×

Chi Siamo

Catalogo

Eventi

Rassegna stampa

Approfondimenti

Docenti

Foreign Rights

Autori

           

Prefazione a Il cinema del no

Il cinema del no

Fofi

PROSSIMA USCITA
mer 28 ago 2024

INDICE DEL LIBRO:

PREFAZIONE: Arte e anarchia
CAPITOLO PRIMO: La traversata di un secolo
CAPITOLO SECONDO: Autori e opere
Indice dei nomi

 

Mai fidarsi troppo dei dizionari e delle loro perentorie definizioni di questo e di quello. Chi li stila, si basa sul lavoro certosino di dozzine di persone che hanno scritto quelli precedenti e sui dizionari stranieri, di dozzine di persone che preparano le voci e scrivono le minori perché gli Autori le cambino o le approvino. E di dizionario in dizionario i lemmi si consolidano, si fissano, le definizioni si fanno luogo comune, opinione corrente, giudizio inappellabile. Gli Autori sanno che il senso comune cambia, e il significato delle parole anche. Devono diffidare delle «idee correnti» e però tenerne conto, e semmai combatterle cum grano salis. Mai troppo, perché, «per definizione», i dizionari definiscono e per un bel lasso di tempo la loro sarà vox populi, veridica spiegazione, sintesi piena, scienza. Prendiamo il caso della parola «anarchia». La definizione da dizionario più ricorrente è questa: «dottrina e movimento che negano la legittimità di ogni istituzione (Stato, Chiesa, famiglia), in quanto esse espropriano l’individuo della libertà personale e impediscono l’uguaglianza economica e la giustizia sociale». Tutto giusto, non fosse che, se gli Stati e le Chiese sono istituzioni diverse, consolidatesi in modi diversi e, nel corso di secoli, rispondenti in modi diversi alle necessità della gran parte degli individui di sicurezze e certezze cui aggrapparsi, le parole «collettività» e «religione» hanno declinazioni diverse, con le quali anche il pensiero anarchico ha dovuto spesso fare i conti, in risposta sia a precise contingenze storiche, per esempio di fronte a nemici di molti e di troppi, non solo degli anarchici (es. il fascismo e il nazismo e altri modelli dittatoriali), che a valori per molti aspetti simili ai propri (es., per Malatesta, la morale cristiana originaria, molti insegnamenti di Gesù e non Dio). E quanto alla famiglia, ho conosciuto e conosco famiglie anarchiche ben più legate e solidali di milioni di famiglie borghesi, o anche proletarie.

A rendere ancora più vario e complesso il quadro, sono i tanti modi in cui si è distinto tra Anarchia e Anarchismo, la prima prospettiva politica e progetto sociale, il secondo teoria in sé, oltre ogni indicazione di pratiche. E le varie coniugazioni teoriche e politiche che la parola «anarchia» ha avuto dall’Ottocento in avanti, dal modello pacifista (e nonviolento) tolstojano a quello socialista proudhoniano, anti o a-marxista, da quello insurrezionalista malatestiano a quello comunista kropotkiniano eccetera. Senza dimenticare l’iper-individualismo stirneriano, che ha fatto e continua a fare un mucchio di danni alle parole «anarchia» e «anarchico», con la sua esasperazione che fa somigliare l’anarchico al più sfrontato degli egoisti. Ho conosciuto ragazzi che si definivano anarchici ed erano sgomitanti e feroci, che ritenevano «anarchico» farsi i fatti propri, pensare a sé e solo a sé, a difendere il proprio «spazio» e i propri interessi (anche materiali): quale la differenza tra loro e, mettiamo, Berlusconi e gli uomini e donne del suo clan, e il modello umano che essi hanno trasmesso a buona parte di due generazioni? Ho conosciuto e conosco ragazzi che sfogano la loro aggressività, motivata più da una spinta vitale e animale che da un ideale qualsiasi, ma che essi giustificano chiamandosi anarchici: quale la differenza tra loro e, mettiamo, i giovani fascisti di sempre? Ho conosciuto giovani sbandati, transfughi da famiglie tremende, che vagavano di proposta in proposta alla ricerca di una qualche intima serenità e che si dicevano anarchici: quale la differenza dai tanti psicanalizzati borghesi, bensì integrati e accetti nel loro ambiente nonostante i loro intimi disagi?

Grande è la confusione nel campo della ribellione – peraltro così scarsa e così fragile – allo stato delle cose presenti e alle sue evidenti e micidiali ingiustizie, e la parola «anarchia» non basta a fare chiarezza, e a proporre qualcosa che vada oltre alla coscienza e alla dichiarazione che «questo mondo, così com’è, proprio non mi piace», e a proporre un modo di agire, di comportarsi, di rapportarsi al prossimo, e a proporre un , non soltanto a gridare un no. È per questo che la definizione di anarchia che mi pare più consona ai nostri tempi è quella che ci dette un pomeriggio di qualche anno fa, in un incontro con pochi giovani che sapevano chi era e ammiravano i suoi scritti, Colin Ward, il mite e saldo Colin autore della più bella sintesi recente su L’anarchia. Un approccio essenziale (l’ultima edizione è ovviamente di elèuthera, 2020). Gli chiedemmo: cos’è in primo luogo e in definitiva, per te e proprio per te, l’anarchia? La sua risposta ci sconcertò e mi entusiasmò, e ancora mi entusiasma: «una forma di disperazione creativa».

Fu proprio l’accento sulla disperazione, bensì creativa, a convincerci. Una definizione esperienziale lontana da ogni trionfalismo e da ogni banale ribellismo giovanile (con o senza causa). Anche se non mi pare che egli l’abbia spesso usata, indicava assai bene il suo stato d’animo. Oggi più che mai, di fronte al disastro del mondo, della democrazia e della politica, di fronte alla sottomissione degli uomini al potere di pochissimi e ai nuovi e tremendi modi di manipolare le coscienze e alle nuove barbarie di chi vorrebbe imporre un’altra idea, meno subdola ma non meno tremenda, della società e dell’uomo, è ancora possibile essere ottimisti, credere nella vittoria del bene (del «vero» e del «giusto» e del «bello»), fidare in un mondo migliore, se non per noi almeno per i nostri figli? The horror, gridava Kurtz alla fine del Cuore di tenebra, ma anche questa parola ha perduto la sua forza originaria, ed è diventata un genere cinematografico e letterario di consumo, una provvisoria e stantia eccitazione dei sensi per persone che hanno bisogno di risvegliarli, e non trovano di meglio che il buio la paura la morte. È da decenni che la parola «conflitto» è scomparsa dal vocabolario, demonizzata come male assoluto e come non fosse invece il sale di ogni democrazia e di ogni difesa dei deboli verso i forti. È accaduto dopo la sconfitta secca dei movimenti e delle rivoluzioni, con una nuova economia che, per un trentennio, ha illuso di un benessere crescente per tutti (gli anni, in Italia, di Craxi e di Berlusconi, di cui Renzi è una fiacca parodia fuori tempo), con l’addormentamento progressivo delle coscienze negli anni della maggior pace sociale e del maggior conformismo visti nella nostra storia dall’Unità in avanti, con il suicidio della sinistra (e la constatazione che ne consegue che il pci è stato uno degli inganni maggiori vissuti dal paese), e con l’acquisita e pressoché assoluta complicità degli intellettuali al sistema di potere determinato dai padroni e maestri della finanza e dell’economia.

Ma chi sono infine gli intellettuali? Oggi è scomparsa la generazione che attraversò fascismo guerra resistenza e ricostruzione e gli anni della democrazia e dei conflitti sociali che potevano preludere a una società migliore e che hanno fallito in parte per la povertà del nuovo e antagonista e in parte ben maggiore per la forza degli avversari, nel mondo e non solo in Italia e perfino là dove pareva si fosse vinto (il Vietnam, Cuba, l’Algeria e l’Africa post-coloniale). Sono scomparse quelle menti che, oltre a creare opere di grande valore e di piena sostanza, si preoccupavano del bene comune e dello stato del paese e della sua civiltà – e tanti sarebbero i nomi che si potrebbero fare, di una stagione unica nella nostra storia per ricchezza di capolavori e per energia e lucidità critica. Gli intellettuali di oggi figurano essere quasi esclusivamente giornalisti e professori, divi dei media imbonitori di se stessi, membri di un’istituzione come l’università che è certamente più mafiosa della mafia, membri delle corporazioni professionali dominanti, medicina, legge, architettura; sono solleciti passacarte, critici che non criticano, uffici stampa e propaganda, ciarlatani e narcisi immensamente innamorati di sé; sono «denunciatori» e ricattatori professionali – ciascuno per sé e per il proprio clan in un attento gioco di alleanze variabili e opportune.

Ci stiamo avvicinando al tema di questo piccolo libro su cinema e anarchia, considerando utile un quadro di fondo al cui interno collocare qualche considerazione che possa acquistare senso dal contesto, perché è di nuovo indispensabile che la critica esprima i suoi giudizi dicendo dove si mette, la sua scelta di campo, o meglio: la sua visione dello stato delle cose, del presente del mondo, e solo a partire da questo il suo giudizio non solo su opere e artisti di oggi (meglio ancora, sui loro dilemmi e sulla loro collocazione) ma anche su opere e artisti di ieri. Come vedremo, un discorso utile su cinema e anarchia non può ignorare un discorso di fondo su arte e anarchia, così come si è posto ieri e così come si pone oggi, come si è posto e si pone sempre.

In breve: mi sento di sposare sino in fondo la definizione di anarchia data da Colin Ward, della «disperazione creativa», sento che ci appartiene fino in fondo e che appartiene a qualche artista e regista di oggi, non tanti, ma abbastanza da fare la differenza con la moltitudine degli scriventi filmanti musicanti disegnanti recitanti. E non vi vedo, peraltro, in questo atteggiamento alcunché di diverso da quello di altri pensatori di altri campi della conoscenza e dell’espressione.

Colin Ward è stato, a mio modo di vedere, anzitutto un grande urbanista e un grande educatore, ha riflettuto in particolare sulla città e sull’infanzia; e si è già constatato in passato da parte di molti pensatori vicini al pensiero anarchico che i grandi anarchici si sono dedicati con più ostinazione, nella loro ricerca e nella loro pratica quando non hanno privilegiato l’intervento immediatamente politico, all’urbanistica e all’educazione, la città (la convivenza) e i bambini e gli adolescenti (il nuovo e il futuro). L’arte ha avuto e ha a che fare con questi due campi, anche se ne ha escluso una relazione immediata o, per meglio dire, l’utilità diretta. Guardando più avanti e più a fondo, ponendosi dialetticamente in dialogo ma anche in opposizione col «mondo com’è», l’arte – quella non solo consolatoria e non solo strumentale – è stata e non può che essere anarchica. E questo, anche se irriterà molti, vale oggi più di ieri, in un mondo in cui la scienza è ricattata dal denaro e ne è a servizio, la politica è serva e schiava dell’economia, e ancora di più lo sono l’urbanistica e l’educazione. Di arte abbiamo bisogno, più che mai, per contrastare il presente e le sue mistificazioni difendendo il vero e il giusto e il bello in un tempo in cui che cosa siano il vero e il giusto lo hanno ancora chiaro in tanti (non solo i pochi e i migliori, ché qualche dubbio sfiora ancora molti tra coloro che hanno scelto la merce il denaro il potere come loro realizzazione), ma su cosa sia da intendere col bello, la confusione è totale, ed è diffusa «ad arte» dai grandi manipolatori.

Due libri mi sono stati molto utili in passato, Che cos’è l’arte? di Tolstoj, nella vecchia e aurea traduzione di Frassati più volte ristampata, con la sua idea di un’arte che non può e non deve essere che arte popolare, espressa dal basso e con lo sguardo rivolto all’alto, e Arte e anarchia di Edgar Wind, scoperto – il caso è oggettivo, dicevano i surrealisti – nel 1968, con la sua panoramica di posizioni e di definizioni dell’arte che partiva dal «timore» che secondo Platone essa doveva suscitare in quanto perturbativa dell’ordine della società, e che vedeva nel trionfale accoglimento dell’arte nell’ordine delle cose, e cioè del consumo, la sua sconfitta e non la sua vittoria. Ma ancora di più ho imparato da lunghe conversazioni con una geniale scrittrice anarchica, Elsa Morante, di cui ho avuto il privilegio di essere amico per gli intensi anni che vanno, appunto, dal 1968 alla sua morte, nel 1985. È nella sua conversazione-conferenza dei tardi anni Cinquanta, dal titolo provocatorio di Pro o contro la bomba atomica, che ho trovato le definizioni che mi sembrano ancora più attuali dell’arte e delle sue «qualità», che sono anche le più estreme e difficili e sulle quali molto contrastammo, perché sostenevo allora che la vita e il «peso» di un artista non valgono di più della vita e del «peso» di un militante sconosciuto del bene, cioè della rivoluzione. Eppure il punto di arrivo era lo stesso, quello del «tutti» capitiniano, della liberazione di tutti. Per Elsa Morante (e scoprii poco dopo che questo valeva, con altri accenti, anche per un’altra grande maestra e amica, Anna Maria Ortese) l’artista era il San Giorgio che deve liberare la città dal Drago dell’irrealtà: «L’arte è il contrario della disintegrazione (…) perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione, il suo solo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola, la realtà (che è) perennemente viva, accesa, attuale. (…) Logicamente, colui che è arrivato nella città per uccidere il drago, ovvero (tradotto in termini attuali) lo scrittore che si muove nel sistema come avversario irrimediabile, sa che nei punti estremi di crisi lo aspettano dei giorni precari; e che la sua vicenda, comunque, non è mai facile né dolce», anche se «la realtà, e non l’irrealtà, rimane il paradiso naturale di tutte le persone umane, almeno finché non si siano ancora trasformate nella struttura stessa visibile dei loro corpi. Non siano diventate, cioè, dei mutanti, come si dice in gergo atomico». E cos’era per la Morante l’irrealtà se non, sinteticamente e provocatoriamente, la bomba atomica e la televisione? I due massimi strumenti del potere di quegli anni – il secondo sostituito oggi dal digitale. L’atomica: la distruzione della vita attraverso le armi e in particolare l’arma che sembrò assoluta e lo è ancora, la più fredda e micidiale di tutte. (Si legga per allargare o approfondire il discorso il carteggio tra il filosofo Günther Anders, che si occupò forse più accanitamente e lucidamente di tutti di pace e di tecnica, ma, a partire da questo, anche di arte, con «il pilota di Hiroshima» Claude Eatherly). La televisione (oggi il digitale?): la distruzione della mente attraverso la comunicazione di massa usata a fine di dominio e non di emancipazione, non per la conoscenza di sé e del mondo ma per la loro dimenticanza, nell’acquiescenza alla visione che ne dà chi dirige il gioco, chi guida la danza. Non solo, dunque, la TV.

La storia delle arti è varia e complessa, ma non è di questo che parliamo qui, anche perché non sono certo io a poterlo fare. C’è un’arte astuta e una ingenua, una «finta» dominata soltanto dall’ambizione dell’artista e dalle febbri del mercato, e una «vera» che si inquieta e si interroga sullo stare nel mondo, sul senso da cercare e da dare al nostro passaggio. La parola «arte» ha subìto nel tempo, fino all’abominio del nostro, significati mutevoli corrispondenti alle forze dominanti di un’epoca. Dire il vero e il più vero, i nodi e le essenze, la debolezza e la forza, il nascosto e l’oltre, l’esprimibile e l’inesprimibile è stato un suo scopo, ma col tempo essa si è piegata a dire l’ovvio e l’egotistico in bella forma, e a decorare non a scavare, a intorpidire menti e coscienze rinunciando a destarle e ad arricchirle. Ha consolato in vari modi, quali accettabili e perfino necessari e quali opportunistici e fin disgustosi. Si è piegata al mercato, dall’Ottocento a oggi, in modi vieppiù spudorati e fin ignobili, assistita e promossa da teorici mistificanti (i critici! i professori!), a servizio di chi li paga e del proprio potere di mediazione tra chi vende e chi promuove, o compra, o consuma (sinonimi: sciupa, distrugge, logora). Oppure, peggio, piegando l’arte ai propri pregiudizi e alle proprie retoriche, e, come tanti artisti, alle proprie smanie di apparire, sapendo di non essere.

Turba e disturba troppo raramente, l’arte contemporanea – tanto meno quella che ostinatamente continua a vedersi come l’arte per eccellenza, quella derivata molto alla lontana da pittura scultura architettura. La più schiava di tutte le arti, la più superflua, effettistica, bassa, chiusa, con meno vie di fuga e di riscatto, anche se alcuni animosi refrattari continuano a voler praticare sperando di restituirle onore e dignità. Si può persino sostenere che è altrove che la maestria del visivo si è dislocata, nell’illustrazione non pubblicitaria o nei comics, riscoprendosi artigianale e per tutti (ma, imprevedibilmente, la sua tradizione non ha dato originalità e vitalità al disegno animato). (Sui dilemmi, o sulla deriva, dell’arte contemporanea, rimando volentieri alle riflessioni di Perniola e pochissimi altri, più filosofi che non critici, e invito a un sistematico boicottaggio dei critici-mercanti).

Più in generale: arte e comunicazione, perché no? Ma c’è una comunicazione sana (e santa) e una comunicazione criminale (quella che ha dimenticato e tradito le altre parole che a comunicazione somigliano e che derivano da uno stesso ceppo: «comunità», «comune», «comunanza», «comunione», «comunismo», «comunicabilità», «comunella»… quali sacre e quali profane ma originate da una tensione simile, da una simile aspirazione).

Il cinema, come la letteratura, come il teatro, è stato uno «strumento di comunicazione di massa» ambiguo ma vitale, anche perché nel corso del Novecento ha saputo parlare agli analfabeti di gran parte del pianeta. Ha fornito conoscenze e pensieri, ha agito sul conscio e sull’inconscio attraverso identificazioni e deviazioni. È riuscito, anche «dall’interno del sistema produttivo» abituale, a far passare messaggi radicali, ancorché minoritari, e perfino oggi che il cinema «ufficiale» è controllato dalle più forti delle censure, quelle del computo del denaro da investire e da ricavare, lascia talvolta passare messaggi e idee non condizionanti e manipolanti, non indirizzati al consenso. Un cinema «anarchico» è sempre stato raro, soprattutto quando i film rispondevano a un unico modello produttivo e distributivo; paradossalmente è meno raro oggi che il dialogo tra cinema e pubblico viene ferocemente controllato da schiere di uffici studi e dalla complicità di un’economia che considera la cultura e lo spettacolo come un punto forte, anzi fortissimo, della sua ricchezza e della pervasività dei modelli sociali veicolati, veicolabili. E questo perché lo sviluppo delle tecniche ha permesso a un numero enorme di aspiranti registi di fare i loro film, relativamente a basso costo, e dunque di controllarne linguaggio e contenuto. Il loro pubblico è scarso e occasionale, ma essi hanno la possibilità – se davvero hanno qualcosa da dire – di dirlo in libertà, e di portare i loro prodotti in giro per il mondo, da piccolo gruppo a piccolo gruppo di spettatori interessati al film e non all’evento. I più non hanno niente da dire di interessante e di necessario, ma alcuni sì, e riescono a dirlo entrando in contatto con i pochi spettatori che possono condividere la loro inquietudine. Sono liberi di dire, se hanno qualcosa da dire; e alcuni tra loro, pochi, hanno da esprimere una visione del mondo e dell’arte originale e nuova, e spesso – quasi per forza di cose – anarchica.


Per imperdonabile dimenticanza, non ho parlato nella prima edizione di questo libro dell’opera di Sergio Citti, forse perché ne sono stato amico e ho seguito da vicino le vicissitudini dei suoi ultimi film, uno dei quali, I magi randagi, degno, per la libertà della sua fantasia e per la sua poesia povera e sui poveri, di una tradizione classica, popolare, fiabesca e definitivamente anarchica. Andando all’indietro, Mortacci, Il minestrone, Due pezzi di pane, Casotto, Storie scellerate e Ostia sono titoli esemplari di un cinema altro, venuto dal basso, anti-borghese e a-borghese, non reggimentabile, definitivamente povero e libero. Più che di Pasolini, personaggio difficile e contraddittorio e che poteva suscitare sentimenti contraddittori, sono stato molto amico dei suoi due migliori amici, Laura Betti e Sergio Citti, e ho avuto da impararne e da capirne, anche su Pasolini. Dedico alla loro memoria le riflessioni che seguono.