capitolo primo

Esperti

Gli esperti sono la manodopera essenziale per strutturare i sistemi tecnocratici e, quindi, anche per dissolverli. L’emergenza della gerarchia tecnica delineata attraverso storie di quotidiana tecnocrazia, dagli elettrodomestici agli elettronici: la lavatrice di Giovanna, l’iPhone di Luca. Esperti delle fogne: reti di esseri umani ed esseri tecnici svelano le relazioni di potere. Ingredienti conviviali: curiosità, condivisione, traduzione.

I «miei» strumenti? Possesso e tecnocrazia

Ci sono tanti modi per raccontare il rapporto fra gli esseri umani e gli esseri tecnici. Di solito, gli aggettivi possessivi fanno la parte del leone: si discorre di come gli umani usino bene o male i propri strumenti, gli oggetti e apparecchi che sono di loro proprietà. Le mie macchine, le macchine che lavorano per me, le macchine che non funzionano a dovere e non mi servono.

Cerchiamo invece di cambiare radicalmente prospettiva. Dobbiamo cercare di svincolarci dal nostro punto di vista. Solo così potremo vedere più chiaramente come si manifesta il potere, in che modo fluisce e come tende a strutturare relazioni basate sulla coppia comando/obbedienza, dominio/sottomissione. E imparare ad agire il potere senza esserne agiti, a diffonderlo per ampliare i margini di reciproca libertà invece di accumularlo fino a rimanerne schiacciati.

C’era una volta una lavatrice. Se la cavava bene, con i suoi diversi programmi svolgeva un ottimo lavoro, nessuno se ne era mai lamentato. Ma un brutto giorno qualcosa andò storto. Giovanna, la sua padrona, trovò il bagno allagato, e se la prese con lei, imprecando e pestandola sul cofano, chiamandola stupida macchina. Che fare? Giovanna era abituata a rimboccarsi le maniche. Dopo averla spostata a fatica, scoprì carponi che il tubo di scarico era danneggiato. Urgeva sostituzione.

Il grande magazzino di fai-da-te sciorinava un’intera corsia dedicata all’idraulica. Di tubi ce n’erano parecchi. Ne prese uno, sembrava identico a quello della sua lavatrice, ma alla prova dei fatti la guarnizione non teneva, o forse era un problema della giuntura. Tubo alla mano, tornò al fai-da-te: un primo commesso gentile cui si era rivolta le chiese il modello della lavatrice, ma siccome lei non ne era sicura, la indirizzò a un secondo commesso, l’esperto di idraulica. Questo prese a pontificare sul fatto che è importante badare ai dettagli per scegliere il ricambio giusto, sulla differenza abissale fra tubi con giunti da 3/8 rispetto al mezzo pollice, specificando che i filetti ottonati sono migliori di quelli di plastica, e naturalmente la canapa è meglio del teflon; di fronte all’indifferenza di Giovanna, che cominciava a scocciarsi di quella predica, borbottò un paio di osservazioni sulla nota incapacità strutturale delle donne nell’occuparsi di apparecchi tecnici. Maschilista oltre che noioso, pensò Giovanna, ma frenò la lingua. Le serviva che sistemasse il guasto.

Fortuna che il secondo tubo sembrava adatto. La sua lavatrice poteva tornare al lavoro! Almeno per il momento era scongiurato il rischio di lavarsi i panni a mano, o di dover ricorrere alla prima lavanderia automatica nelle vicinanze di casa.

In questa breve storia compaiono alcuni personaggi chiave della narrazione tecnocratica. In primo luogo, i comuni mortali, rappresentati da Giovanna. Sono umani caratterizzati da una dipendenza strutturale nei confronti degli strumenti tecnologici. Questi strumenti costituiscono il secondo anello della catena: sono rappresentati come servi, supporti utili o addirittura necessari allo svolgimento di determinate mansioni, ma anche come esseri capricciosi, volubili, soggetti a forze sconosciute. Maggiore è la loro complessità, maggiore è la tendenza a mostrarne gli aspetti incomprensibili, misteriosi, quasi magici. Infine, gli esperti: sono loro a essere in grado di interagire correttamente con gli esseri tecnici; sono capaci di incanalarne le forze oscure, incatenandole e dirigendole affinché si manifestino in comportamenti prevedibili e non pericolosi.

In questa narrazione le donne sono per natura incapaci di gestire le macchine, devono rivolgersi a chi sa, tipicamente uomini capaci di sottomettere le macchine ribelli. La loro resa di fronte al potere degli esperti, cui consegnano la macchina da aggiustare, da rimettere in riga, opera come una sorta di raddoppiamento che conferma la loro condizione di subalternità nel discorso tecnocratico. La caratterizzazione di genere è forse un po’ forzata, ma esplicita il portato di una cultura patriarcale che estende le proprie spire ben al di là delle relazioni fra i soli esseri umani, inquadrando in rapporti di dominazione gerarchica ogni essere, vivente o meno.

E quando il guasto accade a un uomo? Nella mia esperienza personale, anche se i passaggi sono leggermente diversi, la resa è altrettanto necessaria. A differenza della donna, che può dichiararsi fin da principio fragile, inesperta, persino incapace, e rimettersi nelle mani dell’esperto maschio, capace di guidarla e consigliarla… l’uomo deve soffrire. O almeno, deve dimostrare di aver sofferto, almeno un poco; di solito in senso figurato: deve dimostrare di aver speso tempo ed energie per cercare di comprendere il problema, di sviscerare l’arcano. Solo allora, potendo affermare di essersi sforzato, di aver fatto del proprio meglio per studiare e capire, insomma potendo mostrare le proprie piaghe, la sua istanza d’aiuto potrà essere presa in considerazione dall’augusto esperto.

Nel contesto patriarcale, la donna può al limite giocare il gioco della seduzione, l’uomo deve invece giocare il gioco della sfida competitiva, battersi, per poi dichiararsi vinto. Nel caso dell’informatica questo atteggiamento si manifesta nel suprematismo nerd, ma per ora ci basta sottolineare che il rapporto standard con oggetti apparentemente banali come gli elettrodomestici, se osservato da vicino, ci permette di svelare il meccanismo basilare della tecnocrazia.

Nella sua forma più semplice, è un triangolo perverso: basta un tubo di lavatrice guasto a scatenare la sottomissione volontaria di un umano che cerca aiuto presso un altro consimile che, in nome di una superiore conoscenza, ne esige l’obbedienza a determinate regole di corretto comportamento perché il guasto sia riparato e la macchina torni a funzionare correttamente. Esisterebbe quindi una norma che coinciderebbe con la normalità, cioè il funzionamento regolare, secondo le regole; il guasto si configura come infrazione dell’ordine del funzionamento; l’esperto è in grado di ripristinare l’ordine. In estrema sintesi, dall’ordine all’ordine, tramite l’obbedienza, il rispetto obbediente a determinate regole.

A questo livello disinnescare la tecnocrazia sembra piuttosto semplice. Basterebbe che l’esperto fosse più gentile e paziente. Basterebbe che, rivolgendosi all’esperto, fossimo in grado di indicare esattamente qual è il problema. Basterebbe che la macchina non si rompesse… Ma sappiamo che il sistema di produzione attualmente in auge favorisce l’obsolescenza programmata, per cui le merci, compresi gli utensili e le macchine di tutti i tipi sono costruite appositamente per rompersi e guastarsi in maniera irrimediabile non appena scade la garanzia.

Evidenziamo alcuni elementi da indagare ulteriormente: reazioni emotive e nomi (generici, specifici, propri).

Le emozioni umane in relazione agli esseri tecnici sono una spia fondamentale da tenere in considerazione per comprendere come si articola il gioco del potere. Nella storiella, la reazione umana al guasto è caratterizzata dall’ira e persino da un’accusa esplicita rivolta allo strumento. Il quale, da parte sua, è curiosamente anonimo, o meglio, non ha un nome proprio, ma solo un nome generico che gli deriva dalla sua funzione: poiché lava, viene denominato lavatrice. Informato del guasto, l’esperto chiede in primo luogo il nome specifico dell’elettrodomestico, cioè il cosiddetto modello, di solito espresso con una sigla alfanumerica che segue il nome della marca produttrice. Non ottenendo una risposta adeguata, passa la palla a un esperto di grado superiore, in una gerarchia esplicita di competenze che prefigura una sorta di rapporto privilegiato fra l’esperto di alto livello e lo strumento, una relazione intima incomprensibile ai non iniziati.

Gli elettrodomestici, privi di nome proprio, sono definiti domestici nel duplice senso di relativi all’ambito domestico, della casa, ma anche, e soprattutto, perché svolgono la funzione dei domestici umani, cioè sono personale di servizio non umano; sono servi meccanici. Invece della domestica lavandaia, abbiamo l’elettrodomestico lavatrice.

Elettrodomestici elettronici

Cosa succede quando invece di semplici (semplici?) elettrodomestici abbiamo a che fare con apparecchi elettronici, ad esempio un computer zeppo di tecnologia complessa? Operiamo un salto quantico e, dalla lavatrice, passiamo a considerare una fra le manifestazioni più eclatanti della follia tecnologica contemporanea, tecnofila e tecnocratica. Protagonista è un oggetto replicato in centinaia di milioni di copie e tuttavia oggetto del desiderio di masse adoranti in tutti i continenti: l’iPhone. Vogliamo verificare se le linee di tendenza tecnocratiche emerse con il guasto al tubo della lavatrice si trovano non solo rinforzate, ma persino estremizzate nel caso di «guasto». Questo ci consentirà di cominciare a formulare ipotesi sulle contromisure possibili, esplicitando reazioni appropriate in prospettiva di modalità conviviali.

Luca aveva aspettato l’arrivo di quel modello con mesi. Era a dir poco magnifico, levigato, luccicante, faceva venire voglia di… leccarlo. A conti fatti, restituendo il vecchio modello, continuava a pagare 39,99 euro al mese di rata, in poco più di due anni lo avrebbe ripagato. Oltre 1.000 euro, sì, ma ne valeva la pena: niente era paragonabile all’iPhone. Luca ne sapeva qualcosa: da ormai dieci anni era un fan sfegatato della casa di Cupertino, e in particolare dell’iPhone. Anzi, dopo il telefono aveva acquistato anche diversi tablet iPad, e naturalmente il macbook pro, l’unico laptop che era un piacere usare. Aggiornava regolarmente i dispositivi, se ne prendeva cura sul serio. E loro lo ricambiavano, rendendo agevole e persino divertente il suo lavoro.

Ma quel giorno non c’era verso: il suo iPhone era lento. Mortalmente lento. Non caricava, non reagiva, non rispondeva a dovere. Quando Giovanna gli fece notare che forse stava esagerando, e gli disse «prova con lo spegni e riaccendi», andò su tutte le furie. Era Apple, quello, non una schifezza Microsoft! Ma cosa ne capiva lei. Per lei erano tutti elettrodomestici! Dopo un’ora passata online a cercare su forum dedicati ad appassionati, si arrese all’evidenza: non era in grado di cavarsela da solo. Ci voleva un esperto.

L’Apple store era un edificio davvero straordinario. Vetri e superfici levigate ovunque trasmettevano una sensazione di trasparente eleganza. Il commesso, gentilissimo, accolse il dispositivo sofferente con delicatezza. Pose alcune domande precise a Luca, che rispose con dovizia di particolari. Aveva un backup?, s’informò il commesso. Certo, confermò Luca, sul cloud di Apple. Quale versione, indagò quello. Eh, l’ultima, credo, cioè… forse. App particolari installate? No, non aveva un elenco preciso. E il disaster recovery? No, Luca non ricordava di averne configurato uno. Il commesso si rabbuiò. Ci vuole un recovery specialist, diagnosticò. Aprì una segnalazione sul suo sistema. Dopo venti minuti buoni, dai piani superiori scese un uomo, in camice bianco. Sembrava un medico. Prese da parte Luca, gli spiegò che il suo iPhone era affetto da sovraccarico strutturale multiplo. Si poteva sistemare, ma dal momento che la riparazione avrebbe anche potuto comportare una sostituzione della batteria per consentire al dispositivo di affrontare il processo con maggior margine energetico, a suo parere era il caso di stipulare una polizza per abbassare i costi dell’operazione.

Luca firmò senza battere ciglio. Per 16,99 euro/mese in più aveva una polizza integrale con sostituzione immediata dell’apparecchio, remote hands on e check di routine ogni sei mesi. In pratica, esperti potevano entrare nel suo iPhone da remoto e sistemarlo in caso di problemi! Era prevista anche una formazione con video-tutorial per impratichirsi delle sottigliezze e delle novità più eccitanti.

Qualche ora più tardi tornò a casa sollevato. Per fortuna c’era chi prendeva sul serio l’assistenza, e sapeva consigliare l’opzione migliore in maniera professionale. Il suo iPhone era scattante e fluido come mai prima. Certo, probabilmente, come gli avevano spiegato, sarebbe stato presto necessario sostituire gli altri dispositivi, ormai obsoleti, per allineare tutta la rete casalinga. Anzi, Luca era quanto mai deciso a portare Apple anche in azienda, non era possibile che dovesse ogni volta scontrarsi con le disfunzionalità di quei rozzi pc dell’ufficio. La transizione avrebbe comportato un salto in avanti pazzesco in termini di produttività. C’era un programma business con finanziamenti rateizzati assolutamente imbattibile.

Scattò una foto con l’iPhone. Voleva aprirla dal macbook per lavorarla, ma l’accesso al cloud sembrava bloccato. Maledizione, la connessione era saltata! Chiamò l’assistenza clienti. C’era un guasto di zona, prevedevano di ripararlo entro 24h. Si infuriò con il centralino, che però rimase impassibile, anche perché era un’assistente virtuale e non era programmata per reagire agli improperi; ripeté un paio di volte «prema 2 per altre richieste, altrimenti, si prega di riagganciare». Riagganciare un corno, urlò Luca. Aveva un iPhone, mica una cornetta dell’anteguerra! Così era bloccato di nuovo, perché l’unico modo di trasferire una foto dal telefono al portatile era passare da Internet…

Per quanto riguarda le reazioni emotive, l’ira in questo caso si è indirizzata verso altri umani, ovvero Giovanna, rea di non comprendere l’eccezionalità dello strumento; il quale, da parte sua, ha ora un nome specifico, è della specie iPhone, ma non ha un nome proprio; o meglio, il suo nome proprio è definito dal possesso umano, «iPhone di Luca». Informato del guasto, l’esperto s’informa sulla correttezza della relazione fra Luca e iPhone, per assicurarsi che tutto sia avvenuto nella maniera prescritta. Fino a che non trova la falla, ovvero alcuni comportamenti che non rispettano minuziosamente la liturgia delle configurazioni. Passa la palla a un esperto di grado superiore, che si presenta come un vero e proprio guru, medico ma anche sacerdote, pastore capace di ricondurre sulla retta via lo strumento sofferente e l’umano penitente, che dovrà impegnarsi ulteriormente per migliorare la propria cura devozionale. Questa cura tende a estendersi, con un movimento di fidelizzazione, di vero e proprio proselitismo, a ogni ambito, trapassando dal personale al professionale.

Tubi e chip

In caso di guasto, i semplici tubi degli elettrodomestici e i complicati software che spostano bit nei chip elettronici provocano effetti tutto sommato paragonabili. A cominciare dall’ira degli umani, fino alla strutturazione di relazioni gerarchiche di sottomissione agli esperti di turno. Per fare ammenda, per riportare l’ordine.

Esperto deriva dal latino expertus, participio passato del verbo experiri, che significa: sperimentare, tentare, provare, mettere alla prova, fare esperienza; cercare di, sforzarsi; sapere, conoscere per esperienza, imparare a conoscere.

Purtroppo gli esperti, al di là delle loro sperimentazioni, tentativi, prove ed esperienze, sono spesso estremamente specializzati. Purtroppo, perché la loro specializzazione di solito li rende speciali nel senso deteriore del termine, cioè appartenenti a una specie privilegiata e dominante. È come se il rapporto privilegiato con gli esseri tecnici, derivato dallo sforzo che hanno compiuto per conoscerli, permettesse loro di ascendere e di diventare superiori agli altri. Quel cimento si configura come un accumulo di conoscenza relativa agli strumenti tecnici che corrisponde a potere di fare, con gli strumenti, e di far fare, agli strumenti e agli altri umani che a loro si rivolgono come intermediari tecnici. L’accumulo di questo potere si esprime nella loro posizione e attitudine dominante: gli esperti specializzati sono diventati tecnocrati.

I tecnocrati si comportano da padroni. Si sentono padroni degli strumenti. Del resto, i comuni mortali non fanno che rafforzare le loro convinzioni. Lo sforzo necessario per acquisire la padronanza dello strumento è, in genere, direttamente proporzionale alla specializzazione; maggiore la specializzazione, maggiore l’esclusività della padronanza. Questa è la ragione per cui l’esperto di iPhone si colloca a un livello superiore rispetto all’esperto di lavatrici, in una sorta di piramide gerarchica. La padronanza dei complicati software vale di più della padronanza dei tubi, non tanto perché il software e i chip sono più costosi dei tubi e delle guarnizioni, ma perché i primi implicano molti più strati e livelli. Immergersi nella profondità dei diversi livelli corrisponde a un’elevazione, a un cambiamento di status.

Ma le cose non devono per forza andare così, l’emergere della tecnocrazia non è il destino ineluttabile di ogni relazione fra esseri umani ed esseri tecnici. Software, guarnizioni, chip, tubi e via dicendo si possono conoscere senza diventare specialisti, anche se gli ostacoli sono molti, e capita di sporcarsi le mani. Ci vuole pazienza, curiosità, voglia di esplorare e di imparare da quel che sanno gli altri. D’altra parte, quando le tecnologie si fanno più complesse, utensili e competenze tendono a cristallizzare ruoli; il potere di gestire lo strumento, accumulato, tende a cementare identità fisse all’interno di precise gerarchie. La tecnocrazia si articola e si fa ossatura delle relazioni fra le persone, tanto palese quanto ambigua.

La prossima storia è accaduta per davvero, all’inizio del terzo millennio, nella città di Milano.

«Allora, per i rendiconti della distribuzione, le cose si sono complicate. In pratica ci danno un pdf, e basta»

«Quindi noi dovremmo riuscire a estrarre i dati delle vendite, dei resi, degli omaggi e così via e importarli in un database a partire da un pdf? Assurdo. Di certo loro avranno dei fogli di calcolo, o dei report da database; ma invece di darci i dati originali, esportano in pdf! Lo fanno apposta per complicarci la vita?».

«Sì, sicuramente. Così è più difficile controllare che i numeri tornino».

Sul tavolo quadrato si sciorinavano fogli zeppi di numeri. Quelli importanti venivano cerchiati in rosso, evidenziati in verde e viola e giallo, che risaltavano sul bianco della carta, e della formica del tavolo. L’esperto informatico era stato convocato in redazione per automatizzare l’estrazione dei dati mettendo a punto un database, a partire da quel famoso pdf. In casa editrice si faceva quasi tutto a mano, e c’era chi ci stava perdendo la vista, oltre che il senno, a controllare che i numeri nelle tabelle corrispondessero a quelli delle bolle di accompagnamento e poi delle fatture.

Io facevo il traduttore, fra l’editorialese e l’informatichese, cercando di formulare spiegazioni comprensibili senza entrare troppo nei dettagli, che d’altra parte non erano il mio forte. Non conoscevo bene nessuna delle due lingue, non ero lingua madre editoria né lingua madre informatica; ma speravo, proprio per questo, di avere sufficiente cognizione di entrambe per rendere tutti un po’ più consapevoli della situazione. Invece di spaccare il capello in quattro, cercavo di procedere a furia di metafore e allegorie. Grossolane ma efficaci.

Dal punto di vista informatico c’era da decidere quale fosse la chiave primaria di ogni tabella del database; poi anche le chiavi univoche, che potevano essere più d’una. Questo passaggio era preliminare, per poter ragionare su come collegare fra loro le tabelle (da cui il nome di database relazionale: relazioni fra chiavi di tabelle), e poter poi effettuare query (domande) ed estrarre così i dati voluti. Descrizione grossolana, ma corretta. Eppure man mano che la discussione proseguiva mi rendevo conto che stavamo imboccando un vicolo cieco.

Nella mia foga di tradurre, a beneficio della redazione, avevo sostenuto che potevamo considerare la chiave primaria come il nome proprio di ogni riga di ciascuna tabella; perciò qualcuno aveva proposto di usare il titolo dei libri. Ma così poteva esserci un libro con due edizioni, stesso titolo ma prezzi differenti, e quindi non funzionava perché la chiave primaria doveva avere valori univoci; ma allora perché chiamarla primaria, se doveva avere valori univoci, obiettava qualcuno, da buon redattore attaccato al significato delle parole?

Nell’altra direzione, verso l’informatica, era necessario chiarire cosa si intendesse in editoria per «sospesi da conteggiare»; per non parlare delle «tredicesime». Per chiarirlo mi ero lanciato in un parallelo con le decime, la tassa di un decimo sul raccolto, o qualsiasi altro reddito: infatti ogni dieci copie di uno stesso titolo ordinate da una libreria, il distributore pretendeva una copia «omaggio», con cui premiare il libraio per il suo ordinativo. Il costo se lo doveva accollare l’editore, in pratica era una copia che il libraio vendeva, il distributore distribuiva e l’editore era costretto a regalare. Ma allora perché chiamarle tredicesime, si obiettava dal lato informatico… chiamarle decime sarebbe stato meglio!

Insomma, per il momento la traduzione era piuttosto zoppicante.

Ma quel giorno, in quel sottoscala milanese, c’erano problemi ben più urgenti dei rendiconti dei libri. C’erano dozzine di scatoloni di libri a rischio inondazione. All’epoca «A rivista anarchica» lasciava in usufrutto quei locali sotto il livello della strada al Centro Studi Libertari / Archivio Pinelli, con oltre seimila volumi negli armadi vetrati, e centinaia di riviste archiviate; e alla casa editrice elèuthera, che lì stipava il suo magazzino, qualche decina di migliaia di volumi. In quegli stessi locali, appena coperti da tavole di legno, correvano i tubi di scarico dei quattro piani superiori del palazzo, al momento evidentemente e olfattivamente intasati. Il flusso delle acque nere era ostruito, probabilmente da qualche oggetto gettato in uno scarico. Se una qualche curva avesse ceduto…

Citofono: erano arrivati gli esperti degli spurghi! Il giovane e il vecchio scesero le scale e si disposero all’intervento.

Abbandonato il tavolo delle riunioni, ci tuffammo tutti nella sfida delle fogne. Dai quattro lati del tavolo, ognuno aveva le sue buone ragioni per interessarsi ai nuovi arrivati. Il magazzino innanzitutto era una bella preoccupazione: la carta dei libri non va d’accordo con l’acqua, tanto meno con le acque nere. Temute anche dai volumi e dalle riviste dell’archivio, per quanto protette dai vetri, invece che dal cartone degli scatoloni. E ancor più temute dai computer, fra cui Servera, il server su cui giravano i servizi web, fileserver e via dicendo.

Insomma, oltre alla puzza, anche la preoccupazione appesantiva l’aria già pesante dei sotterranei. Nei giorni precedenti erano state rimosse le assi per verificare la situazione. Alcuni tratti dei tubi degli scarichi erano in plastica, ma la maggior parte parevano in cemento, forse addirittura in alcuni tratti in eternit; in diversi punti si vedevano delle crepe, rappezzate alla bell’e meglio.

I vari dettagli vennero riferiti agli esperti. «Quanto ci metterete a risolvere?», chiese qualcuno, come se valutasse la faccenda un impiccio tutto sommato di routine, ma tradendo nel tono l’ansia malcelata di chi si rivolge a un oracolo. «Abbiamo fatto spazio e spostato il più possibile, non c’è pericolo che si allaghi tutto, vero?», aggiunse qualcun altro. «Ci occupiamo di spurghi, faremo il possibile, ma non miracoli. Dipende da come sono messe le tubature», replicò serafico quello più giovane dei due.

Aiutammo ad aprire la finestrella sopra gli scaffali del magazzino ingombri di scatoloni di libri e a far entrare dal piano stradale, attraverso le inferriate, un tubo flessibile, nero, di plastica, con un ugello di metallo.

«Come funziona? Spinge o risucchia? A che pressione c’è rischio di rottura?», chiese l’ingegner Sabbadini, esperto di database, all’operatore decisamente più stagionato che maneggiava il tubo flessibile. Quello bofonchiò che lui manovrava solo, non si occupava della parte decisionale.

«Sì, ma tenendolo in mano lo sentirà, se risucchia o spinge… e che pressione raggiunge? In bar, intendo» insisté l’ingegnere.

«Bar? Mah…», replicò il tubista, confuso, o forse scocciato da tutte quelle domande.

«Per misurare la pressione, i bar. Mmm, che tipo di valvola è?», l’ingegnere indicava il punto d’inserzione fra il tubo flessibile e quello che pareva un manometro.

«Valvola? Guarda, io infilo solo e dico: vai!, chiedi al capo sul camion!», tagliò corto l’operatore.

Forte del mio ruolo di traduttore, salii a domandare a quello che era stato indicato come decisore. «Io schiaccio quel bottone quando sento: vai!», rispose lo schiacciabottoni. Neanche il tempo di dirlo, e: «Vai!», urlò il compare dal sottoscala. E quello schiacciò il bottone. Sarà stato per le dita incrociate a limite rottura, o forse perché gli esperti sapevano il fatto loro, o semplicemente perché la congiuntura della rete fognaria locale era favorevole, sta di fatto che, nonostante i rumori inquietanti che ci tennero con il fiato sospeso, con secchi, stracci e spazzoloni a portata di mano, a un tonfo sordo seguì una specie di fischio, e un ruscellare di acqua che sembrava aver ritrovato la sua strada consueta.

Sospiri di sollievo. «Ora comunque dobbiamo ispezionare», sentenziò il giovane boss. Scese di nuovo, con in mano mazzetta e scalpello, che rifilò all’altro. E si misero a confabulare fitto.

Ci scambiammo un’occhiata delusa, con l’ingegnere. Funzionare aveva funzionato, ma come? Non era chiaro. Drizzammo le orecchie per cercare di capire. Il vecchio non era d’accordo sull’uso degli arnesi, ma il giovane non sentiva ragione. «Spacca qui», ordinò, segnando un punto sotto il lavello. «Va bene, va bene», acconsentì il vecchio, di malavoglia. E si mise a spaccare in un altro punto dello scarico, più in alto, raccogliendo le macerie in un secchiello. Rovistò nel budello di cemento, recuperò un pezzo di plastica sporca, bestemmiò sottovoce e in quattro e quattr’otto ci mise una pezza di una specie di plastica. Fece scorrere l’acqua dal rubinetto: da sotto non usciva una goccia.

«Ecco, tutto a posto», proclamò quello che non si stava sporcando le mani, ma nel frattempo compilava scartoffie sul perché e percome della scampata inondazione di merda varia. «Però la curva è ancora fessurata», ricordò qualcuno più attento degli altri. «Superficiale. Nessun problema», dichiarò il boss. «Arrivederci», concluse. «’giorno», fece il manovale. E se ne andarono.

Senz’altro erano esperti, ora tutto funzionava, cioè gli esseri tecnici erano rientrati nei ranghi; il guasto era stato riparato, ovvero, come riportava l’incartamento compilato dal capoccia, fitto di frasi inutilmente ampollose:

[…] per i motivi indicati in premessa, l’esecuzione degli interventi di manutenzione straordinaria delle tubazioni, con scasso e rappezzo, a seguito di spurgo con smaltimento liquame, pulizia e lavaggio di tubazioni delle acque nere, da cui all’indirizzo […] è stata effettuata in data […] con finitura a regola d’arte […], blablabla.

Seguivano visti, firme e segni di spunta su una specie di questionario di un paio di pagine.

L’ostacolo alla comprensione non sembrava essere stato solo l’eccesso di specializzazione. Non è che gli spurganti fossero incapaci di spiegare quel che facevano: è che non era rilevante, o meglio, non lo ritenevano importante, ma soprattutto non ritenevano che dovesse o potesse interessarci.

D’altra parte anche noi tendevamo a trattare con sufficienza le richieste di spiegazione (peraltro rare) sul funzionamento dei database; erano espresse in maniera strana, non adeguata, si sarebbe dovuto tenere tutto un lungo e noioso discorso; insomma, faticavamo a farci capire riguardo agli aspetti che ritenevamo importanti.

Curiosità, condivisione, traduzione

Quest’ultima storia fognaria introduce alcuni ulteriori elementi per identificare le tecnologie conviviali, ovvero la curiosità, la pratica della condivisione e la traduzione.

L’eccesso di specializzazione può essere evitato solo tramite uno sforzo continuo per condividere, diffondere, spiegare ciò che si è imparato nelle proprie sperimentazioni e ricerche. La curiosità è necessaria per non adagiarsi sulle conoscenze acquisite, per non fossilizzarsi su ciò che è ormai noto e ridursi a ripeterlo in maniera meccanica.

Da esperti, è faticoso condividere ciò che si conosce. Non è facile sfuggire alla frustrazione, sia perché chi esperto non è può irritarci con domande che ci sembrano banali, sia perché ci sentiamo poco gratificati per lo sforzo che compiamo. Quando veniamo riconosciuti come esperti è spesso più facile rimanere nella parte che ci è stata assegnata, e dire: scansati, ci penso io. Sottinteso: senza il mio intervento esperto, tu non puoi cavartela, non hai potere.

Gli esperti degli scarichi sono specializzati al punto da non avere alcuna voglia di comunicare quel che sanno; si limitano a ripetere uno schema appreso, come fossero addestrati. Sono padroni di quella specifica tecnica e, in questo senso, sono tecnocrati, ma con scarsissima consapevolezza del proprio potere, che non è più funzione sociale neutrale: è già diventato obbedienza formale a una gerarchia, consapevolezza del proprio ruolo e delle competenze a esso deputate.

Anche se conoscono i dettagli delle operazioni che effettuano, anche se conoscono i nomi e le peculiarità degli strumenti che maneggiano, sono quanto meno riottosi a spiegarne il funzionamento, come se non fosse rilevante. L’ira e le reazioni emotive scomposte di fronte ai guasti precedenti lasciano il posto a una routinaria prassi d’intervento, nella quale gli esperti ultra-specializzati si comportano quasi come ingranaggi, difficile dire se ignari o meno, di un meccanismo più vasto. Ognuno fa la sua parte, come in un copione ben rodato: il giovane comanda, e forse finge di non notare che la sua autorità viene messa in discussione nei fatti, visto che il vecchio esegue, ma non quello che gli viene ordinato. Quasi a mo’ di risarcimento per la disobbedienza fattuale del sottoposto, il capo di fatto si prende il merito del lavoro altrui, frutto di una decisione che lui non aveva avallato. Tecnica e arnesi sono come gli orpelli che nascondono le relazioni di potere in gioco, o le mettono in evidenza per chi sa osservare i dettagli.

E arriviamo alla traduzione, che è l’aspetto forse più carico di possibilità. La traduzione risulta impossibile se non c’è una volontà di incontrarsi «nel mezzo», di uscire da zona di comfort della propria mansione ripetitiva, e dei propri rapporti gerarchici noti, giocati in sordina, come sottotrama della rappresentazione principale; se non c’è lo sforzo continuo per cercare di spiegare ciò che accade, come e perché si decide e si agisce, con inevitabili semplificazioni e approssimazioni. Tradurre implica un movimento di de-solidarizzazione da sé, ovvero bisogna essere disposti a guardarsi dal di fuori e dare un nome sufficientemente preciso non solo ad azioni e arnesi che riteniamo ovvi e banali, ma anche al nostro modo di agire e re-agire rispetto agli altri esseri umani coinvolti.

Riprendiamo lo schema del guasto: di fronte all’essere tecnico che «non funziona», l’essere umano tende a cercare qualcuno che ne ha fatto esperienza. «Non ci capisco nulla», afferma, sminuendo la propria competenza per convincere quello che ha identificato come esperto a occuparsi del caso; se quest’ultimo esita a farsene carico, passa all’attacco: «A te non costa nulla», sostiene. Il che è relativamente vero, nel senso che l’esperto in genere farà meno fatica del non esperto; questo schema evidenzia quindi la fatica della cura nella relazione fra esseri umani ed esseri tecnici.

In ogni caso, l’emergere della tecnocrazia si configura come delega di questa cura, e parallelamente come formulazione di una lingua esoterica riservata agli iniziati in grado di comprenderla; di una correlata gerarchia, al tempo stesso esplicita, con capi e sottoposti, e ambigua, ad esempio con comandi rispettati nella forma ma non nella sostanza.

A volte a questa delega corrisponde una ricompensa economica, come nel caso degli esperti di tubi e software che abbiamo visto; ma non è detto che debba intervenire il denaro. La distribuzione di ruoli esperti avviene comunemente anche fra amici, parenti e affini; tende a ripetersi e a strutturare le relazioni fra le persone, con geometrie variabili a seconda degli esseri tecnici coinvolti; contribuisce a definirne le identità sulla base di competenze tecniche, vere o presunte. Se la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita, cantava Fabrizio De André… le capacità possono trasformarsi in una condanna alla ripetizione, alla fissità identitaria.

E, d’altra parte, possono anche non essere riconosciute esplicitamente, come accade al vecchio manovale: lui sa dove spaccare, detiene una conoscenza, ma evita di mettere in discussione la gerarchia al punto di sovvertirla, pur prendendosi il rischio di procedere come ritiene giusto. Alla fine tutto torna nei ranghi, con il corollario burocratico: la competenza relativa alle carte conferisce un ruolo gerarchicamente sovraordinato rispetto al lavoro manuale; la burocrazia si configura come garante della stabilità gerarchica, andandosi a saldare alla tecnocrazia nel tandem tecno-burocratico.

Come fare per mettere a punto tecnologie e tecniche in grado di evitare l’instaurarsi di gerarchie fisse, tecnoburocratiche? Come alleviare la fatica della traduzione, della spiegazione e della dissoluzione della tecnocrazia? Come rendere meno gravosa e anzi piacevole la condivisione delle proprie conoscenze? Come limitare la delega in maniera che non diventi strutturale ma rimanga temporanea e revocabile?

Saranno i temi del prossimo capitolo.