Fofi
Il cinema del no
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Quando un sistema di potere si impone a scapito dell’autonomia di pensiero, dire «no» al mondo così com’è appare l’unico modo per dire l’inesprimibile, svelare il nascosto. È appunto quello che fa un cinema niente affatto conciliante, il cui intento non è placare gli animi ma mostrare il panico di ciascuno di fronte alla vita. E creare disordine.
La grande arte ha sempre in sé qualcosa di anarchico, è sempre una critica dell’esistente. E il cinema non fa eccezione, anche se ha indubbiamente due anime: la prima consolatoria, ovvia, tesa a intorpidire le menti (prevalente), e la seconda provocatoria, imprevista, pronta a mettere in discussione l’ordine delle cose (minoritaria). È appunto di quest’ultima che si occupa Fofi, di quel cinema che ha cercato l’oltre e il fondo, che ha esplorato territori e linguaggi capaci di mettere a nudo ogni maschera del potere, ogni cultura dell’accettazione, ogni mercato dell’immaginazione. Tanti gli esempi di questo rapporto diretto o indiretto tra cinema e anarchia che possono essere rintracciati in film e registi tanto del passato, a partire da maestri come Vigo e Buñuel, quanto del presente, in autori come Kaurismäki, Ōshima o Ciprì e Maresco. Ne viene fuori un sorprendente affresco che ci dà conto di quell’inesausto filone della sfida e della grazia che continua sotterraneamente ad agire nel cinema del nostro tempo.