2022-11-22
INDICE DEL LIBRO:
p. 87
I cavi sottomarini permettono agli umani di connettersi a macchine su Internet attraversando le distese oceaniche
Proviamo.
Inserirò alcuni dettagli tecnici che risulteranno insufficienti per gli esperti, eppure forse eccessivi per tutti gli altri. Questo apparente paradosso ha una ragione molto semplice: maggiore è l’alienazione tecnica, più difficoltoso risulta colmare l’abisso che ci separa dai sistemi tecnici, che pure ci accompagnano quotidianamente. Spiegare è difficile perché si rimane sempre in bilico fra la noia del già noto e la semplificazione dell’ignoto che necessariamente dà per scontati passaggi complessi. Sono in ogni caso delle Übertragungen, cioè trasposizioni arbitrarie, che secondo Friedrich Nietzsche caratterizzano ogni conoscenza. Esperti o meno, ci vuole sempre un po’ di pazienza, e non si può rimanere ancorati alla propria situazione di comfort. È un esercizio che chiunque può compiere, perché tutti hanno qualcosa che possono spiegare agli altri, facendo appello all’immaginazione, formulando esempi, prendendosi del tempo insieme.
Tenere per sé quel che si sa è il primo passo per erigere una gerarchia di esperti, materia prima della tecnocrazia; viceversa, allenarsi a spiegare consente di gettare le basi per la creazione di saperi condivisi e spazi conviviali. Questa spiegazione, lunga eppure insufficiente, non è necessaria alla comprensione del ragionamento generale e può essere tranquillamente saltata; dimostra però quanto sia profonda la nostra alienazione tecnica e quante pieghe vi siano in ogni minimo aspetto delle nostre interazioni tecniche.
Torniamo alle onde. Vero, alcune onde radio possono attraversare gli oceani. Non tutte: solo le onde corte, perché sono in grado di superare la troposfera e «rimbalzare» sulla ionosfera, strati delle regioni alte dell’atmosfera terrestre, superando così la curvatura del pianeta. Questa riflessione delle onde radio comporta una perdita di potenza proporzionale alla distanza percorsa e funziona solo in alcune condizioni, perché la ionizzazione[^1] varia anche a seconda dell’alternanza di buio (notte) e luce (dì). Ciò significa che con le onde corte è possibile superare alcuni tratti di oceano, emettendo onde in certe direzioni, per esempio l’Atlantico settentrionale dall’Europa (verso ovest) come fece Marconi con il suo telegrafo senza fili, ma non altri, per esempio non l’Oceano Indiano a partire dall’Europa (verso est).
Oltre a questo, ci sono almeno altri due problemi relativi alla portata. Primo, la quantità di informazioni che è possibile immagazzinare nelle onde corte è modesta rispetto alle necessità della rete di Internet. Un segnale radio può trasportare una quantità di informazioni proporzionale alla sua frequenza quindi inversamente proporzionale alla sua lunghezza d’onda. Un’onda molto lunga trasmette meno informazioni di un’onda molto corta.
Una micro-onda, come ad esempio un’onda wi-fi con frequenza a 5GHz, si propaga più rapidamente e trasmette molte più informazioni di un’onda corta radio, perché ci sono più onde complete in una data unità di tempo. Le onde wifi sembrano perciò molto migliori rispetto ad altre onde radio più lunghe. Per trasmettere velocemente molte informazioni sembrano andare bene, meglio delle onde radio della banda VHF (Very High Frequency – da 30 MHz a 300 MHz, lunghezza delle onde da 10m a 1 m) o delle onde della banda UHF (Ultra High Frequency – da 300 MHz a 3 GHz, lunghezza delle onde da 1m a 1dm). Ma hanno anche delle controindicazioni, in particolare il wi-fi ha una portata di poche decine di metri e necessita di molti ripetitori, a terra. Questo perché le onde radio vengono attenuate dagli ostacoli, compresa l’aria atmosferica, i fenomeni meteorologici che si verificano nella troposfera, ma soprattutto le montagne, i muri, gli alberi; in maniera variabile a seconda dei materiali e della frequenza.
Maggiore è la frequenza, maggiore sarà la quantità di informazioni trasportabili, ma minore sarà la distanza che è possibile coprire senza ripetere il segnale. Per questo sono necessarie antenne per trasmettere e ricevere queste onde; più le antenne sono alte, maggiore è la loro elevazione sul livello del mare, minore l’attenuazione. In definitiva le onde radio, comprese le onde corte, non sono sufficientemente affidabili, funzionano in maniera diversa a seconda della posizione geografica e delle condizioni atmosferiche e, ultimo ma non meno importante, si propagano in maniera piuttosto lenta rispetto alla velocità di cui danno prova i dispositivi connessi a Internet.
Ma quasi nessuno sceglie di affidarsi alle onde radio. La maggior parte delle persone ha più fiducia nei satelliti. La ragione principale, a mio avviso, non ha nulla a che fare con gli strumenti tecnici in sé, con l’oggettività tecnica fatta di materia e rispondenza a determinate leggi chimico-fisiche, ma con la percezione immaginaria della Tecnica stessa. Nel XXI secolo, i satelliti profumano di futuro, mentre la radio manda un odore stantio, di vecchiume novecentesco, proprio come i cavi.
Vero, i satelliti sono in grado di ricevere e trasmettere informazioni da una parte all’altra del globo terrestre. I satelliti geostazionari si trovano ben oltre la ionosfera, che si estende fino a cinquecento chilometri circa dalla superficie terrestre. Orbitano tipicamente intorno a trentaseimila (36.000) chilometri di altezza e possono ricevere onde radio ad altissima frequenza, quindi ultra-micro-onde (30-3000 GHZ) molto più corte delle onde corte, capaci di «bucare» la ionosfera senza rimbalzare su di essa. Inoltre, poiché sono molto corte, possono essere in numero molto più elevato rispetto alle altre onde in una medesima unità di tempo e quindi trasportare molte più informazioni.
Paragoniamole alle onde radio «classiche» a modulazione di frequenza (FM). Queste ultime hanno una frequenza che va da 88 a 108 MHz, come sanno per esperienza tutte le persone che hanno cercato di sintonizzare un apparecchio ricevente rispetto a una trasmissione radiofonica. MHz sta per Megahertz, cioè milioni di cicli al secondo. Quindi una trasmissione sulla frequenza 92.8 MHZ significa che l’onda radio portante effettua 92.8 milioni di cicli al secondo. Numeri notevoli, ma risibili se paragonati al wi-fi le cui onde stanno fra i 2 e i 5 GHz (Gigahertz), ovvero miliardi di cicli al secondo. Le ultra-micro-onde arrivano fino a 300 GHz, cioè trecento miliardi di cicli al secondo!
Siccome sono molto corte risentono di qualsiasi ostacolo: basta un dito per fermarle, o un foglio di carta per deviarle in maniera notevole. Tanto più vengono bloccate dai muri degli edifici: non funzionano quindi in ambienti chiusi, ma solo all’aperto. Ma queste onde, «sparate» nello spazio dove non incontrano ostacoli, sono in grado di superare il problema della riflessione delle onde corte nelle zone buie. Infatti le parabole satellitari sono puntate verso il cielo, o, per essere più precisi, verso il satellite a cui sono «agganciate». Se il satellite non è in vista, se ci sono ostacoli di mezzo, non possono «agganciarlo».
Certamente si potrebbe offrire sul mercato Internet Satellitare, anzi, esiste già, però i costi sono estremamente elevati. Ci vuole un telefono satellitare, capace di connettersi ai satelliti direttamente. I satelliti a cui è possibile agganciarsi senza parabola, per cui è sufficiente un’antenna adatta sul dispositivo mobile satellitare, non sono però geostazionari, ma sono i satelliti in orbita bassa (LEO, Low Earth Orbit, a poche centinaia di chilometri dalla superficie terrestre). Ruotano molto più velocemente della Terra, quindi la loro copertura è minima (pochi minuti) e sono necessari molti satelliti che si ripetono il segnale prima di rimandarlo sulla Terra.
In ogni caso, dispositivi non satellitari come i normali smartphone necessitano di una parabola anche per comunicare con un satellite LEO. Devono perciò triangolare su un nodo adeguato, cioè una postazione ricevente e trasmittente a terra equipaggiata con antenne in grado di «sparare» il segnale radio nello spazio e riceverlo. Attualmente, i fornitori di Internet satellitare come Starlink consegnano ai clienti un apposito router da connettere a un parabola capace di collegarsi ai loro satelliti LEO.
Ma anche se fosse facile ed economico emettere e ricevere queste onde dallo spazio geostazionario, e non lo è affatto, in ogni caso non funzionerebbe bene. Anche se i satelliti avessero una capacità di riflessione di onde molto superiore a quella che hanno attualmente, che non è assolutamente sufficiente per inviare i miliardi di email che ogni giorno transitano per la rete di Internet, né tanto meno per consentire lo streaming audio-video, o aggiornare in continuazione i profili social, in ogni caso sarebbe una soluzione strutturalmente peggiore rispetto ai cavi sottomarini.
La ragione è semplicemente di economia geometrica. Infatti, per quanto fattibile, per arrivare a un satellite geostazionario, andata e ritorno, bisogna percorrere almeno settantaduemila chilometri (trentaseimila per andare, altrettanti per tornare), affidandosi sempre a onde radio, visto che non ci sono fili che ci collegano ai satelliti. Certo, le onde ultracorte nello spazio cosmico viaggiano molto veloci, rapide quanto la luce. Infatti anche le onde luminose sono oscillazioni del campo elettromagnetico, una proprietà dello spazio che influisce sul movimento delle particelle con carica elettrica. Perciò in linea di principio le onde radio nel vuoto viaggiano alla velocità della luce.
Lo spazio cosmico però non è vuoto; è quasi vuoto, nel senso che le onde radio viaggiano quasi alla velocità della luce al di fuori dell’atmosfera. Prima però devono però superare la stratosfera, dove l’aria e i fenomeni atmosferici tendono ad attenuarle. Ma soprattutto, in ogni caso, devono percorrere molta più strada rispetto al passaggio terrestre-oceanico. Infatti l’intera circonferenza della Terra è poco più di quarantamila chilometri, l’oceano Atlantico è meno di cinquemila nel punto più largo, e la distanza fra Milano e Singapore poco più di diecimila chilometri in linea d’aria, diciamo quindici o ventimila passando per lo stretto di Suez e facendo un po’ di tappe intermedie. Tanti, ma comunque molti meno via mare che via satellite. Il lag (ritardo comunicativo) è molto più elevato a causa della maggiore distanza che il segnale deve percorrere.
I cavi invece sono adatti. Il cavo è la soluzione più veloce e più economica, di gran lunga, e quella che può contare su oltre un secolo e mezzo di sperimentazione. I primi cavi transatlantici sono stati posati a metà del XIX secolo ed erano cavi dedicati al telegrafo; seguirono cavi telefonici, in doppino di rame; e infine i cavi attuali, in fibra ottica. Un cavo di fibra ottica contiene mazzi di fibra, cioè filamenti dello spessore di un capello, fatti di vetro flessibile, all’interno del quale passa la luce, che si propaga a trecentomila chilometri al secondo, meno l’impedenza del mezzo, che è minima nel caso della fibra ottica. Le onde luminose possono trasmettere enormi quantità di dati, perché la loro frequenza è molto, molto alta. La frequenza della luce visibile (lo spettro che gli umani vedono come colori) va da 430 trilioni di hertz, visto come rosso, a 750 trilioni di hertz, visto come viola. L’intera gamma di frequenze si estende oltre la parte visibile, da meno di 3 miliardi di hertz, come nelle onde radio, a più di 3 miliardi di miliardi di hertz (3 x 10 19 ), come nei raggi gamma. Inoltre, nei cavi a fibre ottiche, queste onde si propagano a velocità maggiori delle onde radio che si propagano attraverso l’atmosfera.
Perciò si usano cavi sottomarini. Non è banale posarli, sono necessarie navi posacavi e tecniche assai complesse per le riparazioni, ma si fa da un secolo e mezzo. Una volta a terra, si usano altri cavi interrati di fibra ottica; altre parti della rete Internet possono essere in Wi-Fi, cioè onde elettromagnetiche di frequenza più elevata rispetto alle onde radio corte.
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Proviamo ad analizzare la stirpe degli esseri tecnici che danno vita a un sistema tecnico estremamente diffuso, il sistema del denaro, evidenziando le relazioni di potere che si articolano nelle interazioni fra esseri umani ed esseri tecnici. Osserveremo gli strati di interazione reciproca con gli strumenti della pedagogia hacker, cioè facendo un po’ di auto-etnografia delle nostre più semplici e banali azioni quotidiane con la curiosità tipica dell’attitudine hacker. Nulla è scontato, anzi, più un’interazione appare ovvia, più una domanda sembra semplice, più è probabile che ci sia qualcosa sotto, una complessità nascosta che dev’essere rivelata per comprendere come si struttura il retaggio del dominio tecnocratico.
Consideriamo il denaro. Una delle funzioni esplicite della tecnologia denaro è facilitare la circolazione dei beni. Se provate a domandare alle persone attorno a voi, questa è la risposta più comune. Prendiamola per buona e facciamo un po’ di anatomia del potere tecnico del denaro, nel senso di serie di oggetti tecnici e tecnologie che compiono un certo lavoro al posto dell’essere umano. Come funziona questa facilitazione operata dal denaro, cioè come si mette in opera il suo potere tecnico? Studiamo una situazione concreta.
Vado al mercato e acquisto tre cespi d’insalata al solito banco. Pago con due monete. Mi casca una moneta e devo cercarla carponi. Gli altri acquirenti si mostrano palesemente scocciati dalla mia goffaggine e scalpitano in attesa del loro turno. Finalmente la trovo! Ecco a lei, mi scusi sa, ho le mani di pastafrolla. La signora che incassa le monete si mette a frugare in cerca del resto, borbottando, per nulla intenerita, e intanto mi tende il mio sacchetto. Grazie e arrivederci!, butto lì; e svicolo.
Osserviamo da vicino. Il denaro ha facilitato la circolazione dei beni, nel senso che ha evitato una contrattazione davvero complicata; d’altra parte non avevo nulla da offrire in cambio dell’insalata a mo’ di baratto. Mi è capitato in altre occasioni, invece, di ricevere tre cespi d’insalata analoghi senza corrispondere denaro in cambio, per esempio quando un vicino aveva dell’insalata in eccedenza nell’orto. Teniamo da parte quest’ultimo caso particolare, ci servirà più avanti; analizziamo invece l’azione del denaro.
Anche se facilita la circolazione, nel fluire dei beni ci sono comunque un sacco di attriti. Attriti chiaramente meccanici: monete, passaggi di mano. Attriti più relazionali, fra le persone coinvolte, perché la transazione non è fluida, non scorre senza intoppi. Attriti interni agli esseri umani, che si affannano, si irritano, si preoccupano: pressioni sanguigne che s’innalzano, battiti cardiaci accelerati, scariche di neurotrasmettitori di vario tipo e così via.
Torniamo al mercato.
Ah, dimenticavo: mi occorre anche del pane! Purtroppo però non ho più monete, né banconote. Le ho dimenticate a casa. Qui gli attriti diventano scocciature, e aprono la strada a diverse congetture e possibilità, tutto un lavorio ben faticoso. Se il panettiere non mi fa credito, devo tornare a casa a prendere dell’altro denaro; oppure farmelo prestare da qualcuno, oppure prelevarlo a uno sportello ATM con una carta. O rubarlo. Ah, certo, se avessi una carta di credito (e se fosse accettata senza resistenze, cioè senza attriti, ai banchetti del mercato), quante preoccupazioni in meno! Invece di tasche e borselli pieni di scomode monete e banconote, con il rischio per di più di furti e smarrimenti, mi accompagnerei con una comoda carta plastificata.
La carta di credito si presenta come una versione migliorata della tecnologia denaro (monete e banconote); si spaccia per un’evoluzione capace di facilitare la circolazione dei beni diminuendo gli attriti. Gli attriti più evidenti sono quelli delle monete che tintinnano in tasca, che cascano per terra per distrazione; delle banconote false, che creano impaccio e imbarazzo negli incauti truffati, e qualche profitto ai truffatori; dei portafogli smarriti o rubati. Ma ci sono anche attriti meno palesi: quelli legati alle abitudini e ai comportamenti.
La carta di credito libera l’umano dalla necessità di fare mente locale alle azioni d’acquisto che sta per compiere, abbassando l’attenzione e lo sforzo cognitivo, tanto che è ben più facile spendere oltre il previsto con una carta, piuttosto che in contanti. Non è necessario valutare preventivamente quanta cartamoneta portarsi appresso, perché la carta plastificata è una fonte potenzialmente inesauribile di possibilità d’acquisto. Certo, dipende dalla consistenza del conto corrente, ma, come dice il nome stesso, carta di credito e debito sono fatte apposta per facilitare il credito e il debito. Le carte operano per automatizzare delle procedure di pagamento, ossia per rendere più fluida la circolazione. Circolare! Operano nel senso della selezione di automatismi comportamentali (umani e tecnici), così come anche il bancomat, per prelevare contante agli ATM (Automated Teller Machine), contrazione entrata nel vocabolario italiano nel lontano 1983 di banco(auto)mat(ico).
Osserviamo da vicino: invece di passare di mano, come il denaro, la carta viene momentaneamente passata al venditore, che la striscia… su un lettore di carte di credito! Sul quale l’acquirente deve digitare un codice, interpretato e accettato dal lettore. Ecco che appare un essere tecnico capace di facilitare, stabilizzare e ammortizzare operazioni molto complesse, attraverso automazioni. SE carta di credito, ALLORA chiedi PIN; SE PIN corretto ALLORA autorizza pagamento; SE pagamento autorizzato, ALLORA emetti scontrino; ALTRIMENTI nega. Il costrutto condizionale SE-ALLORA-ALTRIMENTI (if-then-else) è una delle basi logiche dell’automazione e si ritrova implementato in molti algoritmi. Possiamo considerarlo una spia di un’automazione in corso, ovvero di un tentativo di smorzare un attrito mediante l’intervento di una macchina che si prende in carico lo svolgimento della procedura.
Però le carte di credito si consumano. A furia di strisciare sui lettori, un acquisto dopo l’altro, un contatto dopo l’altro, si consumano. Banda magnetica usurata per quelle più anzianotte, microchip ossidato dall’atmosfera circostante (o dagli sfregamenti eccessivi) per quelle più recenti, in ogni caso l’attrito le consuma. Inoltre, a furia di maneggiarle si sbiadiscono i numeri. Si può eliminare il passaggio di mano, il possessore può far da sé e cimentarsi direttamente con il lettore di carte, ma sarebbe molto meglio non doverle strisciare né inserire per leggere il microchip. Fra l’altro, doversi ricordare il codice, con tutti i PIN che dobbiamo tenere a mente, è un bello sforzo. Limitare le frizioni, minimizzare lo sforzo… Bisogna selezionare caratteri tecnici in quella direzione.
Ed ecco che entrano in scena le carte di credito contactless! Basta contatti, basta codici, è sufficiente avvicinare la carta al lettore e zac, la magia è fatta! Non c’è bisogno di conoscere i dettagli di funzionamento di questa mirabolante tecnologia: funziona! A prima vista, si tratta di due pezzi di plastica identici: carte di credito a chip e banda magnetica sembrano uguali a quelle contactless. Ma le prime operano all’interno di una rete tecnica più semplice rispetto alle seconde, perché queste ultime contengono un chip RFID ed esigono un lettore in grado di interagire con tale sistema, cioè una rete di trasmissione di onde radio di breve gittata con tecnologia Radio-Frequency IDentification.
I tratti selezionati finora nell’evoluzione dalle monete alle carte di credito fino alle carte di credito contactless vanno nella direzioni di una diminuzione di attrito tramite delega di complessità al sistema tecnico e aumento di interazioni automatizzate, preordinate da automatismi programmati. Le relazioni fra esseri tecnici ed esseri umani tendono ad automatizzarsi; tale automazione è possibile solo convocando una quantità inaudita di esseri tecnici, su vasta scala (lettori di carte, tecnologie di radiofrequenza, reti di bancomat, reti telefoniche e così via) legate fra loro da concatenazioni procedurali. Man mano che la complessità cresce, gli esseri umani tendono a ignorare non solo i dettagli tecnici di queste concatenazioni, ma anche ad agirle in maniera automatica, come una liturgia interattiva inconsapevole e che, senz’altro, non hanno deciso in maniera autonoma, ma imparato a ripetere senza riflettere. Solo quando interviene il solito guasto si accorgono della complessità nascosta sotto l’apparente banalità tecnica. E allora intervengono le reazioni emotive scomposte che abbiamo già incontrato: irritazione, rabbia e ira, improperi contro il mancato funzionamento delle macchine, cioè recriminazioni perché non stanno obbedendo ai comandi come è normale che sia…
Nelle strutture tecniche orientate al dominio, la norma strutturale è l’obbedienza ai comandi, sia da parte degli esseri tecnici, sia da parte degli esseri umani; in questo caso, l’umano obbedisce alla propria stessa abitudine a tirar fuori la carta di credito e strisciarla o mostrarla. Il potere inteso come capacità di produrre e applicare norme è stato delegato al sistema tecnico di cui umani e non umani sono parte attiva, per quanto privi di potere, visto che non sono né i compratori/venditori né le monete, o le carte, o i lettori di carte a decidere come si articolano fra loro.
Proviamo a continuare la genealogia del denaro, fino a immaginare il futuro di questa evoluzione appena tratteggiata. Le carte di credito senza contatto si possono perdere, come tutte le altre. Certo, poi vengono rimborsate, ma è una bella seccatura. Come le loro antenate a banda magnetica e microchip, possono essere clonate. Più semplice da usare, con maggior distanza fra gli intermediari e con un pacchetto di onde a farsi carico della comunicazione, significa anche più semplice da clonare: non servono complicate apparecchiature, e naturalmente non serve il contatto che era necessario per clonare le vecchie carte. Infatti, per fare le veci del vecchio lettore di carte, è sufficiente un telefono o un altro sistema in grado di intercettare la frequenza radio.
Per esempio in metropolitana, dove una volta si sgraffignavano portafogli, ora si possono prelevare un po’ di spicci dalle tante carte di credito senza contatto, senza nemmeno doverle cavare dalle tasche degli ignari possessori. Alla destrezza duramente esercitata dei borseggiatori professionisti si sostituisce la destrezza di chi sa manipolare e ri-programmare il telefono furbo, che già di suo con le onde ci sa fare, tra bluetooth, wi-fi e 3-4-5g, per programmarlo a captare le onde radio in prossimità. Nessun tocco né sfioramento, riduzione di attriti e frizioni. Grazie a nuovi esseri tecnici è sufficiente una discreta vicinanza fra intermediari: da una parte, il telefono acchiappa onde; dall’altra, la carta emittente, che è stata selezionata per poter interagire quando adeguatamente stimolata, automaticamente, senza porsi domande. Ogni essere tecnico rimane debitamente alloggiato nelle disponibilità del proprio padrone umano; eppure, a uno sguardo meno superficiale, è al tempo stesso estremamente esposto alle intrusioni altrui.
Si potrebbero proteggere le carte in questione, ma chi ha voglia di ricordarsi di farlo? E come? Imparare a proteggere le carte non è banale, implica apprendere nozioni di fisica ed elettrotecnica, cioè una certa fatica per escogitare un modo per relazionarsi diversamente, in maniera non automatica, con questi esseri tecnici. Vuol dire prendersi cura delle carte, non solo nel senso di proteggerle, ma anche di capire come si comportano.
Il fisico, ovvero qualsiasi persona che sia stata attenta durante le lezioni di fisica, o semplicemente appassionata di azioni a distanza, direbbe: se il problema sono gli attriti con le onde elettromagnetiche, come le onde radio, basta provvedere a bloccare le onde con una bella gabbia di Faraday. Tradotto in termini pratici, è sufficiente avvolgere la carta in un foglio di alluminio, o foderare una tasca con dell’apposito tessuto (intrecciato di fili metallici) capace di bloccare le onde radio. O metterlo in una scatoletta di latta. Per chi volesse sporcarsi le mani, al di là dei fogli d’alluminio da cucina, la parola chiave per recuperare il materiale adatto e auto-costruirsi un simile aggeggio è «EMF block» (Electro-Magnetic Frequency Blocker Fabric, Tessuto per bloccare frequenze elettromagnetiche).
Questo esempio di ricorso al sapere esperto, nello specifico la fisica, non è banale. Richiede infatti la capacità di formulare una domanda adeguata. Invece di concentrarsi sul guasto, sull’impiccio, sul fastidio e sulla fatica (il furto dalla carta di credito contactless), bisogna decentrare il proprio punto di vista, ragionare sul funzionamento, cioè analizzare e comprendere come si mette in opera la concatenazione di interazioni automatiche fra noi, la carta e l’ambiente in cui siamo immersi. Richiede pazienza e fiducia nella possibilità di evolvere comportamenti e caratteri nuovi, divergenti rispetto alla norma dell’automatismo comando-obbedienza. Richiede disponibilità a sperimentare, a giocare con gli esseri tecnici, a condividere con altri quello che impariamo, con l’obiettivo di diffondere pratiche che ci corrispondono.
Questo studio della situazione modifica il nostro atteggiamento umano, il nostro comportamento e le nostre conoscenze, quindi la nostra identità insieme all’ambiente sociotecnico, oltre che le nostre relazioni con le carte di credito. Attiva la curiosità tipica dell’attitudine hacker, traduce la nostra domanda in termini comprensibili per compiere una ricerca e infine opera concretamente per realizzare i nostri scopi. È una selezione di caratteri tecnici sulla linea del retaggio della libertà, perché aumenta il potere reciproco degli esseri coinvolti. Non è facile né semplice, ma è un’evoluzione possibile.
Purtroppo di solito le cose vanno diversamente. Gli umani che si vedono sottrarre denaro dalla carta con il trucco della metropolitana, messi di fronte all’alternativa del blocco elettromagnetico, reagiscono scrollando le spalle. Non hanno tempo, dicono, per studiarsi cose tanto complicate, quando una carta di credito contactless è così semplice!
Così, di fronte a questa pressione per trovare soluzioni semplici per tutti, ovvero pressione a effettuare selezioni omologanti, che riducono la diversità biotecnica nella direzione della delega strutturale al sistema tecnocratico, gli esperti umani si mettono all’opera.
Cercano di perfezionare un sistema per limitare maggiormente le frizioni, minimizzare lo sforzo, non doversi ricordare le lezioni di fisica che nessuno ricorda, non doversi inventare una protezione per le carte, anzi, non doverci badare proprio per nulla, poiché le carte servono, sono servizievoli, non devono annoiare e disturbare con le loro necessità e i loro vincoli strutturali, che sono poi i loro margini di libertà possibile. Gli esperti tecnocrati studiano allora come mettere a disposizione di chiunque un metodo di identificazione assolutamente personale, unico… unico come un’impronta digitale, unico come… il viso umano!
Ed ecco un nuovo essere tecnico, ancora più evanescente dei precedenti: un sistema di pagamento tramite riconoscimento facciale. In realtà è un conglomerato di esseri tecnici che interagiscono fra loro. Ma, nonostante la sua straordinaria complessità, si rivela una manna da propagandare per i pubblicitari, senza alcun bisogno di capire come funziona né come si articolano le relazioni. Uno slogan riassume complesse mediazioni e oscurare le deleghe di potere in un’eccitante promessa: «puoi pagare con uno sguardo!». Basta contatti senza contatto, dimenticate le carte, è sufficiente avvicinare il viso al telefono e zac, la magia è fatta! Non c’è bisogno di conoscere i dettagli di funzionamento di questa mirabolante tecnologia: funziona!
Come funzionano i sottostanti algoritmi di riconoscimento facciale a punti di densità? Chi ne ha deciso i parametri, chi ha il potere di definirne le norme di comportamento? Domande che rimangono inespresse, fino a che non si manifesterà un qualche «guasto» ben più complesso dei precedenti, perché non puntuale del singolo strumento ma sistemico, dell’intero ambiente sociotecnico.
Ad esempio, si scoprirà che gli algoritmi di riconoscimento sono affetti da inclinazioni proprie, bias in termini neurocognitivi, per cui tendono a riprodurre e amplificare i bias dei progettisti umani, anzi, le loro credenze e ideologie più o meno consapevoli: sono razzisti, sessisti, classisti, maschilisti e così via[^2]. Inoltre richiedono telefoni furbi estremamente sofisticati, con telecamere ben nitide per funzionare correttamente. Servono un sacco di macchine, connesse e in perfetta armonia gerarchizzata fra loro, per portare a termine quel famoso pagamento! Ma certo, quanta fatica in meno per me, singolo umano: devo solo ricordare ti portarmi appresso… il cellulare furbo, di tenerlo caro come la pupilla del mio occhio, che insieme al resto della mia faccia mi serve per pagare qui e là.
E non è finita: perché più le macchine sono chiamate a svolgere compiti complessi, in tempi rapidi, su scale massicce, a grandi distanze, più le variabili aumentano, più le vulnerabilità dei sistemi si moltiplicano. E un nuovo essere tecnico verrà proposto per ovviare ai nuovi problemi sorti con l’introduzione di una nuova tecnologia, un essere tecnico che minimizzi ancora di più gli attriti, i contatti, le frizioni, gli sforzi. Resta da capire chi e dove si fa carico di questa enorme quantità di compiti, ma nel frattempo siamo partiti da una tecnologia già complessa come il denaro, una virtualizzazione straordinaria (dopotutto, il denaro è una convenzione che funziona finché ci crediamo, infatti gli animali non umani non sono corrompibili con la credenza nel valore del denaro), per complicare a dismisura il tutto e arrivare al riconoscimento facciale e oltre, con moltiplicazione evidente di intermediari tecnici sempre più smart.
Il capitalismo, sia nelle versioni più liberali che in quelle più autoritarie, tende a presentare soluzioni «chiavi in mano» per affrontare situazioni quotidiane, allontanando il più possibile i corpi umani fra loro, o quanto meno l’interazione diretta fra corpi umani. Le interazioni vengono gestite da esseri tecnici che servono proprio a minimizzare attriti fra umani, a far circolare merci, denari, materie prime e organismi stessi il più rapidamente possibile. Come funzionano? Beh, è molto, molto complicato. In fondo, nessuno lo sa, esattamente e in ogni momento; nessuno è perfettamente consapevole dei dettagli di tutte queste interazioni: finché funziona, me ne frego! Un’esclamazione di indubbio conformismo, e dall’indubbio retrogusto fascista. Non prendersi cura, non occuparsene è l’attitudine di cui si nutre la delega tecnocratica, e la parallela palude reazionaria. Il funzionamento è oscuro, segreto, appannaggio degli iniziati…
Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia, recita la terza legge di Clarke. Pare che Arthur C. Clarke, scrittore di fantascienza e letteratura d’anticipazione britannico, avesse inizialmente proposto solo un adagio a proposito delle capacità predittive degli scienziati di una certa età, in merito alle possibilità di prevedere le tecnologie e invenzioni future; poi, incalzato dal suo editore, aggiunse la seconda e quindi la terza «legge», certamente la più nota, che ha dato luogo a numerose varianti. Ecco una glossa ulteriore: qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia per gli esseri umani, una volta che hanno delegato la gestione delle loro vite quotidiane a sistemi automatici orientati al dominio costruiti da altri umani. Ovvero in sistemi con alti livelli di alienazione tecnica. Potrebbero invece senz’altro esistere esseri non umani, o solo parzialmente umani, in grado di distinguere perfettamente tecnologie avanzate e magie.
Discernimento o meno, rimane però invariato un particolare notevole: affinché una tecnologia funzioni, bisogna servirsene, e servirsi di essa in un determinato modo, seguendo cioè una procedura. Bisogna procedere, avanzare in ossequio a regole certe, ovvero rispettare un certo ritmo, re-agire adeguatamente a determinati impulsi; bisogna disporre il proprio corpo in un modo particolare, nei limiti di condizioni prestabilite e persino con una certa attitudine, con un disposizione d’animo corretta, all’interno di una forbice di variabilità nota. Non solo bisogna seguire una precisa liturgia, ma, in un certo senso, è necessario credere a queste tecnologie.
Ad esempio, bisogna credere che sia possibile acquistare attraverso il riconoscimento facciale del telefono per dare la possibilità al sistema di operare. Credere almeno come ipotesi operativa, credere quanto meno come sospensione di incredulità, che nel caso in questione equivale a compiere una notevolissima quantità di azioni estremamente sofisticate in maniera semi-automatica.
Proviamo a elencare quelle fondamentali: ricordarsi di portare con sé il telefono (al posto del borsellino o portafogli con cartamoneta o carta di credito); dotarlo preventivamente di applicazione idonea (e quindi possedere un telefono idoneo), con tutte le complesse interazioni di installazione, aggiornamento e quant’altro; abilitare in anticipo l’applicazione presso il proprio gestore bancario, che dovrà attivarsi automaticamente dietro sollecitazione dell’app in questione (espletando burocrazie varie più o meno farraginose); essere disposti a far registrare prima il proprio viso come impronta di riconoscimento, esponendolo alla telecamera in un certo modo e seguendo una procedura stabilita in certe condizioni di illuminazione e di quiete e di angolatura e senza/con occhiali, trucco, travisamento; essere poi disposti a ripetere tale procedura di esposizione alla camera in maniera il più possibile identica alla prima registrazione, stampandosi in faccia un’espressione il più possibile stereotipata, invariata, per facilitare il compito della macchina e velocizzare l’acquisto.
La macchina potrebbe migliorare e riconoscerci comunque, anche travisati; forse dal taglio degli occhi, da altri particolari che sfuggono allo sguardo umano, ma di certo in ogni caso tutta questa complessità chiama in causa innumerevoli attori e comparse durante lo svolgimento stesso dell’azione di acquisto, tutti necessari per portarla a buon fine. Telefono hardware; programmi e app software; interazione fra questi e il corpo umano dell’acquirente, e fra questi dispositivi e altri corpi tecno-burocratici intermediari, tra cui la banca o comunque la disponibilità di denari, per mezzo di infrastrutture di rete complesse in grado di trasmettere onde elettromagnetiche di frequenza variabile (connessione dati 3-4-5g e così via, a seconda della copertura)… e soprattutto il mio viso di acquirente, di padrone dello strumento, dev’essere riconoscibile. Se fossi cascato e avessi un occhio nero, il telefono mi consentirebbe l’acquisto? Con la moneta, almeno, avrei potuto farmi aiutare da un gentile passante a contare gli spicci o raccattarli da terra. Ma chi mi aiuterà a sistemare la mia faccia ammaccata per farmi riconoscere dal mio telefono?
Potremmo entrare in ulteriori e assai più sofisticati dettagli di interazione, ognuno con le sue miriadi di possibili usi e abusi. Per farla breve, una cosa è certa: senza il contributo degli esseri umani, gli esseri tecnici sono persi e girano (perlopiù) a vuoto; senza il contribuito degli esseri tecnici, gli esseri umani sono molto, molto più fragili e vulnerabili. Dobbiamo crederci, così funziona!
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I filosofi hanno parlato molto di tecnica e tecnologia, di solito in termini denigratori, pur servendosene abbondantemente. Platone, scrivendo i dialoghi che lo hanno reso celebre, malediceva la tecnica della scrittura, deleteria per la memoria; o ragionava della tecnica come pharmakon, farmaco che può essere sia medicina che veleno. I pochi filosofi sostenitori della tecnica e della tecnologia sono spesso dichiaratamente oltranzisti del Progresso Tecnico a ogni costo, umano e non solo: ovvero del Dominio sulla natura e sul mondo intero. Hanno un atteggiamento da credenti, nel senso che credono ciecamente nello Sviluppo Tecnico come panacea di tutti i mali, o come inevitabile tappa della Storia, dello Spirito e così via.
Tratto comune alla stragrande maggioranza di questi filosofi, tecnofobi o tecnofili che siano, è la mancanza di cultura tecnica, quando non la totale ignoranza in merito. Mancanza di frequentazione concreta con gli esseri tecnici.
Gilbert Simondon è uno dei pochissimi filosofi che ha scritto di tecnica e tecnologia con cognizione di causa. Gli piaceva sporcarsi le mani con gli esseri tecnici, con le macchine della sua epoca. Appartiene alla schiatta di Erone di Alessandria, di Archimede, di Archita e di Ctesibio: inventori di automi per il teatro, di giocattoli e meraviglie per stupire e divertire, ma anche di macchine straordinarie per moltiplicare le forze. Insegnanti e sperimentatori, divulgatori delle loro scoperte. Animati da un’attitudine hacker, a mio modo di vedere.
Simondon definiva alienazione tecnica il divario tra cultura e tecnica. Ovvero la convinzione diffusa che la tecnica sia un sapere volgare o addirittura banale, indegno di grandi e nobili intelletti; ma anche l’analogo opposto, cioè la convinzione che la tecnica sia un sapere eccelso o persino salvifico, riservato a pochi eletti. Simondon era convinto che questo divario abbia gravi ripercussioni: a causa di questa distanza tra l’essere umano e gli oggetti tecnici (esseri tecnici), questi ultimi possono essere percepiti come pericolosi o magici.
«Funziona da solo!», esclamano stupiti gli astanti umani, rapiti dal miracolo della macchina automatica. L’esempio più semplice riguarda infatti l’automazione, il livello più basso della tecnologia, comunemente considerata una sorta di magia tecnologica.
Simondon si oppone a due concezioni: le concezioni antropologiche della tecnologia e la nefasta idea di Heidegger che l’essenza della tecnologia moderna è non-tecnologica.
Al contrario, secondo Simondon l’essenza della tecnologia è completamente tecnologica, la «tecnicità», che si esprime appunto nell’ambiente associato. Studiando la genesi degli esseri tecnici si può comprenderne l’evoluzione, la maniera in cui le varie parti di una macchina entrano in risonanza fra loro, e con la cultura dell’epoca, evolvendosi per dar luogo a sistemi via via più integrati. Ogni oggetto ha dunque caratteristiche oggettive, per le quali appartiene a una stirpe dotata di specifiche caratteristiche, e come tale va compreso a livello tecnico oggettivo. L’uso umano è parte della «libera avventura» degli oggetti tecnologici nel mondo, cioè del loro aspetto psicosociale; ma tale avventura è relativamente indipendente dalle loro caratteristiche tecniche.
Il successo riproduttivo di determinati oggetti tecnologici non dipende tanto dal fatto che funzionano meglio a livello tecnico, quanto da fattori psicologici, sociologici, economici e culturali nelle loro interazioni con gli umani. In termini evolutivi, si può dire che la fitness tecnica non è garanzia di riproduzione e diffusione per l’essere tecnico. Gli esempi sono straordinariamente numerosi, spesso accomunati dal fatto che in definitiva sono le mode a imporsi a livello commerciale.
Ad esempio, non è la tecnica ad aver fatto la fortuna del formato VHS rispetto al Betamax. Quest’ultimo era un formato di videoregistrazione qualitativamente superiore al VHS, che però si impose a livello commerciale. Così la scelta di sviluppare il motore a scoppio invece del motore elettrico sulle autovetture è stata dovuta a ragioni socio-economiche, non tecniche.
Tuttavia, per quanto le interazioni con gli umani siano determinanti, questo non significa che la tecnologia coincida con quelle interazioni: la tecnicità eccede ampiamente l’utilizzo. Invece, le concezioni antropologiche riducono la tecnologia ai suoi usi umani e, sovente, al paradigma del lavoro. Un oggetto tecnologico è considerato uno strumento neutro, un mero strumento, oppure un mezzo che usiamo per un fine. Esisterebbe quindi un soggetto umano che si serve di oggetti non umani.
Abbiamo già contestato questa convinzione; in ogni caso basta notare che «servirsi» significa «adoperare come servi», e questa semplice spia linguistica dovrebbe già metterci sul chi va là. Quando poi arriviamo al digitale di massa, il linguaggio industriale, violento, brutale, sessista e schiavista è sotto gli occhi di chiunque voglia vederlo. Viviamo in un mondo costellato di macchine in rete che fungono da «server» per i vari «client», organizzati in gerarchie di «master» e «slave» (padroni e schiavi), ma tutti comunque da proteggere con «crittografia pesante» contro chi cerca di «bucare» o «penetrare» i sistemi, praticando «estrazione» da «laghi di dati» (data lake) e da masse di «profili», magari interessato a «iniettare» dei «virus» o altri «cavalli di Troia» per «minare» criptomonete calcolando «catene di blocchi» (blockchain). Le macchine sono esplicitamente considerate come minatori in miniera.
L’altro diffuso approccio filosofico alla tecnica è quello di Martin Heidegger. Egli riteneva la tecnica tutta un «Ge-stell», «inquadratura», cioè una maniera di «mettere insieme», «raccogliere», «inquadrare» le cose, ordinandole in un certo modo. Una visione onnicomprensiva di tecnica e tecnologia, non come mezzo in vista di un fine ma piuttosto come modalità dell’esistenza umana. Tale Gestell/inquadratura sarebbe il modo prevalente in cui la realtà appare o si disvela nell’era della tecnologia moderna. Gli umani venuti al mondo in questo «modo di ordinare» sono sempre integrati nel Gestell (inquadratura) che è la Tecnica stessa, per la quale ogni cosa è «riserva» in vista di un possibile sfruttamento tecnico. Nulla può essere visto e compreso se non viene prima «inquadrato».
Così il fiume Reno, inquadrato nel Gestell tecnico, è semplicemente una riserva d’acqua da sfruttare. L’era tecnocratica è ineluttabile, dice il filosofo in «La questione della tecnica» (Die Frage nach der Technik, 1953). Apparentemente in netta opposizione, la concezione della tecnica del filosofo nero e quelle antropologiche sono in realtà del tutto analoghe. Infatti in entrambi i casi l’oggetto tecnico viene per così dire obliterato.
Negli approcci antropologici ci si concentra sull’umano in quanto soggetto che si avvale di oggetti tecnici, di per sé «neutri», ma eventualmente percepiti come oppressivi, o liberatori; si oscilla dunque fra la distopia tecnofoba e la l’utopia tecnofila. L’esistenza degli oggetti tecnici è del tutto subordinata all’umano, anche quando risultano pericolosi o indesiderabili.
D’altra parte, nella pessimistica e fatalista visione heideggeriana, la tecnica onnipresente inquadra ogni cosa: è la scaffalatura di sostegno del modo di esistenza contemporaneo, fondamentalmente alienante. La tecnologia dispone il mondo in certo ordine, è il dispositivo che s’impone all’umano e attraverso cui il mondo si disvela. È una sorta di sfondo comune a tutto e tutti, ma degli oggetti tecnici nulla si dice di preciso, come fossero tutti ugualmente subordinati all’umano, anche quando ne ordinano e predispongono il mondo.
Si discorre della mentalità metafisica che riduce ogni cosa (gli utilizzabili nel gergo heideggeriano, enti intramondani) a oggetto misurabile e quantificabile per essere poi utilizzato. Si deplora la tendenza a dirigere le risorse naturali e l’umano stesso, immagazzinato, messo a scaffale, oggetto fra gli oggetti, pronto a essere modificato e utilizzato. Si mette in guardia contro l’imposizione della tecnica-quadro, la cui essenza, dice Heidegger, non è affatto tecnica ma pro-vocazione per l’umano, ovvero parte del destino dell’essere.
Come in tutta la filosofia heideggeriana, la politica è assente, anzi, fondamentalmente impossibile. E, ancora una volta, l’oggetto tecnico con le sue specificità rimane sullo sfondo dell’analisi. L’umano domina.
Simondon invece ha sviluppato una metodologia complessa per lo studio degli oggetti tecnici e del loro «modo di esistenza». Esiste una «tecnicità», qualità propria della tecnica, da analizzare caso per caso nelle sue manifestazioni concrete ovvero nel modo di esistenza specifico degli oggetti tecnici, che s’interseca con le ragioni per cui vengono utilizzati da ogni singolo individuo e in una data comunità, modellandone in maniera retroattiva l’evoluzione.
La mentalità tecnica si contrappone all’alienazione tecnica. In un’epoca ad alta densità di tecnologie digitali, una metodologia per affinare una simile attitudine dovrà concentrarsi in primo luogo sui dispositivi tecnici più comunemente usati e abusati: computer, cellulari furbi, tablet e via dicendo. Si dovrà poter estendere a tutti gli esseri tecnici, e a tutti gli esseri umani. Dovrà essere una metodologia al tempo stesso concretamente applicabile nel quotidiano, senza particolari requisiti di genialità o predisposizione; e solidamente ancorata in una teoria più vasta, quindi appoggiata su tradizioni ben collaudate.
L’immagine da tener presente è quella delle serie di oggetti tecnici che si evolvono, sempre più potenti. Simondon mostrava l’evoluzione dei telefoni e delle valvole termoioniche; noi possiamo evocare quella dal telefono portatile pesante, ingombrante e costoso degli anni Ottanta del XX secolo ai leggeri ed economici modelli degli anni Duemila, fino ai luccicanti smartphones degli anni Venti del XXI secolo. Oppure, per quanto riguarda i calcolatori elettronici, dai giganteschi mainframes degli anni Cinquanta del XX secolo ai laptop ultraportatili, ma pur sempre collegati ai capannoni industriali dei centri elaborazione dati traboccanti di server connessi fra loro.
In realtà al loro interno sono costituiti da congegni anche molto diversi fra loro, appartenenti a linee evolutive diverse: nastri magnetici, dischi meccanici e dischi a stato solido sono supporti non imparentati fra loro, eppure vengono tutti usati come memorie dei calcolatori elettronici. In ogni caso, le esistenze di queste stirpi di esseri tecnici si intrecciano con le vite degli esseri umani: dai pochissimi yuppies in giacca e cravatta che si pavoneggiavano negli anni Ottanta armeggiando con un pesante Motorola da quattromila dollari fino ai tantissimi, bambini, ragazzi, adulti e anziani di tutto il mondo che diteggiano su schermi tattili dei telefoni furbi, scorrendo video su Youtube e TikTok o qualche altro social.
Queste linee evolutive sono strettamente connesse e possono essere orientate diversamente, passando dal mutuo condizionamento al mutuo appoggio. Si tratta di educarci a una cultura tecnica, e a una cultura tecnica libertaria perché liberatoria.
[^1] L’aria è una miscela di gas; di solito i gas isolano dall’elettricità. Ma quando vengono a contatto con un agente esterno detto agente ionizzante, diventano buoni conduttori elettrici. In questi casi l’assorbimento di una radiazione elettromagnetica da parte di una molecola del gas provoca la liberazione di un elettrone. La molecola assume così una carica positiva (ione positivo), mentre l’elettrone vaga per il gas finché non è catturato da un’altra molecola che in tal modo assume una carica negativa (ione negativo). Le molecole che acquistano e perdono un elettrone si dicono ioni. In presenza di un campo elettromagnetico, come quello generato dalle onde radio nell’atmosfera, gli ioni dei gas vengono accelerati nella direzione delle linee di forza, dando luogo a un trasporto d’elettricità e quindi alla radiopropagazione in base alla ionizzazione. Si vedano le voci radiopropagazione, ionosfera su enciclopedia Treccani.
[^2] Le ricerche in tal senso cominciano a diffondersi. Ad esempio: Safiya Umoja Noble, Algorithms of oppression NYU Press, New York: NY, 2018; Virginia Eubanks, 2018, Automating Inequality: How High-Tech Tools Profile, Police, and Punish the Poor.