Conclusione

Per concludere questa esplorazione non si può far altro che aprire alle possibili evoluzioni. L’evoluzione del rapporto fra esseri umani ed esseri tecnici è in corso. Le loro relazioni di potere non sono state stabilite una volta per tutte. Nessuno degli attori in campo può davvero sottrarsi; se lo fa, sceglie di adeguarsi alle misure di idoneità stabilite da qualcun altro. Nessuno è ininfluente, per quanto si percepisca privo di potere. A partire dalla propria prospettiva situata, chiunque può acquisire potere e diffonderlo, per aiutare a ridefinire in senso libertario le norme che regolano la vita sociale, di cui la tecnica è parte integrante. È un’ottima notizia, perché l’evoluzione tecnica è troppo cruciale per essere lasciata nelle mani di esperti prezzolati, o di comuni mortali esasperati dai guasti dei loro servi meccanici, come abbiamo visto.

Avere a che fare con le macchine può comportare esperienze faticose, noiose, frustranti. Questo è ancora più vero con le macchine digitali sfornate dal sistema militare industriale, perché sono concepite e costruite per rinforzare la sottomissione ai meccanismi di comando/obbedienza: obbedire alla procedura per comandare la macchina, comandare la macchina per conformarsi al governo di sé e degli altri. Ma l’allegria, il divertimento e la gioia di riuscire a stare e funzionare insieme alle macchine affini, nella turbolenza del mondo in divenire, è un’esperienza altrettanto possibile e alla portata di tutti e di ciascuno.

Per gustare queste deliziose opportunità, bisogna accantonare il paradigma dell’utilità, l’idea malsana di usare gli oggetti tecnici per raggiungere i nostri scopi. Magari non sempre e comunque, ma spesso, almeno come esercizio di formazione e autoformazione. È eccezionalmente efficace. Invece di ragionare in termini di mezzi, è fondamentale imparare a relazionarci agli esseri tecnici come compagni di gioco.

Nel gioco ci sono certamente delle regole. Ma nessuno obbedisce e nessuno comanda: si gioca insieme, attenendosi alle regole. Si possono anche inventare nuove regole, e, naturalmente, nuovi giochi. Non ci sono servi sottoposti necessari a far accadere le cose. Il gioco non è un lavoro meno impegnativo perché svagato, privo di obiettivi concreti e di remunerazione; al contrario, il gioco è un’attività appassionata, coinvolgente e gratificante; il gioco è magia conviviale, libera dalle pastoie del salario e del compenso. Giocare con le macchine, anche con le macchine digitali, è un ottimo modo per imparare a conoscerci e ridurre così l’alienazione tecnica.

La dimensione ripetitiva della relazione con la tecnica, in particolare digitale, va sottratta all’alienante coazione a ripetere per ottenere gratificazioni chimiche. Ripetere è il modo migliore per imparare, come sa chiunque provi ad allenarsi per riuscire a eseguire in maniera soddisfacente un’attività qualsiasi. Allo stesso modo, provando e riprovando si può imparare a funzionare meglio insieme alle macchine; meglio, cioè in maniera più consapevole, non ripetendo una litania di cui non comprendiamo il significato, ma strutturando rituali di interazione che ci gratificano profondamente. Ripetere in questi casi non vuol dire reiterare in maniera identica, ma ripercorrere dei passi scelti accuratamente per godersi il percorso, ogni volta in maniera più piena. A volte si cammina su un sentiero sconosciuto, perciò si fa attenzione, magari si cercano punti di riferimento un po’ grossolani per non perdersi; è logico e funzionale, ma così si trascurano i dettagli. Quando capiterà di ripercorrere quel sentiero si potranno tralasciare i passaggi già noti e concentrarsi su altro.

Non si percorre mai la stessa identica strada, non si naviga mai nello stesso identico mare, né nella stessa identica rete. Il fatto che il retaggio del dominio si mostri così soverchiante e apparentemente vincente in ogni dove non è una buona ragione per conformarsi. Ci sono un sacco di strade da tracciare, e alcune vecchie tracce dimenticate potrebbero nascondere sorprese inaspettate.

Come la biodiversità è la miglior garanzia in natura, così lo è anche nella tecnica e nell’evoluzione di tecnologie conviviali. Le identità, individuali e collettive, sono fasci di relazioni in continuo mutamento. La diversità è la forza della tecnica. C’è chi adora una particolare configurazione, chi preferisce un certo software, chi si personalizza un intero sistema operativo. C’è chi è cascato dentro orgmode (ripudiando di fatto le proprie antiche devozioni in quanto fedele di Vi) e ha cominciato a pensare seriamente di trasportare tutto ciò che gli piace e con cui ha a che fare dentro Emacs. C’è chi costruisce sistemi alimentati a energia solare che consumano poca elettricità; i servizi che espongono sono accessibili solo quando il sole splende sui pannelli solari che alimentano quelle macchine, invece di essere disponibili sempre e comunque. C’è chi inventa linguaggi di programmazione esotici, chi si diverte a compilare programmi astrusi, chi traduce in ascii qualsiasi cosa si presenti sullo schermo.

Molti animali giocano, non appena hanno tempo ed energie per farlo. Gli uccelli si divertono a cantare. Gli esseri umani anche, e hanno costruito degli strumenti musicali per suonare, ampliando le possibilità offerte dalle corde vocali. Anche i computer hanno imparato a suonare, e persino a comporre musica.

Tutte queste creazioni, frutto di tanto esercizio e di tanti calcoli, algoritmi che effettuano dei cicli e poi vengono modificati per ripetere in maniera diversa, diventano delle liturgie. Proprio come le antiche liturgie, sono lavori pubblici. Plasmano il mondo in cui viviamo, plasmano le identità degli individui, le relazioni che intrattengono fra loro e con l’ambiente circostante. Questi rituali d’interazione possono evolvere in maniera degradante, oppressiva, cruenta, avvilente. Lo sappiamo, spesso li subiamo. Ma a me personalmente non convincono le sirene della rassegnazione, le voci reazionarie che intonano il peana del bel mondo andato, che rimpiangono la purezza e l’innocenza perduta, ricordando che non c’è alternativa, e in ogni caso a che serve una manciata di persone che non si conformano, quando la massa si adegua… E nemmeno mi convince l’idiozia suicida, altrettanto reazionaria nel suo sedicente progressismo, della corsa sfrenata allo sviluppo del prossimo gadget tecnologico, della prossima tecnologia rivoluzionaria che non rivoluziona nulla, ma rinsalda un po’ di più la catena del governo tecnoburocratico. Atteggiamenti opposti, ma ugualmente rinunciatari, succubi di sé stessi, proni al destino ineluttabile che contribuiscono a modellare.

Preferisco l’attitudine hacker, una concreta via per valorizzare le caratteristiche di ciascuno e trasformarci insieme a ciò che ci circonda. Una buona dose di curiosità, tanta pazienza per ripetere, precisione per tradurre, predilezione per la robusta semplicità che può germogliare in mille forme diverse, diffondersi, federarsi, meticciarsi: ecco alcuni ingredienti. Le tecnologie conviviali esistono già, sono i rituali condivisi fra umani e tecnici affini, che si cercano, si riconoscono e scelgono di combinare qualcosa insieme; rituali di gioco, sperimentazione e, sempre, espansione dei margini di libertà reciproci.