Semplicità apparente, disponibilità diffusa, addestramento alla delega tramite gamificazione e nudging contribuiscono a elevare la Tecnica e la Tecnologia correlata a monopolio radicale, unica «soluzione» per «risolvere» presunti «problemi» sociali e psicologici. «Problemi» quali sentirsi soli, voler comunicare con altre persone, scegliere cosa fare e in che modo, decidere cosa acquistare e così via.

Al di là della competenza specifica rispetto a una determinata tecnologia, è evidente che se tutti usano una «soluzione tecnica» senza preoccuparsi di come funziona e di quale organizzazione implica, risulterà impossibile coltivare e mantenere una sufficiente autonomia a livello individuale e collettivo senza ricorrere a una delega gerarchica fissa. La tecnologia riconfigura i rapporti di potere perché la sua ergonomia, come abbiamo visto, articola nuove regole del lavoro (ergon-nomos), nuove dinamiche organizzative, nuove relazioni fra umani e non umani. Nel caso delle tecnologie digitali di massa sono perlopiù orientate all’asservimento reciproco.

Se diventa norma sociale avvalersi di un social network per mantenersi in contatto fra umani, diventa difficile non usarlo, pena l’esclusione dai rapporti sociali. Se non possedere il telefono cellulare diventa uno stigma sociale perché non si è raggiungibili dagli altri, significa che l’alienazione tecnica si manifesta sotto forma di alienazione sociale.

Queste articolazioni fra esseri umani ed esseri tecnici sono in effetti Megamacchine, come le chiamava Lewis Mumford in Il mito della macchina, ovvero implicano concatenazioni di tipo capitalista, che tendono innanzitutto a riprodurre e intensificare il valore, e concatenazioni di carattere intrinsecamente dispotico, cioè tipiche del despotes: del sovrano dominante. Generano dipendenza, sfruttamento, impotenza degli esseri umani ridotti a compratori e servi; dal canto loro, le macchine sono ridotte a meri supporti dell’automazione dei rapporti sociali.

Concatenazioni di tipo capitalista e dispotico tendono caratterizzare, a maggior ragione, le Megamacchine digitali di massa, che a prima vista si prendono cura delle relazioni, facilitando la comunicazione nel frenetico caos quotidiano e andando a scovare le informazioni adatte a ciascuno. Vengono inoltre presentate come sistemi che si prendono cura dell’organizzazione di agende sempre più complicate, con mille impegni affastellati che spesso vengono cancellati all’ultimo minuto, e devono essere ri-calendarizzati tenendo conto di una miriade di variabili. Sono caldamente consigliate per occuparsi efficientemente della pianificazione di spostamenti e viaggi sempre più frequenti e necessari, per non perdere opportunità professionali e occasioni di svago. Sono considerate indispensabili per gestire oculatamente i risparmi e gli investimenti, per chi ne ha, ovvero non solo pochi super-ricchi, ma centinaia di milioni di piccoli risparmiatori e investitori, corteggiati dagli speculatori finanziari. E, ultimo ma non meno importante, si prendono cura di selezionare acquisti, film, musica e anche potenziali partner sulla base dei (meta)dati in loro possesso.

Va notato che l’aspetto dispotico è conforme all’intensificazione del dominio a tutti i livelli. Il dispotismo dello Stato sovrano che governa, controlla, irreggimenta e opprime i suoi sudditi procede di pari passo con il dispotismo dell’individuo che si erge a piccolo tiranno di sé stesso, oltre che dei suoi simili e degli altri esseri viventi e non viventi. Mai sazio, senza alcun riparo in un mondo che esige livelli di prestazione sempre crescente, costantemente in preda a una qualche emergenza, frustrazione, desiderio, mancanza… tutti problemi che il piccolo despota tende a risolvere con una soluzione tecnologica.

Ma in definitiva, prima di puntare il dito contro lo strapotere della Tecnica e rimpiangere i bei tempi andati, cadendo nell’insostenibile posizione primitivista, è importante ricordare che queste Megamacchine non sono sistemi separati dalle controparti umane; non sono sistemi che agiscono alle loro spalle e contro il loro volere, mosse da un’oscura macchinazione. Come le Megamacchine imperiali antiche, ad esempio l’organizzazione dispotica dell’antico Egitto che servì alla costruzione delle piramidi (la prima Megamacchina secondo Mumford), così le Megamacchine reticolari globali sono composte di esseri umani ed esseri tecnici insieme. Per semplicità le chiamiamo Megamacchine digitali, ma dobbiamo ricordare che funzionano grazie alla compiaciuta partecipazione degli esseri umani, lieti di lasciare l’iniziativa a chi ne sa, a chi può e vuole occuparsene, un po’ come accade con gli esperti umani. Grati di lasciar scegliere un sistema esperto piuttosto che affrontare l’immane fatica di scegliere per conto proprio, affidandosi al parere autorevole di persone di cui ci si fida, selezionando fra una quantità di scelte potenziali che pare illimitata ma che è, nei fatti, sempre più omologata.

Le Megamacchine digitali sono in effetti il combinato disposto di esseri umani, esseri tecnici e delle loro interazioni orientate al condizionamento reciproco in un quadro gerarchico fisso. I condizionamenti sono orientati a rinforzare comportamenti e reazioni automatiche di comando/obbedienza. Il tutto non tramite la coercizione violenta, ma attraverso rinforzi positivi tipici dei sistemi premiali.

Una pubblicità di una nota azienda telefonica italiana uscita nel 2017, e ritirata poco dopo, spiegava la faccenda con una semplicità disarmante. Un noto attore comico recitava, estasiato:

Oggi grazie alle connessioni possiamo entrare in un universo televisivo senza limiti. […] Una galassia sconfinata […] che puoi vedere ovunque e quando vuoi. Oggi le nuove tecnologie ci stanno dando la possibilità di non dover scegliere… Non è fantastico?

Ed eccoci tornati improvvisamente alla questione fondamentale della libertà e del potere, qui declinato come potere di mettersi in una situazione in cui vige una regola di delega totale, di affidamento cieco rispetto alle scelte. Letteralmente: una situazione di fede nella tecnologia, che libera l’umano dai propri limiti, dalla localizzazione in un qui (l’universo tecnico è un servo a disposizione, disponibile ovunque, dona l’ubiquità!) e ora (è accessibile a piacere, quando vuoi, senza attenzione al contesto). Quindi un paradossale potere di rinunciare al potere, in quanto rinuncia all’esercizio della possibilità di intervenire nella definizione e nell’applicazione delle norme.

In questa situazione non si sceglie nemmeno cosa guardare alla tv, sarebbe troppo faticoso, per non dire impossibile; lo zapping non funziona più, l’offerta è talmente esorbitante che risulta frustrante passare in rassegna centinaia di canali (sempre che i vari apparecchi ricevano il segnale, siano adatti e adeguatamente configurati); è più comodo delegare la scelta a un sistema esperto. Gli interventi umani tendono a ridursi al minimo indispensabile, il più possibile esenti da sforzo, sotto forma di reazioni automatiche binarie o poco più (mi piace/non mi piace, o voto di gradimento sotto forma di stelline/fragole/banane).

Questa è l’attitudine che qualifica le tecnologie autoritarie, che si nutrono della sottomissione gerarchica. Nel caso dei regimi politici riconducibili al capitalismo liberale, fra cui Stati Uniti e Unione Europea, si pubblicizzano come sistemi per aiutare la scelta, facilitare la deliberazione, suggerire e consigliare i consumatori disorientati, ma in realtà sono dei meri sostituti meccanici del libero arbitrio. Una volta strutturate in tal senso, le tecnologie tendono a riprodurre sistemi autoritari, nel senso che l’autorità viene alienata in maniera radicale e irrevocabile, transitando dall’esperto di cui Bakunin si fidava in maniera mirata a una pletora di sistemi semi-automatici di misurazione, quantificazione, selezione e proposta di irrinunciabili occasioni.

L’autorità delegata coincide con una quota di potere alienata che va ad alimentare una gerarchia fissa; tale gerarchia, composta anch’essa di esseri umani ed esseri tecnici in varia misura, si presenta come una tecnoburocrazia in continua espansione. Tecnocrazia perché fa leva sul monopolio del potere tecnico; burocrazia perché, lungi dallo spazzare via i precedenti sistemi statali, ne estremizza l’obbedienza cieca a procedure insensate, strutturate per automatizzare le relazioni.

A proposito di tecnoburocrazia, a differenza di quanto sostengono le dottrine riconducibili al socialismo autoritario, è importante ricordare che l’abolizione della proprietà privata è irrilevante. Anzi, su vasta scala, un simile progetto politico non può che sfociare nell’intensificazione delle strutture tecnoburocratiche a livelli inimmaginabili per i sistemi capitalisti liberali, che mantengono nonostante tutto una quota di individualismo.

I più accorti fra gli ex-comunisti ed ex-marxisti lo hanno compreso da molto tempo; del resto, persino Marx ed Engels l’avevano capito perfettamente alla metà del xix secolo, teorizzando il «modo di produzione asiatico»: dalle loro analisi risulta evidente che il dispotismo orientale ha abolito la proprietà privata e proprio per questo è riuscito a dare un giro di vite in più alla morsa totalitaria. Non è certo la proprietà privata all’origine di ogni male; può essere un effetto secondario, nel senso che la concentrazione delle ricchezze deriva dalla violenza del dominio. Ma, da buoni autoritari, dopo aver sfornato il Manifesto del partito comunista, non potevano certo riconoscere che avevano ragione gli anarchici a opporsi a ogni tentativo di centralizzazione e rafforzamento della burocrazia statale; né tanto meno potevano rassegnarsi a seguire Proudhon sulla via del cooperativismo e del mutualismo. Eppure era chiaro, anche in senso economico:

La proprietà collettiva dei mezzi di produzione a questo livello non muta nulla, e si limita ad alimentare un’organizzazione dispotica stalinista. Perciò [Ivan Illich] vi oppone il diritto di ciascuno a utilizzare i mezzi di produzione in una «società conviviale», ossia desiderante e non edipica. Ciò significa: l’utilizzazione più estesa delle macchine da parte del maggior numero di persone, la moltiplicazione delle piccole macchine e l’adattamento delle grandi macchine alle piccole unità, la vendita esclusiva di elementi macchinici che devono essere assemblati dagli stessi utilizzatori-produttori, la distruzione della specializzazione del sapere e del monopolio professionale3.

Ecco perché le dimensioni contano. Non si tratta di mitizzare l’idea che «piccolo è bello», ma di riconoscere che, almeno negli esempi storicamente noti, quando una tecnologia si diffonde in maniera omogenea, serializzata e industrializzata al di là di una certa dimensione, la selezione dei tratti evolutivi tipici delle relazioni libertarie cede il passo alla selezione dei tratti evolutivi tipici delle relazioni gerarchiche. Le gerarchie fisse s’impongono nella gestione dei rapporti tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi e non, con il loro «corollario» di sfruttamento dispotico. Non si può scalare, crescere di scala in maniera illimitata, senza snaturarsi completamente.

Questo perché tutto è relativo, cioè «in relazione a». Se invece di un numero modesto di persone in spazi limitati che intrattengono relazioni del tutto uniche fra di loro abbiamo a che fare con migliaia o addirittura milioni di persone, la relatività cede il passo all’omologazione e i semplici automatismi cognitivi necessari per le interazioni si fanno abitudine irrinunciabile, anzi fede nella procedura liturgica. Avere mille amici e migliaia di contatti non ha senso, milioni di follower nemmeno, perché nessun umano dispone del tempo né delle energie sufficienti per valorizzarli, a meno di affidare le relazioni a sistemi di interazione automatizzata. Non è uno scenario fantascientifico, ma il presente del secondo decennio del xxi secolo, chiaramente rappresentato dalla possibilità di ordinare all’assistente vocale di prendersene cura: «Alexa, ricordati dei compleanni dei miei amici e manda loro un messaggio carino, personalizzato…».

Le relazioni significative richiedono attenzione e competenza, non distrattenzione e sciatteria; tanto meno delega tecnocratica.

Appunti per un’informatica conviviale

Ma allora è possibile un’informatica conviviale, cioè che promuova la realizzazione della libertà individuale in seno a una società dotata di strumenti efficaci? Ci vogliono tecnologie appropriate, ma per poterle immaginare e realizzare è necessario correggere e ampliare la formulazione di Illich.

Innanzitutto, dobbiamo riconoscere che un sistema tecnico di piccola scala può essere dispotico tanto quanto un sistema industriale globale; anzi, può rivelarsi ancora più censorio e asfissiante per la libertà personale. Ad esempio, le dinamiche psicosociali oppressive tipiche di un piccolo paese, in cui la gente mormora e tutti sanno tutto di tutti, possono risultare amplificate da tecnologie di controllo e monitoraggio su piccola scala, riproducendo un universo concentrazionario in miniatura. In altre parole, la piccola scala non garantisce di per sé l’assenza di dominio, ed è logico che sia così, altrimenti la libertà sarebbe un derivato automatico dell’organizzazione in piccoli gruppi.

Un piccolo gruppo di esseri umani può nutrirsi di relazioni di co-dipendenza tossiche alimentate e anzi rese possibili da «semplici» tecnologie «artigianali» di dominio reciproco, come il rispetto di rituali di sottomissione. Rituali analogici o digitali non fa differenza, si tratta in ogni caso di ripetizioni che mirano a instaurare un ritmo di acquiescente sottomissione, contrita obbedienza, schizofrenico conformismo a norme alienate e alienanti. Senz’altro non c’è bisogno di tecnologie particolarmente sofisticate.

Non solo: un piccolo gruppo che mira a ottenere l’egemonia, cioè la supremazia, non potrà esimersi dallo stabilire relazioni autoritarie, quanto meno nei confronti di chi si trova all’esterno del gruppo egemone, che dev’essere subordinato all’egemonia. Le pratiche autoritarie studiate dai teorici dei progetti egemonici per sottomettere gruppi antagonisti (dalla manipolazione del consenso all’infiltrazione delle strutture istituzionali) tendono quindi a saturare lo spazio relazionale, a discapito di pratiche libertarie, e a insinuarsi anche all’interno del gruppo egemone, a prescindere dalle dichiarazioni di principio.

Queste pratiche vengono messe in atto grazie a esseri tecnici in grado di realizzarle concretamente, ad esempio strategie comunicative tipicamente delegate a esperti di comunicazione, ma anche e soprattutto attraverso l’attitudine al comando degli esseri tecnici stessi, considerati mezzi necessari per raggiungere i fini desiderati. Ma come non si può imporre la libertà tramite la sottomissione all’idea di libertà, né esportare la democrazia con la guerra o l’autogestione con la violenza, così non si può estirpare la perversione del dominio tramite l’obbedienza di servi tecnici. La forma della relazione ne rivela la sostanza; una relazione formata da rapporti di comando/obbedienza non può che strutturare gerarchie fisse orientate al dominio.

A proposito della scala tecnica, la riflessione di Bookchin risulta appropriata. Discutendo della matrice sociale della tecnologia, nel capitolo decimo di L’ecologia della libertà, sostiene che il problema storico della tecnica non sta nella dimensione, ma

sta in come si possa includere (vale a dire assorbire) la tecnica dentro una società emancipatoria. In sé, il «piccolo» non è né bello né brutto; è semplicemente piccolo. Alcuni dei sistemi sociali più disumani e centralizzati si basavano su tecnologie molto «piccole», che le burocrazie, le monarchie, gli apparati militari seppero utilizzare per soggiogare gli esseri umani e, successivamente, per soggiogare la natura. Certo, una tecnica di grande scala alimenterà lo sviluppo di una società oppressiva di grande scala; ma ogni società distorta segue essenzialmente la dialettica patologica del dominio, indipendentemente dalla scala della sua tecnica. Può organizzare il «piccolo» in modo da farne qualcosa di altrettanto ripugnante del ghigno che imprime sui volti delle sue élite dominanti. Termini come «grande», «piccolo», «intermedio», «leggero», «pesante» si riferiscono ad attributi esteriori dei fenomeni o delle cose, non alla loro essenza. Possono aiutarci a determinare la loro dimensione o il loro peso, ma non ci spiegano le qualità immanenti della tecnica e in particolare come essa si rapporta alla società [corsivi miei]4.

A mio parere però gli attributi esteriori dei fenomeni o delle cose non sono separati da quella che Bookchin definisce essenza. Anzi, la forma dei fenomeni è consustanziale alla loro essenza; studiando la forma e l’articolazione delle forme si può comprenderne l’essenza, o per meglio dire il loro modo d’esistenza. In particolare, l’essenza della tecnica è la sua tecnicità, come sostiene il filosofo Gilbert Simondon, già citato nell’introduzione. Può sembrare ridondante ma, come vedremo, implica un cambio radicale di prospettiva, sicuramente dal punto di vista filosofico.

Inoltre, invece di formulare teorie astrattamente perfette, tipiche del peggior intellettualismo ignaro della realtà, dobbiamo prendere atto della scala globale della tecnologia attuale, in particolare nella sua manifestazione più evidente che è la rete di Internet, e agire a partire da quel che esiste oggi, ampliando gli spazi di autonomia concreta. In questo senso, al di là della scala, è importante prendere in considerazione le relazioni di potere.

Infatti, nell’ambito delle tecnologie di rete la scala non è semplicemente monodimensionale, legata alla vicinanza di una risorsa. La valutazione in merito al potenziale conviviale, emancipatorio e liberatorio di una configurazione tecnosociale deve tenere conto anche di altre variabili, in particolare dell’asimmetria di potere degli attori coinvolti e quindi della loro capacità di determinare norme socialmente vincolanti.

Si pensi alla fornitura di servizi web per la gestione amministrativa di un’attività legata all’organizzazione di piccoli eventi culturali (decine o centinaia di persone). In termini di relazioni di potere, per mantenere un’analoga capacità di intervenire nella definizione e applicazione di norme che regolano l’interazione reciproca, potrebbe essere accorto rivolgersi prioritariamente a organizzazioni di taglia analoga, abituate ad avere a che fare con problemi affini. Organizzazioni molto più grandi potrebbero considerare marginali questioni di piccola scala e inglobare organizzazioni più piccole come semplici ingranaggi (intercambiabili) nel loro sistema dominante.

Traduco in tecnologia corrente nel primo e secondo decennio del xxi secolo: propagandare le attività della propria associazione culturale tramite Meta (Facebook-Instagram-Whatsapp) e altri social di massa condurrà inevitabilmente a un asservimento alle procedure imposte dalla multinazionale, di omologazione dei messaggi e dei contenuti a standard predefiniti. Verranno inevitabilmente modificate, adeguandosi all’esattamento tecnico del sistema tecnocratico di Meta, l’organizzazione del lavoro, le modalità di relazione interne ed esterne all’organizzazione, le dinamiche psicosociali. Passiamo rapidamente in rassegna le ragioni di questo asservimento necessario.

Da un punto di vista quantitativo, di sforzo profuso, «usare bene» il social di massa comporterà un costante aggravio di lavoro, perché le catene di esattamenti tecnici tossici, mirati a trattenere gli umani nella zona di interazione del sistema, necessitano di continui adeguamenti alle nuove funzionalità. Per quanto riguarda il controllo dei dati e, più in generale, la prossimità della tecnologia agli utenti umani, determinerà senz’altro una perdita di controllo e una lontananza sempre più marcata per via della struttura stessa della multinazionale, che tende ad accentrare la gestione dei dati in pochi nodi (i data center), sotto il controllo di procedure opache e di pochi tecnoburocrati apicali. A livello di modalità d’interazione tecnica, i software utilizzati saranno proprietari, quindi non modificabili né distribuibili a piacimento dalle persone, come invece accade nei sistemi f/loss (Free/Libre Open Source Software).

Ma anche se fossero f/loss, il gigantismo intrinseco vanificherebbe lo sforzo di apertura, perché milioni e milioni di righe di codice che girano solo su macchine gigantesche ed estremamente potenti richiedono organizzazioni gerarchiche globali (le multinazionali) per essere gestite. Le relazioni tenderanno a strutturarsi in maniera automatizzata e spersonalizzata: da una parte perché lo sforzo di apprendimento e messa in pratica delle nozioni necessarie a interagire con il sistema tende a moltiplicarsi senza fine; dall’altra per via dell’introduzione sempre più massiccia di sistemi automatici di risposta, le cosiddette Intelligenze Artificiali (assistenti virtuali e via automatizzando) con cui gli umani devono fare sempre più spesso i conti (richieste di informazioni, reclami, ecc.).

Infine, dal punto di vista psicologico, ma anche dell’impatto sulla gratificazione fisiologica per l’attività svolta, implicherà una frustrazione crescente, perché il sistema è strutturato in modo che a investimenti crescenti (in termini economici ed energetici) corrispondano rendimenti decrescenti. Anzi, peggio ancora: a investimenti costanti corrispondono rendimenti decrescenti. Questa constatazione spiega perché il sentimento che arnesi, utensili e macchine servano per alleviare la fatica umana non abbia più realmente corso nel caso delle Megamacchine digitali.

Infatti, chiunque abbia contezza dei meccanismi di promozione social sa bene che l’unico modo perché i messaggi si diffondano è pagare il posizionamento degli stessi alla piattaforma proprietaria. Inoltre, è noto che questi cosiddetti adv (advertising), cioè pubblicità mirate, attirano maggiore attenzione quanto l’account è appena stato creato, perché la piattaforma spinge il novello utente a impegnarsi, in una sorta di noviziato per apprendere la liturgia del sistema, imparare come funziona, gratificando i suoi sforzi (e investimenti) con un rendimento notevole. Ma se l’investimento non cresce, il rendimento e la gratificazione tenderanno a diminuire. Anzi, tenderanno a diminuire in ogni caso.

Non possiamo dimostrarlo dati alla mano solo perché non abbiamo accesso agli algoritmi dei social, protetti da sofisticati sistemi di «proprietà intellettuale» (ovvero esproprio intellettuale di chi li inventa, implementa e manutiene), ma vi sono sufficienti elementi ex post (sensazioni di utilizzo, effetti psicosociali osservati, metriche e analitici) per supporre che siano implementati proprio per favorire un crescendo di interazioni tossiche di mutuo condizionamento. Non abbiamo bisogno di rivelazioni dall’interno, di qualcuno che spifferi verità ovvie: i social di massa sono tossici, si nutrono e favoriscono relazioni tossiche fra gli esseri umani e fra gli esseri tecnici.

L’argomentazione appena svolta è una riedizione della necessaria armonia e coerenza tra fini e mezzi enunciata in maniera esemplare da Errico Malatesta. A suo parere la lotta per la libertà e l’uguaglianza deve essere condotta con strumenti libertari ed egualitari, ovvero l’emancipazione non può darsi mediante strumenti oppressivi. Attenzione però: non sono gli esseri tecnici di per sé, nella loro essenza, a essere oppressivi, bensì le relazioni (e dunque le reti) che essi favoriscono in quanto creati e sviluppati come motori di adattamenti e soprattutto esattamenti tossici di massa. Fin qui la pars destruens. Più difficile, come sempre, è la pars construens.

Prossimità, affinità, federazione

Già a inizio Novecento Malatesta sosteneva che «i mezzi condizionano i fini: per la libertà ci si deve battere con strumenti che già siano in sé stessi libertà». Un secolo abbondante più tardi, possiamo fare un passo più in là con Amedeo Bertolo, che, invitato nel 2005 a riflettere sull’identità anarchica in vista di un dibattito che non si è mai tenuto, aggiungeva: «Credo che la coerenza mezzi-fini sia il minimo. Credo che si debba andare oltre. Non solo il fine non giustifica i mezzi, ma sono i mezzi che giustificano il fine». Bertolo parlava dell’anarchia come metodo, cerniera di collegamento fra mezzi e fini. Tradotto in termini tecnici: gli esseri tecnici con i quali ci accompagniamo devono poter giustificare il fine della libertà nell’uguaglianza. Come facciamo le cose, insieme agli esseri tecnici, deve riuscire nell’impresa di spiegare, supportare e far germogliare il cosa facciamo.

Si tratta quindi di invertire il flusso dell’iniziativa, dal locale verso il globale, secondo un modello di federazione reticolare in grado di trarre il massimo vantaggio dalla struttura decentralizzata e federata di Internet. Non si tratta di effettuare investimenti a pioggia, ma di facilitare iniziative legate a questioni concrete, tangibili, quotidiane. Non si tratta di inseguire la prossima start-up o app capace di rivoluzionare il mercato: sarebbe l’ennesima «rivoluzione» nel senso deteriore del termine, cioè una modifica repentina e distruttiva che rende obsolete le competenze faticosamente accumulate e rafforza le disparità pre-esistenti.

Declinare l’autogestione in questo contesto è relativamente semplice. È necessario rendere meno farraginose le pratiche per dar vita a organizzazioni di prossimità, vicine alle persone, gestite dalle persone, esperte e meno esperte, valorizzando la diversità ancor prima dell’abilità. Infatti è più importante che persone diverse fra loro riescano a collaborare in vista di un obiettivo comune, mettendo a punto procedure condivise, piuttosto che delegare agli esperti di turno per ottenere un risultato «migliore». Queste organizzazioni, strutturate con l’aiuto di esseri tecnici affini, possono federarsi e creare federazioni internazionali: la piccola scala è quindi un parametro utile se declinata nel senso della prossimità e dell’affinità fra esseri umani ed esseri tecnici che cooperano per costruire mondi comuni. Mondi che aspirano all’internazionalismo per loro stessa natura: perché la libertà, per essere davvero tale, tende a estendersi a ogni essere, vivente o meno.

Il concetto di prossimità va inteso in accezione ampia, seguendo i fili delle connessioni reticolari. La compresenza in un ambiente disconnesso, non sintetico, non è una condizione sempre necessaria, anche se spesso è desiderabile. In questo senso, è senz’altro caratterizzato da prossimità un gruppo di poche persone sparpagliate in diversi continenti che condividono pratiche e ideali, che cooperano in maniera regolare, che si confrontano, discutono e scambiano esperienze e servizi grazie al potere straordinario delle reti digitali globali. Infatti, persone collegate da una solida rete del genere, di cui si prendono cura, si sentono prossime, vicine fra loro anche se abitano realtà disconnesse del tutto diverse fra loro, anche se vivono a latitudini diverse e in fusi orari lontani. Questo perché innanzitutto mantengono l’un l’altro delle chiare tracce affettive (situazione psicoemotiva e sociale reciproca), ovvero sono al corrente della situazione degli altri. Dal punto di vista emotivo, si riscontra una consonanza fatta di comuni entusiasmi, indignazioni, slanci e frustrazioni; dissensi e conflitti tendono a essere generativi e non distruttivi. Dal punto di vista organizzativo, grazie alla concatenazione di procedure selezionate e sviluppate in maniera consapevole insieme a esseri tecnici specifici, un gruppo del genere mutua le dinamiche dei gruppi di affinità tradizionali, con i suoi rituali assembleari il più possibile snelliti e facilitati, le sue capacità di impedire la strutturazione di gerarchie fisse, le sue dinamiche interne virtuose e le proiezioni esterne verso lo spazio pubblico, nel senso di proposta politica e culturale.

È senz’altro più difficile rispetto ai modelli tradizionali di associazionismo e collaborazione, basati spesso sulla compresenza disconnessa. Ma sappiamo per esperienza che incontrarsi «di persona» non è di per sé garanzia di convivialità né tanto meno di emancipazione liberatoria: a volte i conflitti inespressi covano ed esplodono in maniera inaspettata proprio laddove ci si aspetterebbe concordia nella diversità reciproca.

Il convenire assieme in uno spazio fisico tradizionale non è nemmeno l’inevitabile premessa di una rivolta generalizzata. Le piazze straripanti non sono garanzia di rivoluzione sociale imminente, anzi possono segnalare i prodromi di un’involuzione autoritaria, perché al di là delle retoriche sulla «saggezza delle folle», come ci ricorda Elias Canetti in Massa e Potere (Masse und Macht in tedesco, che si può tradurre anche come Massa e Potenza), la massa s’infiamma facilmente e tende a disperdersi quando l’incendio si è consumato. Non saranno individui stanchi e demotivati, che non hanno nulla da perdere, a dar vita a un grande collettivo solo perché si ritrovano «insieme» a sfogarsi.

È meraviglioso potersi incontrare «di persona», ma spostarsi in continuazione da una città all’altra, da un continente all’altro, è una follia ecologica (che fra l’altro implica un’infrastruttura globale di sfruttamento a tutti i livelli), cui noi privilegiati abitanti del mondo globalizzato dobbiamo porre fine per decisione autonoma e non perché costretti dalla catastrofe ambientale in corso e dal senso di colpa. Questo non vuol dire rinunciare alla prossimità e persino all’intimità tout court; vuol dire invece riorganizzare tempi, modi e abitudini, oltre alle tecnologie che devono evolvere insieme a noi. Vuol dire imparare a cogliere la bellezza e la forza degli incontri «online»; imparare a mescolare, meticciare, gli ambienti, convocando in uno spazio pubblico umani fisicamente lontani, ma politicamente vicini.

Al di là dell’aspetto storico ricordato da Bookchin, possiamo allora riformulare la questione nei seguenti termini: quali sono le caratteristiche, i tratti, i caratteri che vengono selezionati nei sistemi tecnocratici? Quali comportamenti umani e quali retroazioni tecniche favoriscono l’emersione di una gerarchia di dominio? Quali tratti e comportamenti favoriscono invece l’insorgere di dinamiche di mutuo appoggio e l’affermarsi del retaggio della libertà?

Torniamo a osservare gli esseri tecnici in interazioni concrete con gli umani, interazioni facili da replicare per chiunque, per provare a fare un passo più in là.

Note al capitolo

1. Il valore della diversità viene ben esemplificato in ambiti assai differenti in Scott E. Page, Difference: How the Power of Diversity Creates Better Groups, Firms, Schools and Societies, Princeton University Press, Princeton-Oxford, 2007. Nell’ambito dell’urbanistica, una buona raccolta introduttiva è Jane Jacobs, Città e libertà, elèuthera, Milano, 2020.

2. Richard H. Thaler, Cass R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile: La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano, 2017; ed. or. Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, New Haven, 1999.

3. Gilles Deleuze, Félix Guattari, «Bilancio-programma per macchine desideranti», in Macchine desideranti, Ombre corte, Verona, 2004, p. 114.

4. Murray Bookchin, op. cit., pp. 373-374.