capitolo terzo

Evoluzioni tecniche

Dinamica del potere nelle evoluzioni tecniche. Il guasto come momento rivelatore: dall’affidamento alla delega tecnica, elemento base della tecnocrazia. Storia del governo tecnico, dalla teoria cibernetica all’informatica industriale. Modalità evolutive note: adattamento ed esattamento. Evoluzionismo in ambito tecnico e inquadramento dei sistemi tecnocratici come esattamenti tossici di massa. Ingredienti tecnocratici: sistemi di addestramento gamificato, sistemi di delega strutturale.

All’inizio di questa ricerca abbiamo visto come gli esperti si manifestino in occasione di guasti, ovvero quando i sistemi tecnici non funzionano come i loro possessori si aspettano. Gli esperti non s’impongono con la forza, ma, al contrario, sono i benvenuti intermediari, chiamati dai comuni mortali a frapporsi nella relazione, ormai insoddisfacente, che intrattengono con gli esseri tecnici di loro proprietà.

In termini di potere, potremmo dire che i guasti, manifesti nei mancati funzionamenti, coincidono con lo scemare del potere che gli esseri tecnici conferiscono agli umani, o addirittura con la scomparsa di quel potere. Ridotte all’impotenza, orfane del potere tecnico, le persone cercano allora qualcuno in grado di ripristinare quella sensazione di potenza, cioè la relazione pregressa in cui i sistemi tecnici rimanevano esecutori obbedienti e sottomessi. Ed è a questo punto che entrano in gioco gli esperti.

La domanda di esperti genera gli esperti? Le domande dall’apparenza semplice raramente sono semplici domande, soprattutto quando c’è di mezzo la tecnica; e questa non fa eccezione. Proviamo a tradurre, ponendo la domanda in una situazione concreta e studiando quel che accade.

Per esperienza umana, i guasti tecnici sono spesso faticosi da riparare. Nel caso degli esseri tecnici, analogici o digitali che siano, spesso risulta persino difficile riuscire a spiegare qual è il problema. Se siamo persone esperte di un determinato ambito, sappiamo bene che è difficile comprendere quello che i non esperti cercano di comunicarci. Questo è tanto più vero quanto più le apparecchiature sono complicate, sofisticate e realizzate in modo che sia difficile o impossibile smontarle e sostituire le parti usurate, o quando il «guasto» riguarda la programmazione dei software di un dispositivo elettronico.

Le relazioni possono risultare molto frustranti quando non si comprende il comportamento dell’altro, quando l’altro comunica in maniera a noi incomprensibile o sembra non comunicare affatto, ad esempio con una schermata nera. Tutto accade come se nel guasto, improvvisamente, l’essere tecnico si ribellasse; come se, impazzito, decidesse di non comportarsi più in maniera normale, cioè come se non rispettasse la norma. Dal momento che il cosiddetto «funzionamento regolare» di un sistema tecnico tende a coincidere con catene di automatismi reciproci (click, si apre una finestra; un altro click, si chiude… e così via), di cui gli umani fruitori ignorano la gran parte dei passaggi e dettagli, l’infrazione della norma comportamentale si configura come guasto. In effetti, di solito le condizioni di esistenza dell’essere tecnico vengono ampiamente ignorate fino a quando non si manifesta il guasto. Solo allora, di fronte all’impasse, alcuni si domandano: questa macchina, questo affare, questa cosa, l’avrò trattata bene? Avrò seguito le prescrizioni? E ora che è rotto, che devo fare?

La reazione più comune però è molto diversa, per nulla autocritica; l’ira, come abbiamo visto nel capitolo primo, la fa da padrona. L’automobile presa a calci perché non parte più fa il paio con lo smartphone che non risponde più ai comandi e sul quale si riversano gli improperi del padrone umano. Il comando non ottiene più l’effetto desiderato, la catena di retroazioni (click, click, click…) si interrompe perché il messaggio di comando inviato non viene recepito dallo strumento disobbediente, ed è questa situazione percepita come eccezionale a portare improvvisamente alla ribalta la materialità della tecnica. La Tecnica si manifesta allora in oggetti costituiti di molti strati; si svela come incarnata in oggetti connessi fra loro che formano reti complesse, oggetti che abbiamo chiamato esseri tecnici.

Studieremo più avanti le implicazioni fisiologiche, psicologiche e sociali di questa ira per la mancata obbedienza degli oggetti, che abbiamo già visto in azione. Sappiamo intuitivamente che l’ira tende a favorire l’insorgere di comportamenti passivo-aggressivi e rinunciatari, in un quadro generale di infantilizzazione dell’umano e colpevolizzazione dell’essere tecnico. Da cui le tipiche imprecazioni: «Non funziona, maledetto affare! Proprio adesso che mi serviva! Dannazione, capita sempre a me, non è giusto!».

Invece di comportarsi come lucido compartecipe in una relazione fra pari, l’essere umano viene infatti ridotto a stupido agente appena in grado di pigiare dei bottoni per godersi la vicinanza della macchina (la zona della macchina), intenta a compiere il suo dovere, a eseguire i comandi impartiti. A sua volta, la macchina, invece di comportarsi come abile compartecipe in una relazione di reciproco soddisfacimento, viene ridotta a schiava che risponde docile ai comandi, seguendo una procedura ignota alla controparte umana. Questo apparente idillio fatto di sottomissione automatizzata ai comandi preordinati nelle interfacce si spezza quando, nel guasto, la macchina si ribella e dev’essere allora regolata, riparata, ri-ammaestrata da un esperto.

L’emersione della tecnocrazia dipende in primo luogo dalla propensione a delegare la relazione con gli esseri tecnici agli esperti, i quali, da parte loro, sono ben lieti di mettersi in mezzo, dando vita a un triangolo di co-dipendenza. La parola chiave è delega: vediamo come si articola in situazioni concrete.

La delega tecnica

«Io non ci capisco niente di queste cose!», «Ti prego, solo per questa volta!», «A te non costa nulla!», «Tu sei capace!», «Ti ci vuole un minuto!».

Ho sentito molte volte affermazioni del genere, alternate in sequenze diverse ma sostanzialmente analoghe. Il dominio sta nei dettagli, o per meglio dire, nei minimi, singolari accantonamenti di potere che generano un accumulo di potere stratificato e strutturato in maniera gerarchica, capace di farsi passare per ovvietà, logica espressione del buon senso comune, naturale stato delle cose. Il dominio tecnico non sorge per caso, per accidente imprevisto, per destino ineluttabile. Il dominio si costruisce un passo alla volta, come evoluzione, composta da un’incessante selezione di caratteri tecnici adeguati a svilupparne gli elementi base presso gli esseri umani che si relazionano con esseri tecnici appositamente concepiti.

Elementi costitutivi per la strutturazione del dominio sono, ad esempio, la propensione alla delega cieca all’autorità, alla sottomissione, all’obbedienza e al conformismo; l’acquiescenza nei confronti della gerarchia. I caratteri tecnici selezionati in serie successive di strumentazioni tecniche perfezionano l’alienazione tecnica, la approfondiscono perché tendono a favorire comportamenti umani adeguati alle strutture di dominio, tipicamente concatenati in automatismi inconsapevoli, presentati come naturali, ovvi e inevitabili, da apprendere per rapportarsi correttamente alla macchina. In questo modo, nel corso del tempo, si verifica un rafforzamento di determinati tratti, ritenuti adeguati e per questo selezionati per moltiplicarsi nei mille rivoli del dominio che vanno a costituire la co-evoluzione tecnica dominante.

Il momento del guasto sembra essere cruciale per rivelare le relazioni di potere che intercorrono fra gli attori dell’interazione tecnica; perciò prenderemo sul serio queste formule di ricorso all’expertise, per quanto appaiano banali, analizzandone i presupposti e gli agiti impliciti, oltre che il significato esplicito.

Da una parte, le persone inesperte si sminuiscono, minimizzano le proprie competenze: «Non capisco, sono ignorante, non ci arrivo». Rimane sottinteso un ragionamento relativo al prezzo da pagare per mantenere una relazione soddisfacente con la macchina: implicitamente, non si dà il caso di una libera relazione consensuale, non prezzolata. Infatti, di fronte alla ritrosia dell’esperto, scatta la recriminazione: «Cosa ti costa? A me costa molto! Invece a te, che sei esperto, non costa nulla». Così, quando l’accento si sposta sull’esperto, il ragionamento sul costo relazionale si fa esplicito: «O esperto, tu sei capace, e questa superiore capacità implica che impieghi meno tempo ed energia rispetto a un non esperto per ripristinare il guasto. Ripristinare una relazione soddisfacente è meno oneroso per te, o esperto»! La continuità di attitudine è evidente: si sminuiscono le energie che l’esperto dovrebbe spendere, minimizzandone la fatica.

Di fronte alla fatica prospettata dal guasto, si affida a qualcun altro il compito di ripristinare il potere tecnico sotto forma di norma comportamentale dello strumento; si effettua cioè una delega. Come spesso accade, l’etimologia aiuta a capire la posta in gioco. Delegare, dal latino de-legare, significa mandare legato, deputare; la particella «de» indica un movimento di allontanamento. Delegare perciò significa allontanare da sé la macchina guasta, affidarla alle cure di qualcun altro, con l’accordo che ce la restituirà funzionante.

La delega tecnocratica è un meccanismo complesso, attivato da diverse leve, ma con uno schema ricorrente abbastanza semplice che in definitiva coincide con un aumento dell’alienazione tecnica, della lontananza ed estraneità fra esseri umani ed esseri tecnici. Il tema sottostante è sempre lo sforzo necessario per ripristinare il guasto, o, più in generale, per nutrire la relazione con gli esseri tecnici. Infatti, al di là del momento forte rappresentato dalla crisi del guasto, la delega tende a reiterarsi a livello di comportamento individuale, fino a diventare costume sociale diffuso. Tende a pervadere ogni istante delle relazioni fra esseri umani ed esseri tecnici, a farsi regola, a strutturarsi in una gerarchia organizzata in livelli fissi.

La più comune giustificazione addotta per la delega tecnocratica tira in ballo la conoscenza e la specializzazione. Dice il buon senso comune: non si può saper tutto, bisogna pur fidarsi degli specialisti, di chi ha maggiore autorità in un certo ambito. Anche Bakunin concorda:

Respingo forse ogni autorità? Lungi da me questo pensiero. Allorché si tratta di stivali, ricorro all’autorità del calzolaio; se si tratta di una casa, di un canale o di una ferrovia, consulto quella dell’architetto o dell’ingegnere. Per ogni scienza particolare mi rivolgo a chi ne è cultore. Ma non mi lascio imporre né il calzolaio, né l’architetto, né il sapiente. Li ascolto liberamente e con tutto il rispetto che meritano le loro intelligenze, il loro carattere, il loro sapere, riservandomi nondimeno il mio diritto incontestabile di critica e di controllo1.

Il vecchio Bakunin ha spesso ottime argomentazioni e questa non fa eccezione. L’autorità nel senso di autorevolezza dell’artigiano competente non è in discussione. Dobbiamo però fare la tara a questo discorso, espungendo l’afflato positivista ottocentesco che tende a presentare la scienza come una sorta di religione laica. La pratica della ricerca scientifica è molto spesso retta da principi competitivi e da logiche di spartizione politico-finanziarie, da velleità personali, da motivazioni tutt’altro che nobili, da una volontà di prevaricare a scapito della collaborazione fra pari.

A livello pubblico, di comunicazione scientifica e politica, la conoscenza scientifica assume spesso una postura dichiaratamente pastorale, di guida delle masse ignoranti, mutuata dalla pratica religiosa del governo delle anime. La tecnoscienza è tutt’altro che la panacea di ogni male, soprattutto quando si presenta come unica via per la salvezza del mondo. Il governo tecnico è un governo che tende inevitabilmente all’autoritarismo, perché tende a rendere operative soluzioni tecniche basate su verità scientifiche, a loro volta presentate come fonti di autorità inoppugnabili. Sappiamo invece che l’avventura scientifica è una continua evoluzione e che le verità scientificamente provate oggi potrebbero essere riviste alla luce delle scoperte di domani.

D’altra parte, sappiamo che il diritto di critica e controllo può esprimersi in maniera perversa, come accade di fronte a questioni scientifiche controverse come l’energia nucleare, i ritrovati biomedicali (a cominciare dai vaccini), le manipolazioni genetiche e così via. In casi simili, il libero ascolto di posizioni contrastanti e conflittuali tende a cedere alla fascinazione per sedicenti esperti, moltiplicatisi al punto che in definitiva ciascuno tende a seguire le proprie inclinazioni e a trovarle confermate in una presunta critica (para)scientifica al discorso dominante. I motori di ricerca e i social network tendono a confermare e nutrire i pregiudizi umani, non a far maturare posizioni critiche, frutto di un accurato vaglio e selezione.

A ogni modo, tenendo presente queste precisazioni, potremmo aggiungere l’autorità dell’esperto informatico a questo elenco di autorità liberatorie? Potremmo annoverare l’autorità dell’esperto informatico fra quelle di abili artigiani, o di accorti scienziati, in grado di migliorare l’esistenza nel senso della reciproca libertà degli uguali? Nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, no. La ragione è al tempo stesso semplice e complessa.

Semplice, perché è semplice comprendere intuitivamente la differenza fra un paio di scarpe che un calzolaio può riparare, ad esempio sostituendo un tacco usurato, e un computer che non risponde ai «normali» comandi del suo proprietario, il quale però non riesce nemmeno a spiegare bene in cosa consista il problema all’esperto informatico di turno. Quest’ultimo, a sua volta, magari è esperto di uno specifico tipo di dispositivi elettronici, equipaggiati con un certo software, ma non sa proprio come cavarsela di fronte ad altri modelli. Incomprensioni e malintesi sono la regola.

Ma al contempo la ragione è complessa, perché ha a che fare con la complessità delle concatenazioni reticolari e delle retroazioni sistemiche che rendono l’informatica tanto potente. Un potere sostanzialmente opaco perché eccessivamente (volutamente) complicato, appositamente progettato e realizzato in termini industriali per favorire la specializzazione e la delega tecnocratica. Nessun umano è in grado di comprendere davvero nei dettagli il funzionamento di un sistema informatico, con tutti gli strati di cui è composto, con tutte le implicazioni delle interazioni fra diversi livelli; né di contemplare tutti gli effetti scatenati da un’azione (magari inconsapevole, frutto di un automatismo comportamentale) compiuta da un agente umano con un banale dispositivo elettronico connesso alla rete globale. Si possono descrivere a grandi linee i comportamenti previsti, ma con un grado di affidabilità e completezza non paragonabile a quanto può accadere per la competenza del calzolaio rispetto all’interazione con le calzature, anche su diversi terreni e in circostanze meteorologiche differenti.

Diecimila ore di pratica è la misura comunemente assunta per indicare il tempo che occorre a un umano per diventare un «professionista» nel proprio campo. Senza assolutizzarla, questa misura può aver senso se ci si riferisce a un’attività nota, con un cursus studiorum magari definito in secoli di affinamento (dall’antichità alle corporazioni medievali fino alle discipline contemporanee) e una chiara sequenza di risultati che si deve essere in grado di raggiungere. Sempre a patto che esista un’attitudine, una volontà e un sostrato favorevole allo sviluppo di determinate abilità. A ogni modo, al di là del talento, della predisposizione e della conformazione fisica, con una pratica costante sotto la guida di insegnanti sensibili e disponibili a imparare insieme, è possibile senz’altro diventare artigiani provetti in moltissimi ambiti: calzolai, ma anche pittori, scultori, medici, giocatori di una determinata disciplina sportiva, musicisti, scrittori e così via.

Ma questa misura di diecimila ore per raggiungere una sorta di caratterizzazione identitaria professionale non ha alcun senso se riferita all’informatica, cioè a un’attività la cui unica costante, fin dalla sua comparsa a metà del xx secolo, è il radicale cambiamento continuo, l’espansione forsennata, l’integrazione sistematica con le strutture pre-esistenti, la ramificazione in una quantità abnorme di rivoli del tutto eterogenei fra loro. Forse, agli inizi del anni Novanta del xx secolo, quando Internet era affare di pochi e il web stava nascendo, con diecimila ore di pratica (dai tre ai cinque anni di impegno costante a tempo pieno) era possibile diventare esperti di informatica, nel senso di persone in grado di gestire la relazione con le apparecchiature informatiche esistenti in maniera soddisfacente. Questo però è assolutamente impossibile oggi, e in futuro ancora di più, man mano che compariranno nuovi esseri tecnici digitali. Sarà sempre più assurdo pretendere da un singolo individuo umano di padroneggiare quel che viene ascritto all’ambito dell’informatica. Per cui diventa, necessariamente, una questione sociale e collettiva. D’altra parte, un convivio non si fa in solitudine: è logico che le competenze e le capacità individuali acquisiscano un valore effettivo solo in combinazione con quelle altrui.

In primo luogo perché il sostrato materiale cambia rapidamente, ad esempio con la comparsa di dispositivi del tutto nuovi, con caratteristiche peculiari. I cosiddetti telefoni furbi (smartphone) con schermo tattile non esistevano prima del 2007; in poco più di un decennio sono diventati di gran lunga i principali mediatori delle connessioni umane alla rete di Internet. Ma un esperto informatico potrebbe tranquillamente ignorarne (quasi) l’esistenza, o comunque non aver maturato particolari abilità con quei dispositivi, perché magari si dedica alla concezione e gestione di macchine virtuali ospitate su server remoti, o si occupa della progettazione di linguaggi informatici e protocolli di alto livello a prescindere dal sostrato meccanico.

In secondo luogo perché le reti informatiche sono composte di molti strati complessi che interagiscono fra loro in maniera estremamente rapida, con retroazioni cibernetiche, per cui anche gli esseri umani fanno parte di queste reti in maniera diversa rispetto a quanto avviene nelle relazioni con i classici utensili «semplici» (martello, forbice, ecc.) o con le macchine «complesse» (automobile, bicicletta, ecc.). Da portatore di utensili abbastanza chiaramente distinguibile dagli utensili stessi, l’essere umano tende a diventare ingranaggio di un sistema complesso, integrato quanto ogni altro elemento meccanico, elettrotecnico, chimico.

In realtà, la dinamica interattiva di fondo è simile a prescindere dalla complessità tecnica, perché da parte umana è pur sempre necessario mettere a punto automatismi cognitivi (apprendistato tecnico) per interagire in maniera soddisfacente con gli esseri tecnici. Non ci domandiamo «come funziona questo affare?» ogni volta che afferriamo un martello, e nemmeno «che diavolo è questa leva?» ogni volta che guidiamo un’automobile: meno male, altrimenti finiremmo con le dita pestate o schiantati.

Dalla cibernetica all’informatica industriale

Certamente l’automobile non ha senso senza la rete stradale, né il treno senza la rete ferroviaria; entrambe sono strutture reticolari complesse, innervate dalla distribuzione di comunicazioni e controlli per regolarne i flussi informativi e quindi la circolazione di veicoli. A partire dagli anni Quaranta del xx secolo è stato impiegato il termine cibernetica per designare lo studio dei fenomeni di controllo e comunicazione e in particolare l’invio di messaggi di comando effettivo, cioè di messaggi che modificano il comportamento di ciò che riceve il messaggio stesso (umano o non umano). Oggetto di studio della cibernetica è l’adattamento reciproco fra esseri viventi ed esseri non viventi in termini di autoregolazione dei sistemi. La cibernetica è nata in un’epoca in cui l’informatica era più teoria che pratica incarnata in apparecchiature concrete.

L’intensità dei cicli di adattamento (reciproco) nelle reti informatiche globali è notevolmente maggiore rispetto alle reti analogiche precedenti, come autostrade, ferrovie e fogne. La mia tesi è che siano preponderanti le dinamiche di esattamento tossico, orientato all’aumento di automazione e preordinato a scopi di lucro e dominio a livello individuale e collettivo, rispetto a dinamiche di adattamento/esattamento non orientate al dominio. Esattamento (o exattamento) è una traduzione dell’inglese exaptation, che grossolanamente possiamo figurarci come evoluzione che procede dall’organo alla funzione.

In termini più tecnici, nell’esattamento un carattere, o un insieme di caratteri (sotto forma di organo complesso), precedentemente plasmato dalla selezione naturale per una particolare funzione (adattamento), viene cooptato per un nuovo uso, cioè per svolgere funzioni prima inesistenti. Oppure, un carattere (o un insieme di caratteri, specie sotto forma di organo complesso) viene cooptato per un uso attuale, cioè per svolgere una funzione già esistente ma attraverso una nuova sequenza, in un modo nuovo; l’origine di tale carattere (insieme di caratteri, organo) non può essere direttamente ascritta alla selezione naturale, ma piuttosto a una variazione conservata per altre ragioni più o meno casuali (quindi un non adattamento).

Gli esattamenti differiscono radicalmente dagli adattamenti, che procedono dalla funzione all’organo, per cui la selezione naturale (o tecnica) plasma un carattere per un uso attuale, per svolgere in maniera più adeguata (con meno sforzo, in modo più efficiente ed efficace) una funzione già esistente e individuata.

Gli esattamenti sono parte dell’evoluzione naturale da sempre, e sono assolutamente fondamentali, al pari degli adattamenti. Dal punto di vista dell’analisi del potere non c’è soluzione di continuità fra esseri naturali ed esseri artificiali, fra esseri organici ed esseri inorganici, fra esseri viventi ed esseri non viventi. Propongo quindi di considerare esattamenti e adattamenti come elementi primari dell’evoluzione tecnica fin da quando il primo strumento tecnico è stato messo a punto da un nostro antenato australopiteco. Questo per evidenziare che non si tratta di un fenomeno nuovo, sorto improvvisamente con l’era digitale, ma di un continuum evolutivo che però ora si presenta come straordinariamente sbilanciato dalla parte dell’evoluzione di sistemi tecnici orientati al dominio. Non è cambiata la sostanza, ma è cambiata la rapidità, l’intensità, la scala e le reazioni sistemiche dell’adozione di determinati adattamenti ed esattamenti tecnici.

Nel caso delle reti attuali, la selezione di caratteri che il sistema individua come desiderabili avviene quindi secondo dinamiche più intense, rapide, dirompenti rispetto agli esattamenti tecnici fin qui noti. Inoltre avvengono su scala industriale globale, con effetti a catena a ogni livello della scala, dal comportamento del singolo individuo umano alla linea di montaggio dei dispositivi elettronici, alle contese geopolitiche per il controllo e l’estrazione delle materie prime (terre rare, litio, ecc.). La sensazione di disagio e alienazione tecnica è principalmente riconducibile alla forzatura orientata al dominio di selezioni evolutive tramite esattamenti tecnici tossici delle relazioni fra esseri umani ed esseri tecnici.

Discuterò nel prossimo paragrafo i meccanismi di selezione tecnica tramite esattamento teso all’automatismo. Importa ora aver ben chiaro che, per funzionare, nel senso di presentarsi in maniera fluida e reattiva alle interazioni umane, la rete globale di Internet necessita di una quantità di expertise irriducibile al singolo esperto e persino a una categoria specifica di esperti. Anche gli esperti effettuano deleghe ad altri esperti, di cui si fidano per conoscenza diretta o più spesso ai quali sono costretti ad affidarsi giocoforza, serrando sempre più le maglie di una catena senza fine in cui gli umani tendono ad affidarsi ciecamente ai dispositivi con cui vivono, da cui le loro vite in effetti dipendono in maniera crescente. Quando il flusso interattivo incontra qualche ostacolo, ecco insorgere l’ira, la frustrazione, la noia.

Certo, l’umano si affida da sempre a ritrovati tecnici per abitare il mondo. Una volta si ricorreva a mappe del territorio per orientarsi, e a enciclopedie cartacee per trovare definizioni. Oggi siamo nell’era digitale, perciò può sembrare naturale progresso tecnico (un’espressione che è un concentrato di assurdità e pregiudizi!) il fatto che navigatori digitali intelligenti sopperiscano al senso dell’orientamento umano, o che i motori di ricerca (magari consultati con assistenti vocali altrettanto intelligenti) semplifichino il recupero di informazioni.

Ma, al di là della contrapposizione poco illuminante fra analogico e digitale, sussistono differenze fondamentali fra la consultazione della mappa e quella del navigatore digitale. Si tratta di operazioni che implicano tipologie di fiducia molto diverse per intensità e soprattutto per il ritmo relazionale, per la frequenza di scambi impliciti in procedure apprese in maniera perlopiù inconsapevole dagli agenti umani. Infatti questi ultimi raramente sanno spiegare come hanno appreso a interagire con gli esseri digitali, pur avendoci a che fare senza difficoltà quotidianamente. Nessun corso di perfezionamento, nessuna scuola, nessun apprendistato: si evoca invece l’intuitività di alcune interfacce, la semplicità di determinate procedure e dispositivi, che di intuitivo e semplice non hanno assolutamente nulla. Spesso viene invocata una predisposizione all’interazione tecnica che sa di predestinazione nascosta, variamente mescolata a considerazioni scientificamente infondate sull’essere nativi o immigranti digitali. Invece è dimostrato e dimostrabile che qualsiasi essere umano dotato di determinate caratteristiche fisiche (principalmente, una corteccia cerebrale che risponde a determinate sollecitazioni visive), a prescindere dall’età anagrafica può maturare relazioni di familiarità con sistemi tecnici digitali e sviluppare abilità solitamente considerate appannaggio dei cosiddetti nativi digitali. Al punto da poter sviluppare anche dinamiche di abuso.

Dal punto di vista materiale, si tratta di sviluppare dinamiche di interazione diverse per quanto riguarda i mediatori tecnici chiamati in causa (cartine, software presentati da schermi digitali, volumi enciclopedici e così via), così come per le abilità richieste: leggere una cartina geografica, interagire con un software di navigazione o consultare un’enciclopedia cartacea. Non dipende dall’età, ma dalla motivazione, dall’occasione, dal contesto e così via.

In ogni caso, la delega all’operato dell’esperto, da temporanea e revocabile, tende a diventare delega all’operato dell’essere tecnico fissa e irrevocabile; anzi, delega continuamente reiterata e aumentata di grado e intensità, in un crescendo di alienazione tecnica. Questo avviene sotto una duplice pressione. Da una parte, per via delle caratteristiche intrinseche dei sistemi informatici attuali, frutto della predazione dissennata delle risorse (materie prime naturali e sfruttamento della manodopera ridotta a risorsa umana): questi sistemi mirano a riprodurre strutture operative e comunicative gerarchiche, implementate con modalità opache per l’utente e orientate all’estensione illimitata dei regimi di mercato. Dall’altra, per via della propensione al dominio maturata da alcuni millenni dagli esseri umani. Una propensione che si nutre non solo della brama di comando dispotico, ma anche e soprattutto del desiderio di sottomissione, dell’ansia di obbedire, della scarsa volontà di prendersi cura della faticosa gestione della tecnica.

Gli straordinari poteri che scaturiscono dall’interazione con gli esseri tecnici sono estremamente appetibili per chiunque, e sono facile preda di chi è in grado di assicurarsi l’obbedienza degli esperti che, dopotutto, sono pur sempre esseri umani. Così la gerarchia esistente si trova inequivocabilmente rafforzata ogni qual volta un esperto si conforma alle relazioni di comando/obbedienza; per converso, viene indebolita dal rifiuto degli esperti di collaborare al sistema di dominio esistente, ma può essere dissolta solo se molti più esseri umani si fanno carico del sistema tecnico, disertando le «normali» subordinazioni dispotiche.

In concreto, la delega tecnica tende a farsi alienazione tecnica strutturale nel caso del guasto, perché sono necessari diversi esperti per venire a capo del problema; esperti subordinati fra loro in sistemi gerarchici: lo abbiamo già visto nel caso dell’iPhone nel primo capitolo. Ma questo accade anche nel caso del funzionamento regolare. Questa percepita normalità della delega alienante è molto più grave dal punto di vista libertario. Quella che viene percepita come ovvia normalità è in effetti il prodotto dell’azione coordinata di un’enorme quantità di sistemi che richiedono una quantità straordinaria di controlli e monitoraggi (retroazioni cibernetiche) da parte di umani e non umani, ovvero cure specifiche da parte di esperti di vario tipo. Cure per i cavi sottomarini in fibra ottica percorsi dalla luce che, come abbiamo visto, costituiscono l’ossatura stessa della rete; cure per l’assemblaggio industriale dei dispositivi a partire da una miriade di componenti; cure necessarie per la programmazione dei software (dal codice sottostante fino alle interfacce utente), che consentono l’interazione umana; cure indispensabili per risolvere errori, effettuare aggiornamenti e regolari manutenzioni. Cure prodigate quasi sempre sotto l’egida di sistemi gerarchici per nulla disposti a lasciar spazio alla convivialità; cure obbligate dall’obsolescenza programmata dei sistemi, imposte come abitudine di co-dipendenza tossica dall’ignoranza e dalla noncuranza generalizzata.

La rete di Internet è molto più complessa di qualsiasi altra rete tecnica mai realizzata, più che altro perché tende a interagire in maniera sistemica con le reti già esistenti, inglobandole così in una rete più ampia: si pensi alle lavatrici «intelligenti» e agli altri dispositivi della cosiddetta Internet delle Cose (iot, Internet of Things), elettrodomestici e altri oggetti connessi in rete, gestibili da remoto. La delega strutturale ai tecnocrati sembra essere inevitabile, e in effetti lo è, almeno per come si è evoluta e strutturata oggi.

Delegare a livello tecnico significa investire qualcun altro della propria autorità nei confronti di quel sistema/strumento; significa dare ad altri il proprio potere. Nel caso dei computer è molto evidente: consegniamo le parole d’ordine, le password per accedere al dispositivo e poterlo comandare; al contempo, diamo mandato all’esperto di fare qualsiasi cosa sia necessaria per ripristinarne il funzionamento.

Gli esperti di organizzazioni gerarchiche spiegano come effettuare deleghe in maniera corretta, cioè, dal loro punto di vista, in modo da massimizzare l’effetto della delega stessa, per moltiplicare il potere diffuso e poterlo poi riassorbire, accumulandolo e rinsaldando in tal modo la gerarchia stessa, la lealtà nei confronti dell’autorità dei dominanti da parte dei subordinati. Nel caso della delega tecnica strutturale, la nostra domanda invece rimane: è possibile delegare bene, in senso libertario, cioè in modo da aumentare la diffusione del potere, della capacità di intervenire nella messa in opera di norme condivise, ma di evitare al contempo il fortificarsi delle relazioni di dominio?

La risposta breve è: sì, se riusciamo a far circolare la conoscenza, ovvero la linfa stessa che nutre le relazione all’interno di una rete. Dobbiamo ricordare che lo strumento è diverso dalla rete, il dispositivo non è la rete, e d’altra parte la rete si riconfigura continuamente, è un processo di ontogenesi, di creazione di esistenza incessante, proprio perché si evolve attraverso la selezione di caratteristiche reputate adatte. Ma al tempo stesso dobbiamo tenere presente che possiamo separare gli strumenti che compongono una rete solo in maniera astratta, per comodità di studio; lo stesso vale per la separazione netta fra elementi tecnici e umani che partecipano a una stessa rete.

Per delegare bene, è necessario che le conoscenze circolino il più possibile, non solo e non tanto come sapere astratto, applicabile a ogni situazione, ma come competenze di cui ci si può impratichire sotto forma di esperienze sempre e comunque uniche, individuali. Devono circolare anche (soprattutto!) quando sono spurie, incomplete e magari insoddisfacenti. Non dobbiamo perdere di vista il percorso; è fondamentale riuscire a goderci il viaggio e maturare l’abilità di cogliere il momento opportuno, il kairos come direbbero i filosofi antichi. Dobbiamo invece evitare di concentrarci sull’obiettivo e sul risultato atteso che, nei fatti, è piuttosto nebuloso e in ogni caso difficile da esprimere in maniera precisa senza sporcarsi le mani con la cura per e insieme agli esseri tecnici.

È fondamentale divertirsi, non prenderla troppo sul serio, altrimenti invece di un piacevole e appassionante convivio ci ritroveremo immersi in uno sfiancante sforzo per convincere, sopraffare, cooptare e sottomettere gli altri ai nostri obiettivi.

Al tempo stesso, è necessario evitare di contribuire ai sistemi tecnocratici esistenti, cosa che potrebbe sembrare in contraddizione con la libera circolazione delle conoscenze, ma che in realtà non lo è affatto. Libero non significa assolutamente libero, ma relativamente libero, in relazione a qualcosa e qualcuno. Non c’è libertà possibile senza condivisione del potere. Gli accumulatori seriali di potere, che forzano l’evoluzione tecnica nella direzione del dominio, ovvero i sistemi tecnoindustriali, vanno semplicemente disertati, abbandonati e distrutti.

Per rispondere in modo un poco più approfondito dovremo studiare come operano concretamente i sistemi tecnici dal punto di vista dell’evoluzione del comportamento umano, e dell’umano in genere.

Evoluzione: adattamento ed esattamento

Gli esseri umani convivono sul pianeta Terra con altri esseri, tra cui quelli tecnici. La storia della loro comune esistenza è la storia della loro co-evoluzione. Per immaginare come delegare bene, ammesso che sia possibile, dobbiamo innanzitutto delineare le loro modalità di interazione e di selezione delle caratteristiche reciprocamente desiderabili. In termini evolutivi, i caratteri vengono selezionati secondo due tipologie di processi, gli stessi che scandiscono l’evoluzione di tutti gli esseri sul pianeta: processi di adattamento e processi di esattamento (exaptation).

La modalità più nota è l’adattamento, di cui Darwin tratta estesamente nel suo capolavoro L’origine delle specie: si intende con adattamento l’adeguamento di un organismo, una specie o un sistema ambientale al modificarsi delle condizioni esterne. Gli umani si adattano anche agli strumenti tecnici, parte delle condizioni esterne, scaricando su di essi una parte dello sforzo. Nel caso degli utensili, come il martello, la pinza, la vanga, si tratta di uno sforzo fisico che viene ottimizzato tramite l’apprendimento di uno schema di interazione (martellare, pinzare, vangare).

L’apprendimento è sempre presente nell’interazione tecnica, e quindi c’è sempre un aspetto cognitivo. Ad esempio, invece di ricordare a memoria indirizzi e numeri di telefono (immagazzinandoli nel proprio corpo), li scriviamo sull’agenda; anzi, li digitiamo sull’agenda elettronica del cellulare. La fatica di ricordare viene delegata allo strumento, che assume un ruolo protesico, nel senso che funge da protesi mnemonica. In concreto, questa delega avviene attraverso la messa in atto di procedure di interazione con i dispositivi che tendono all’automatismo cognitivo. La procedura diventa automatica, non dobbiamo studiare ogni volta come interagire; perciò l’essere umano risparmia energie, delegando lo sforzo all’essere tecnico. Assumendo un automatismo comportamentale di delega nei confronti dell’essere tecnico, l’umano riduce in maniera drastica l’impegno delle proprie risorse cognitive.

Dal punto di vista che abbiamo adottato in questa ricerca, quello del potere, ciò significa che la capacità di formulare e applicare norme condivise viene delegata agli esseri tecnici. Almeno in parte, sono gli esseri tecnici a regolare i rapporti di convivenza fra gli esseri viventi e non. È necessario quindi comprendere in che modo avvenga questa delega capace di renderci più potenti.

Ci adattiamo alla bicicletta come all’automobile, alla tastiera meccanica come allo schermo tattile. Non c’è una differenza sostanziale nel caso degli esseri tecnici digitali. In tutti i casi, per tutti gli esseri viventi (non solo per gli esseri umani), l’adattamento procede dalla funzione all’organo. Lo si può rintracciare nell’evoluzione di ogni specie vivente, studiando la conformazione dei loro corpi e il modo in cui interagiscono, in particolare a livello di organi.

Grazie al pollice opponibile, gli umani sono in grado di afferrare in maniera efficace. I caratteri che hanno portato all’evoluzione del pollice sono stati selezionati in milioni di anni, perfezionando l’abilità di afferrare. Per portare a termine questa funzione è necessario compiere un certo lavoro, in greco antico ergon, che è svolto da un organo (organon in greco, ciò che svolge l’ergon, il lavoro; in latino organum, strumento, arnese), in questo caso la mano.

L’invenzione di dispositivi che facilitano la predisposizione ad afferrare mira a trasformare lo sforzo consapevole in procedure automatiche, senza bisogno di un lavoro cognitivo consapevole: si pensi ad esempio a tutti i tipi di maniglie e impugnature che gli oggetti possono avere. Quando afferriamo una caraffa per il manico non ci soffermiamo a riflettere sul significato di quell’ansa: la afferriamo e basta. Funzioniamo insieme alla caraffa e al suo manico. Il corpo ha interiorizzato i movimenti necessari all’esecuzione della sinfonia, viene eseguito lo spartito musicale che prevede l’intervento ritmato di diversi muscoli e tessuti in armonia con l’essere tecnico.

L’organo mano deve apprendere una serie di abilità e risulterà modificato da queste interazioni, perché imparerà ad afferrare in maniere differenti. Così la penna per scrivere è adatta alla mano, nelle sue varie versioni, dalla penna d’oca e calamaio alla penna a sfera; a sua volta, la mano si adatta alla penna esercitandosi a impugnarla per scrivere. Una volta imparato ad afferrare correttamente la penna, non abbiamo più bisogno di pensarci: seguiamo la procedura.

Le linee di produzione industriale integrano le procedure di automatismo cognitivo umano nella fabbricazione di oggetti identici, adattati all’interazione automatica; il che significa, dal punto di vista del complesso tecnico (composto almeno di robot industriali-designer-operai della linea), che l’obiettivo dell’automatismo tende a riflettersi sull’intero sistema produttivo, nella segmentazione e specializzazione delle singole operazioni tecniche, da parte di umani e non. Il risultato è, ad esempio, la produzione di bottiglie di plastica con un incavo, invece che semplicemente cilindriche. Questo tipo di bottiglia è appositamente studiata e realizzata per rendere più efficace la funzione di afferrare, perché l’ergonomia dell’oggetto lo permette, per cui si dice che possiede una certa affordance (permissività). L’ergonomia specifica letteralmente le regole del lavoro (ergon-nomos) da compiere.

Nell’esattamento (exaptation), al contrario, sono alcuni caratteri, o insiemi di caratteri organizzati come organi, a creare effetti prima inesistenti, cooptati per usi e funzioni prima inesistenti (o svolti in maniera differente). In termini generali, se l’adattamento consiste nell’elaborazione di strutture che permettono all’organismo di sopravvivere, o sopravvivere meglio, attraverso un lavorio lento, costante e graduale, l’esattamento è l’impiego da parte dell’organismo di strutture già esistenti per finalità diverse da quelle che le hanno generate.

Darwin aveva discusso già di pre-adattamento. Se per effetto della variazione casuale un individuo si trova a possedere caratteristiche che si rivelano utili per svolgere funzioni fino a quel momento impensate, quell’individuo avrà una fitness maggiore e una maggiore possibilità di riprodursi e trasmettere così le sue caratteristiche alla progenie. L’esattamento, per quanto abbia a che fare con la cooptazione di caratteri già esistenti per effetti inattesi, cioè per svolgere attività impreviste, è però qualcosa di più sofisticato rispetto al pre-adattamento darwiniano; soprattutto, non ha alcun riferimento teleologico, cioè non avviene per rispondere a un disegno predeterminato.

Uno degli esempi dei paleontologi Stephen J. Gould ed Elizabeth Vrba, che nel 1982 hanno coniato il termine exaptation, è l’ala negli uccelli. Questo organo aveva in origine una funzione termica. Nei rettili a sangue freddo serviva infatti ad aumentare la superficie del corpo e a immagazzinare maggior calore; la metamorfosi delle scaglie in piume aumentò l’isolamento termico. Ma poi, lentamente, quella membrana-termosifone divenne ala per volare in alcuni individui che si trovarono a esercitarla in quel senso, cioè a cooptare quell’organo per la nuova funzione «volare» invece di continuare a servirsene per la funzione per cui si era evoluta, cioè «regolare la temperatura»: l’esercizio e la cooptazione dell’organo hanno prodotto un effetto inatteso e creato una nuova funzione.

Tornando all’evoluzione tecnica della scrittura, possiamo individuare forme di adattamento alternate a forme di esattamento. Un esempio di esattamento: la funzione «lascia una traccia scritta della tua esistenza» non esisteva prima che la scrittura diventasse una consuetudine sociale, prima cioè che il potere derivato dalla co-esistenza fra esseri umani ed esseri tecnici dedicati alla scrittura (penne, carta per scrivere, quaderni, ecc.) si diffondesse al punto tale da esplicitarsi in norme condivise, come quella di lasciare diari personali, lettere, memorie scritte per le persone care. In qualche modo, la scrittura è una maniera per prolungare la vita dell’autore al di là della sua esistenza corporea attraverso il manufatto scritto. È un potere straordinario creato dalla tecnologia.

Esattamenti tossici di massa

Il caso delle tecnologie digitali di massa è molto più complesso, ma sostanzialmente analogo. Il concetto di esattamento applicato alle piattaforme digitali commerciali di massa ci permette di inquadrare in maniera più precisa la dinamica ricorsiva di comandi e regolazioni cibernetiche. Le retroazioni sistemiche nutrono il reciproco condizionamento fra esseri umani ed esseri tecnici. Un click genera un altro click e così via, strutturando lunghe catene di esattamenti tecnici. Questi esattamenti in effetti convocano insieme strutture sociali, abitudini personali e collettive, nonché strutture tecniche, per farle interagire secondo finalità diverse da quelle che le hanno generate. L’evoluzione dei sistemi interattivi viene forzata favorendo la ripetizione di procedure, sotto forma di comportamenti irriflessi, automatici.

Questi automatismi comportamentali sono assimilabili a rituali inconsapevoli. Ad esempio, rispondere all’«Alt, parola d’ordine»: fornire login e password, una procedura ripetuta in continuazione, cui gli umani sono ormai abituati nei sistemi tecnocratici. Eppure non sono operazioni anodine: declinare le generalità e comunicare una parola d’ordine indica chiaramente che stiamo entrando in una zona militarizzata, che non è casa nostra. Le procedure tipiche degli esattamenti tossici avvengono infatti all’interno dei cancelli digitali dei padroni della piattaforma.

La reiterazione delle medesime azioni e reazioni è assimilabile a schemi rituali che si svolgono secondo il ritmo dettato da regole algoritmiche altrui, e sotto l’attenta supervisione del sistema. Il monitoraggio mira sia a realizzare versioni successive sempre più condizionanti, sia a collezionare dati (e metadati) da vendere al miglior offerente sul mercato. La soddisfazione dell’utente è immediata, così come la sensazione di non averne abbastanza: a ogni click, post, notifica, corrisponde infatti una scarica a livello dei neurotrasmettitori che orchestrano le sensazioni del piacere nel corpo umano (in particolare la dopamina). Il risultato è la sottomissione pressoché immediata degli umani al sistema che credono di comandare; il che coincide con l’obbediente sottomissione al condizionamento patito dal proprio organismo, cioè corrisponde a un vero e proprio autoabuso.

In questa prospettiva è illuminante l’invio di un messaggio di Whatsapp, un’esperienza condivisa da miliardi di esseri umani più volte al giorno. Scomponiamo la procedura in azioni semplici, con le corrispondenti emozioni, per mostrare come si snoda l’articolazione liturgica del condizionamento digitale. Si vede così come specifici automatismi siano stati progettati nelle interfacce dei dispositivi tecnici per produrre corrispondenti automatismi comportamentali negli esseri umani che li adoperano, selezionando così tratti comuni di co-evoluzione tecnica.

L’invio di un messaggio: «Dove sei? Ti aspettavo alle sette!», è seguito da una spunta grigia visualizzata sullo schermo di chi invia («bene, è stato inviato» = sollievo; «ma quando arriverà?» = aspettativa, ansia); spunta che diventa azzurra quando il dispositivo del destinatario riceve il messaggio («ha ricevuto, era ora!» = sollievo; «ma quando lo leggerà?» = aspettativa, ansia), e quindi si raddoppia in una doppia spunta azzurra quando il destinatario visualizza il messaggio («ha letto, era ora!» = sollievo; «ma quando risponderà?» = aspettativa, ansia). Uno speculare ritmo d’interazione si instaura nel combinato disposto fra dispositivo ricevente e umano destinatario del messaggio, che a sua volta tenderà a rinforzare l’interazione dando il via a un nuovo ciclo. Vengono così selezionati comportamenti specifici e reazioni emotive ben definite, volte a perpetuare l’interazione, ancora e ancora. In barba alla sbandierata libertà di scelta.

Non ha senso quindi proporre di usare bene tecnologie del genere. Al massimo possiamo individuare quali sono i caratteri selezionati dal sistema e quindi cercare di smorzare, attenuare, controbilanciare gli effetti che riteniamo sgradevoli e indesiderabili. Ma questo sforzo comporterà un sostanziale disallineamento fra l’uso previsto del sistema e l’uso deviante che cerchiamo di farne strutturando l’interazione in maniera differente, per adattarla ai nostri fini. L’energia necessaria per compiere un’interazione sarà inevitabilmente maggiore, l’efficienza e l’efficacia saranno inferiori, la gratificazione complessiva risulterà minore.

Pensiamo ai gruppi di messaggistica: è facile constatare quanto l’abuso sia inscritto nella procedura stessa, che seleziona attivamente comportamenti abusivi. Ad esempio: rispondere immediatamente quasi senza leggere; reagire in maniera standardizzata tramite emoticon e simili; ritornare ossessivamente a porre domande la cui risposta si può trovare qualche messaggio prima nella lista; rendere complicata o faticosa o impossibile la ricerca nell’archivio dei messaggi; e così via. Avvalersi di un sistema del genere per attivare una riflessione ampia e condivisa non è impossibile in linea teorica, ma in pratica, considerate le caratteristiche specifiche del sistema e le modalità che favorisce, risulta estremamente faticoso e dispendioso.

Una sequenza calibrata, disegnata ad hoc da esperti, viene proposta in esclusiva per ogni umano disponibile all’interazione. Gli esperti al servizio di aziende che lucrano su ogni minimo movimento degli utenti appartengono a diverse tipologie: sono interaction designer, scienziati cognitivi, psicologi comportamentali, designer di interfacce, coder, ecc. Grazie al loro impegno, la procedura si dipana sempre uguale a sé stessa, eppure pronta ad accogliere «innovazioni» (cioè selezioni di caratteri ritenuti adeguati) per renderla ancora più appetibile, in una nuova versione «migliorata». Migliorare, dal punto di vista dell’esattamento tecnico industriale, significa immaginare e mettere a punto selezioni di caratteri per accelerare, prolungare e intensificare la durata degli scambi e il tempo complessivo trascorso dagli umani all’interno di quella dinamica interattiva tossica.

Tutte queste interazioni richiedono molta energia e un gran lavorio. Gli organi che svolgono il lavoro, però, sono solo in minima parte organi umani. Sono gli algoritmi, le interfacce e gli esperti di cui sopra che svolgono il lavoro liturgico, strutturando una gerarchia opaca; e tutti lavorano al servizio di aziende private (nel caso delle multinazionali) o di governi più o meno oppressivi (nel caso delle agenzie di intelligence). Le funzioni non pre-esistono, ma sono effetti prodotti attraverso interazioni pre-ordinate, restituite al corpo organico dell’utente sotto forma di misurazioni, che corrispondono alla quantificazione della sua esperienza.

Digressione etimologica: il significato originario di liturgia non era lontano da servizio pubblico. Viene dal greco leitos (pubblico, per il popolo) ed ergon (lavoro, servizio). In origine, come riferiscono anche Platone e Aristotele, erano dette liturgie tutte le opere pubbliche realizzate in pubblico per il bene pubblico. In seguito, nell’Atene classica, le liturgie sono state intese come forme di tassazione. Ad esempio, i cittadini benestanti finanziavano la rappresentazione pubblica di tragedie e drammi satireschi aperti a coloro che ne avevano diritto. Quelle liturgie erano appunto al servizio del pubblico.

Venticinque secoli più tardi, la situazione è sostanzialmente ribaltata: le liturgie operate da aziende private strutturano il mondo sociale pubblico. L’esperienza pubblica di Internet, e in particolare del web, si concretizza grazie agli algoritmi: sono queste le procedure che regolano il ritmo della liturgia digitale. Gli algoritmi fanno accadere le cose. Gli algoritmi di Alphabet servono i risultati pubblici del motore di ricerca Google, dei suggerimenti video di YouTube. Quelli di Facebook e Instagram servono gli aggiornamenti e le connessioni di Facebook e Instagram. Gli algoritmi di Amazon offrono suggerimenti sui libri che dovremmo leggere, e su tutto ciò che dovremmo acquistare. Quelli di Apple Store ci suggeriscono la musica da acquistare e ascoltare, così come mille altri servizi analoghi. Le piattaforme gestite da governi autoritari si comportano in maniera analoga. Queste liturgie tecniche, private o pubbliche, selezionano funzioni prima inesistenti.

La funzione «dì a tutti che sei fidanzata» (gay, confusa, triste, entusiasta…), con l’effetto gratificante, la sensazione di potere che comporta, non esisteva prima dell’avvento di Facebook. La funzione «mostra a tutti una foto che dimostri quanto ti stai divertendo con una frase memorabile che faccia schiattare d’invidia» non era nemmeno concepibile prima di Instagram. Per raggiungere un effetto vagamente paragonabile si sarebbe dovuto scrivere ad alcuni, parlare con altri, telefonare, scattare foto, stamparle, inviarle, farle pubblicare su giornali o riviste e così via. Si sarebbe dovuta organizzare una rete di competenze e di esperti in grado di supportare e mettere in opera quella funzione con organi adeguati.

Ora invece questo potere è alla portata di tutti, perché la funzione è disponibile a chiunque possieda un profilo su Facebook, Instagram o altre piattaforme a seconda di quel che desidera ottenere, automaticamente. Il costo cognitivo di questa funzione è prossimo allo zero. Anche se riuscire bene non è facile: bisogna allenarsi molto e impegnarsi per diventare capaci al gioco social, non è affatto banale. Ma questa fatica richiesta dall’apprendistato del sistema tecnico è radicalmente diversa dai tipi tradizionali di apprendistato. Invece di sforzarsi per organizzare un’interazione complessa con molti altri umani tramite la chiamata in causa di tanti dispositivi e l’impiego di tante competenze, l’individuo trae da questa attività piacere immediato, chimico, sotto forma di secrezione di dopamina endogena. Il neurotrasmettitore viene secreto a livello cerebrale durante l’interazione con la piattaforma stessa, favorito dalla piattaforma. Quest’ultima si fa carico di gran parte del lavoro, mettendo a disposizione i propri organi digitali. Organi assai concreti e per nulla smaterializzati, come abbiamo visto studiando la struttura dell’Internet globale con i suoi cavi sottomarini.

Per essere parte integrante di queste nuove Megamacchine, gli umani devono solo fare click, con il pollice se hanno uno smartphone. O con un altro organo adattato alla funzione, piegato all’interesse interattivo iscritto nel sistema, profondendo ancora minor energia – ad esempio la voce: «Alexa, invia la foto!» – oppure adeguati movimenti oculari, o ancora semplice presentazione del viso alla telecamera, per effettuare un pagamento tramite riconoscimento facciale. In ogni caso devono assoggettarsi a una procedura che non hanno deciso, cioè adeguarsi a una norma che non hanno contribuito a definire. Seguono le tracce algoritmiche dell’interfaccia tecnica, ne interiorizzano il ritmo fino a che diventa un automatismo comportamentale.

Sistemi di addestramento

Per favorire l’instaurazione della norma procedurale, le interfacce tendono a essere gamificate, cioè a incorporare schemi di gioco competitivo in sistemi che non si presentano esplicitamente come giochi. Questi schemi si manifestano sotto forma di punti, classifiche, badge, notifiche, jingle e così via. L’interazione tecnica assume allora la forma di giochi seriali, ripetitivi e competitivi che risultano estremamente piacevoli per gli esseri umani, poiché ogni azione e reazione scatena scariche ormonali che sollecitano il circuito dopaminergico, responsabile delle sensazioni di piacere. Ricevere un like è letteralmente un’iniezione di dopamina endogena, un neurotrasmettitore dagli effetti analoghi agli oppiacei.

La letteratura sull’addestramento comportamentale tramite la messa a punto di interfacce altamente gamificate è vasta e ramificata. In genere la gamificazione viene presentata come la panacea per le istituzioni che vogliono attirare i cittadini e coinvolgerli in attività di partecipazione, ma anche per gli insegnanti che vogliono rendere più accattivanti le loro lezioni, per i manager che vogliono migliorare i rendimenti aziendali, per i venditori che vogliono aumentare le vendite, e insomma per chiunque desideri aumentare, intensificare e rendere più rapide le interazioni con il proprio pubblico.

Per inciso, notiamo che questo genere di interazioni tende ad azzerare le dimensioni etiche ed estetiche. Sono basate su sistemi di gratificazione premiale ispirati al condizionamento operante scoperto da B.F. Skinner negli anni Trenta del xx secolo. Anche se agli umani piace pensare di decidere in maniera autonoma delle loro interazioni tecniche, in realtà nei sistemi gamificati odierni tendono ad adeguarsi allo schema di godimento chimico pre-ordinato nel sistema stesso. Questo tipo di co-evoluzione tecnica seleziona tratti di comportamento abusante, al punto che l’umano si dimentica del proprio corpo, perso nel flusso del circuito dopaminergico.

Siamo tutti sensibili al condizionamento operante. Adolescenti, adulti e bambini, a prescindere dalle convinzioni politiche, dal credo religioso, dall’orientamento sessuale, dal genere, dal livello di educazione, ricchi o poveri che siamo, tutti rimaniamo presi nella rete. Tutti gli umani dotati di cervello, occhi e sistema nervoso sono soggetti all’addestramento cognitivo premiale. Tutti tendiamo a reagire con scatti d’ira quando ci viene sottratto lo schermo magico: logico e fisiologico, ci stanno togliendo la nostra fonte di piacere! Tutti tendiamo ad astrarci dal contesto ambientale, ad attivare disattenzione selettiva nei riguardi degli stimoli non visivi: per questo il bambino o l’adulto che sia, incantato dallo schermo, non sente quando viene chiamato, non reagisce quando viene toccato, ma si irrita quando gli viene spento il richiamo visivo. Provate anche solo a passare una mano davanti agli occhi di una persona intenta a interagire con il suo schermo: la reazione sarà come minimo di irritazione.

Non è casuale, né (quasi mai) consapevole. Accade perché le strutture gamificate aiutano a implementare funzioni nuove tramite esattamenti tecnici, sfruttando gli effetti di gratificazione endogena legati alla stimolazione del sistema dopaminergico. La selezione dispotica viene adeguata alla tirannide premiale, più efficace rispetto alla tirannide punitiva. Invece di retribuire lo sforzo del lavoratore con un salario più o meno misero, ma comunque strutturalmente inadeguato, si retribuisce lo sforzo del giocatore che partecipa all’ambiente gamificato, stimolando nel suo corpo la secrezione di neurotrasmettitori legati alla percezione di piacere.

Riporto un esempio di esattamento tecnico tossico che mi tocca da vicino. La funzione «scopri quante copie hai venduto del tuo libro» era di fatto inesistente prima di Amazon. Un autore doveva chiedere all’editore quante copie aveva venduto. L’editore tipicamente accampava difficoltà dovute al complesso sistema di distribuzione, promozione e vendita. Di fatto, l’autore doveva fidarsi dei rendiconti, disponibili solo molti mesi dopo la pubblicazione. In ogni caso si vedeva obbligato a profondere un notevole sforzo cognitivo e relazionale, organizzando interazioni complesse con diplomazia, per ottenere risultati comunque dubbi. Amazon invece ci permette di sapere immediatamente a che punto siamo nella classifica di vendita su Amazon, senza alcuno sforzo a parte leggere. Ho visto autori controllare freneticamente, ogni pochi minuti, la loro prestazione su Amazon, scorrendo avidamente i numeri che classificavano i loro libri. Ho visto autori, altrimenti composti, succubi di una ridicola, patetica ricerca di conferma da parte della piattaforma. Sono stato tentato e spesso ho ceduto al desiderio di sapere come stava andando il mio libro, o quello di qualcun altro.

Un sistema capace di gratificare automaticamente l’umano tramite l’interfaccia gamificata rimpiazza, mediante accurata selezione di caratteristiche tecniche, la fatica di organizzare in maniera autonoma (ma condivisa con altri) una conoscenza complessa. Il costo di un automatismo tossico eteronomo, frutto di delega cognitiva cieca, è il suo carattere effimero: per questo il controllo viene eseguito ancora e ancora, per reiterare quella sensazione di piacere a prescindere dall’informazione acquisita. La soddisfazione della richiesta iniziale non è prevista perché lo scopo del gioco è protrarsi all’infinito, in una ripetizione senza fine di gesti automatici.

Questo effetto gratificante tramite la funzione «classifica» di Amazon risponde a una logica precisa, evidente nei numeri presentati, che ovviamente non sono neutri: ci viene fornito il posizionamento del testo relativo alle vendite di altri libri, eventualmente suddivisi per categorie, e non il numero di copie vendute (a meno di avere accesso a funzionalità avanzate per vendere sulla piattaforma, ma in ogni caso parliamo solo delle copie vendute tramite quel canale). La funzione creata dagli organi di Amazon è gamificata, cioè risponde a uno schema di gioco competitivo inserito in un sistema che non si presenta esplicitamente come un gioco: è una classifica, prevede strutturalmente la competizione, i premi e così via.

Si potrebbero portare molti altri esempi, ma il ragionamento di fondo è delineato. L’informatica commerciale di massa genera gigantesche catene di esattamenti tossici, cui gli umani tendono ad adattarsi supinamente per comodità ma soprattutto perché ne ricavano piacere chimico endogeno nel corso di ogni singola interazione.

In questo modo, funzioni prima inesistenti diventano vitali non appena vengono resi disponibili i mezzi tecnici per soddisfarle. Diventa vitale sapere dove stanno i nostri amici, partner, familiari; cosa stanno facendo e con chi, in ogni momento, pena l’instaurarsi di un’insopportabile irrequietezza che facilmente sconfina nell’ansia e nell’angoscia.

Il sistema delle notifiche, in perenne evoluzione, è il corollario dell’addestramento cognitivo, perché favorisce la ripetizione procedurale, la reiterazione e interiorizzazione di azioni semplici organizzate in catene comportamentali complesse. Le notifiche servono a mantenere un certo livello di attenzione: compito non banale, perché un eccesso di notifiche provoca sovraccarico e frustrazione, mentre una carenza lascia spazio ad altri stimoli pronti ad attirare l’attenzione umana, vorace di stimoli capaci di eccitare il circuito dopaminergico.

Infatti, al fine di calibrare l’attenzione richiesta nell’interazione bisogna anche tener conto dell’investimento cognitivo per immaginare ciò che potrebbe accadere nell’interazione, come abbiamo visto con le notifiche di Whatsapp che consentono di sapere se l’altro ha visionato il nostro messaggio. Questo determina la messa in opera di sistemi di controllo reciproco anche molto sofisticati a livello di relazione fra umani.

Per svelare i meccanismi di asservimento sottostanti ai sistemi tecnocratici non è necessaria alcuna conoscenza dall’interno del sistema stesso, ovvero non c’è bisogno del contributo di qualche ex-sviluppatore, ex-collaboratore o ex-manager pentito. Come nella paleontologia classica, le forme degli organismi contengono in sé la storia della loro co-evoluzione con l’ambiente circostante, così nello studio delle interazioni tecnocratiche è possibile rinvenire le tracce di esattamenti e adattamenti orientati al dominio nella forma, funzionamento e caratteri degli organismi umani coinvolti, e parallelamente nella forma, funzionamento e caratteri degli esseri tecnici implicati. In particolare nei momenti di crisi relazionale, che spesso coincidono con i guasti, è possibile osservare l’articolazione dei flussi di potere tecnici ed eventualmente intervenire per ri-orientare l’evoluzione.

Sistemi di delega strutturale

Non è possibile effettuare deleghe temporanee, consapevoli, libere e revocabili quando ci si trova immersi in sistemi di esattamento orientati al dominio e strutturati a livello globale. Il problema non sta nell’esattamento di per sé, che, come abbiamo visto, è una delle modalità con cui l’evoluzione si realizza nella storia concreta degli esseri viventi (e non viventi). Il problema sta invece nelle modalità organizzative degli esattamenti tecnici industriali, che sono intrinsecamente gerarchiche e votate all’estensione del dominio. Come possiamo affidare le nostre relazioni a sistemi di cui non sappiamo praticamente nulla, sui quali non esercitiamo alcun potere reale? Non abbiamo contribuito alla produzione delle norme che regolano le interazioni tecniche, e non abbiamo alcun potere. Ma il potere è proprio quello che ci serve per cambiare le cose.

Abbiamo bisogno di recuperare spazio di manovra, agio, spensieratezza nell’avere a che fare con i sistemi tecnici, senza doversi costantemente preoccupare che la nostra riservatezza venga violata, che malintenzionati possano spiare, monitorare e carpire ogni nostro movimento, che le piattaforme del dominio stiano manipolando il nostro comportamento a scopo di lucro. Ma tutto questo è impossibile fino a quando rimarremo intrappolati in sistemi industriali che prevedono una delega strutturale continuamente reiterata in cambio di ricompense dopaminiche. Fino a quando avrà la meglio la comodità della situazione di comando in cui apparentemente ci troviamo, quando invece siamo ingranaggi degli esattamenti tecnici intenti a schiacciare bottoni che non abbiamo progettato e che scatenano meccanismi sociotecnici di cui non ci prendiamo cura. Fino a quando sceglieremo, acquiescenti, la comodità della situazione di obbedienza quotidiana, obbedienza all’impulso di consultare il nostro cellulare, obbedienza alla coazione di ripetere ancora e ancora gesti studiati per provocare un piacere tanto effimero quanto tossico.

In che modo e per quale ragione gli esattamenti tecnici calati dall’alto, come quelli delle piattaforme commerciali di massa, hanno così facile presa sugli esseri umani? La ragione principale, se osserviamo le interazioni concrete, è che ci concentriamo sul contenuto e non badiamo alla procedura, alla forma, al metodo dell’interazione con l’essere tecnico.

Nelle formule di delega ricorrono spesso espressioni come: «Ho altro da fare, non posso occuparmi (anche) di questo, del meccanismo, di come funziona; mi serve che funzioni e basta!».

Con circe mi occupo fra l’altro di pedagogia hacker, cioè di diffondere l’attitudine hacker in attività educative e (auto)formative; un approccio curioso nei confronti degli esseri tecnici grazie al quale ci osserviamo interagire e cerchiamo di individuare le nostre vulnerabilità, messe in evidenza dagli esseri tecnici stessi. Per imparare poi a prendercene cura, insieme, insegnandoci reciprocamente come fare, senza deleghe strutturali e irrevocabili, senza trascurare i dettagli in cui si svela spesso la sostanza della delega tecnocratica.

Quando gli insegnanti si rivolgono a noi, sconsolati dalla Didattica a Distanza, afflitti dalle storture dei sistemi tecnici imposti da istituzioni miopi o francamente corrotte, affaticati dalla necessità di adattare le proprie lezioni a sedicenti «innovazioni» tecniche… spesso ci chiedono di far funzionare quello che non va, di metterli in condizioni di fare il loro lavoro. Questa pur comprensibile esigenza purtroppo quasi sempre coincide con una richiesta di occuparci del sistema tecnico attorno a loro. Come se fosse slegato, indipendente da quello che insegnano.

Così facendo scompare l’essere tecnico, ridotto a oggetto, anzi a ingranaggio invisibile di un sistema che «funziona» per consentire ai contenuti, alle intenzioni, ai desideri degli umani di fluire liberamente, senza attriti, senza frizioni. Al contrario, l’elemento tecnico dev’essere quanto più presente possibile, comprensibile nei suoi comportamenti, visibile con le sue idiosincrasie che si intersecano con le nostre idiosincrasie umane, evidente nei momenti di attrito e frizione con l’umano.

La prima cosa allora è insegnare (insegnarci reciprocamente) a disimparare quello che diamo per scontato, e cioè che la tecnica sia un mero supporto neutro per i nostri contenuti, per la disciplina che trasmetteremo agli allievi (ma anche ai figli, ai dipendenti, agli altri in genere). La seconda è convincere (convincerci reciprocamente) che è possibile ristrutturare le relazioni tecniche in senso conviviale, proprio come in un banchetto in cui ognuno contribuisce alla comune riuscita.

La domanda «condizionamento reciproco o mutuo appoggio» cui avremmo dovuto rispondere in questo capitolo è rimasta sostanzialmente intatta, almeno dal punto di vista delle proposte. Abbiamo però compreso a grandi linee come funziona la delega tecnocratica e perché, approfondendo il baratro dell’alienazione tecnica. Rimane da capire come evitarla.

La prima via da esplorare è quella della riduzione di scala, che Ivan Illich proponeva già nel suo La convivialità, divulgata spesso con l’espressione «piccolo è bello». Vedremo che senz’altro la grande scala tende a strutturarsi in maniera gerarchica, ma in realtà la piccola scala non è necessariamente un vantaggio; dovremo quindi capire come e se è possibile adeguarla al mondo delle reti digitali globali.

Uno dei miti da smontare è quello primitivista del «si stava meglio prima». Il lavoro e la fatica possono essere condivise con gli esseri tecnici, in rapporti di libera collaborazione; ma non esiste un’epoca mitica in cui gli umani vivevano nel giardino dell’Eden. La storia umana non è necessariamente progressiva né regressiva, è semplicemente la storia delle loro relazioni di potere con gli esseri con cui convivono: protozoi, cromisti, funghi, piante, animali, batteri, archeobatteri. Ed esseri tecnici. Relazioni quasi sempre d’oppressione, ma solo per scelta e comodità vigliacca, non per necessità intrinseca nella storia. Il futuro non è scritto da nessuna parte.

Abbiamo sommariamente illustrato perché l’idea che è «meglio stare all’aria aperta», o che i dispositivi digitali «rendono stupidi», è conservatrice quando non reazionaria. In poche parole, il condizionamento operante funziona sui piccioni, sui ratti e anche sugli esseri umani, come hanno dimostrato gli esperimenti di B.F. Skinner fin dagli anni Trenta del xx secolo. Questo significa che la soddisfazione derivante dal piacere tossico dei sistemi gamificati è più intensa e coinvolgente di una passeggiata in un parco. È il caso delle piattaforme digitali di massa, in cui siamo impegnati in schemi di gioco senza renderci nemmeno conto che ci troviamo all’interno di giochi competitivi. Dare degli stupidi agli umani che se la godono, impegnati ad autosomministrarsi scariche di neurotrasmettitori, significa ignorare i meccanismi basilari delle interazioni effettive e derubricarle a sciocchezze.

Ma questo non significa che siamo condannati allo status quo. Si possono progettare e realizzare macchine aperte, di cui si vede e capisce il funzionamento, e non opache e incomprensibili. Macchine che possono aiutarci a realizzare quello che ci piace, ammesso che si sia capaci di esprimerlo in maniera comprensibile e si sappia applicarlo in esperienze e apprendimenti significativi. Macchine non totalmente automatizzate in maniera predeterminata, ma con margini di libertà, dal comportamento indeterminato. Possiamo riusare e riutilizzare alcune delle macchine esistenti, sottraendole alle strutture di dominio in cui sono immerse insieme a noi. Questo è possibile se siamo innanzitutto in grado di non collaborare con i sistemi gerarchici organizzati, di disertare la tecnica dominante, di dire «preferirei di no», con gentilezza ma anche con fermezza.

Ma soprattutto dobbiamo escogitare metodi di collaborazione conviviale, concreti e semplici da mettere in atto. Per farlo dobbiamo imparare a selezionare le caratteristiche adeguate a sviluppare convivialità sia negli esseri umani, sia negli esseri tecnici.

Nota al capitolo

1. «Scienza e scientismo», in Michail Bakunin La libertà degli uguali, elèuthera, Milano, 2017, p. 135.