Introduzione a ‘Mente locale’
2021-03-09
INDICE DEL LIBRO:
La fisica della bellezza è una sezione delle scienze naturali ancora ferma al Medioevo. Neanche i manipolatori dello spazio curvo hanno tentato di risolvere le sue equazioni. Ad esempio, tutti sanno che il paesaggio autunnale nei boschi del nord è composto dalla terra, da un acero rosso e da un tetraone dal collare. In termini di fisica convenzionale, il tetraone rappresenta solo un milionesimo della massa o dell’energia di un ettaro di terra; ma togli anche solo quel tetraone e tutto crollerà e con esso verrà persa un’enorme quantità di un qualche tipo di forza motrice.
Aldo Leopold
Pensare come una montagna. A Sand County Almanac
Quando chiesi a Paul K. Feyerabend consigli per la ricerca che stavo svolgendo sulla funzione cognitiva della nostra esperienza dello spazio, mi telefonò per dirmi che forse era meglio (e più divertente) se parlavamo di donne. Poi cominciò a darmi delle dritte sulle teorie della fisica rispetto allo spazio. Feyerabend viveva sulla collina di Berkeley, insegnava Filosofia della Scienza all’ucb ed era conosciuto per la sua insofferenza nei confronti dell’accademia, per la sua passione per l’opera lirica – era un ottimo cantante – e per alternare i suoi corsi su Aristotele a quelli sul jazz o sulle Black Panthers. La sua irriverenza era però pari alla sua incisività. Aveva già sconvolto il mondo della scienza con il suo Contro il metodo1 e il suo libro su Galilei. Veniva considerato (e lo è ancora) la «coscienza infelice» delle scienze esatte, soprattutto perché le paragonava ad altre discipline ritenute «meno esatte» come le arti e le stesse scienze umane. Non voleva però essere definito come un «relativista», ritenendo che lo stesso relativismo fosse una forma di dogmatismo.
Frequentava una cara amica, Grazia Borrini, con cui anni dopo si sposò, e insieme a lei organizzammo a Palermo un seminario di una settimana nella magnifica cornice di Villa Whitaker. Qualche tempo prima gli avevo chiesto una prefazione per il lavoro che avevo prodotto sull’esperienza dello spazio. E Paul, molto cortesemente, scrisse la prefazione che potete leggere in questo volume. A distanza di anni la rileggo e mi stupisco della fertilità delle sue intuizioni e di quanto io stesso ci abbia messo anni per intuire ciò che mi sembrava di aver compreso. «Mente locale» tradotto con esprit de finesse è una strada che porta molto lontano. Qualche tempo fa ero tornato a Matera per una riunione su «Matera capitale della cultura». L’edificio in cui si teneva l’incontro era nella parte nuova della città e dalle vetrate si godeva una magnifica visione dei Sassi – rivissuti, restaurati e vivi. Nel fermarmi a osservare quel paesaggio mi resi conto che non riuscivo a vederlo. Quando ponevo lo sguardo sui cortili, le scalinate, i molteplici livelli della città rupestre, sentivo come un disturbo agli occhi. L’insieme era talmente complesso e dettagliato – lì, di fronte a me, nella realtà – che non riuscivo a coglierlo. Come quando mi trovo di fronte a un quadro fiammingo: la densità del visivo è talmente forte da rendermi incapace di cogliere l’insieme. Mi perdo in quella visione e mi sembra impossibile cercare di cogliere quel che vedo.
Questa impressione mi è tornata alla mente rileggendo a distanza di trent’anni la prefazione di Paul K. Feyerabend. L’esprit de finesse è la constatazione che la realtà è talmente complessa nella sua definizione quotidiana che non se ne può avere una visione complessiva, ma nemmeno sintetica. È la vertigine che provate quando cominciate a capire che il mondo è complesso come esperienza locale, come compresenza del vostro corpo e della vostra mente con un luogo. Appena vi posate su di esso, appena il vostro guardare, sentire, toccare diventa stare, ecco che perdete la cognizione dell’insieme e ne acquistate un’altra. Ma non la acquistate subito, c’è un parametro temporale che si innesta tra voi e il luogo. È per l’appunto l’esperienza biografica che fate di un luogo, quando esso diventa parte della vostra biografia e viceversa.
«Mente locale», questa espressione magnifica della lingua italiana, mi rese a suo tempo chiaro questo processo. Era una definizione, ma di fatto non era che un’intuizione. Dietro queste due parole stava qualcosa che il mio lavoro cominciava a esplorare. Nel corso degli anni il lavoro di ricerca – ma anche la dimensione biografica, il passare di città in città, l’appartenere a molti luoghi – ha solo complicato quella intuizione, senza mai esaurirla. L’ho ritrovata quando ho scritto il mio attacco alla corporazione dei progettisti, in Contro l’architettura2 e in Contro l’urbanistica3. Mentre cercavo in quest’ultimo lavoro di definire cosa fosse il «vissuto» dell’esperienza degli abitanti in un luogo, una telefonata a Piero Zanini – ero a Singapore – mi aprì uno squarcio. Piero Zanini mi richiamava all’idea di «quelli che stanno», un’idea benjaminiana, che ben afferrava la differenza tra chi sta e ha una certa dimensione pratica e cognitiva di un luogo e chi invece lo vive dall’esterno, magari studiandolo per potervi intervenire. Era la dimensione del «vissuto», quella negata da architettura e urbanistica, e adesso, a vent’anni di distanza da Mente locale, stavo cercando di comprendere la sua radicale differenza.
In mezzo c’è stata l’esperienza dell’antropologia, quella fedeltà all’aspetto biografico, quel considerare importante lo spazio di una vita, delle vite in un luogo, in un ciclo legato a un’idea di presente. L’antropologia come qualcosa di radicalmente diverso dalla storia e dalla sociologia, il suo essere imbricata strettamente alle vite quotidiane, condivise, della gente che vive in un posto. In antropologia questo si chiama «indigenità», ma anche «cultura», «identità», definizioni approssimative e spesso troppo semplici per il processo che a me interessava.
Mente locale tornava così come preziosa illuminazione, difficile da ridurre a qualcosa di già conosciuto. Questo approfondimento era arrivato dopo che in una libreria di New York avevo trovato un testo curato da Michael Lambek, dove si usava l’espressione «ordinary ethics»4. Avevo allora chiamato Piero Zanini e gli avevo proposto di lavorare insieme sulla questione della «morale quotidiana». Mi sembrava che dentro a «ordinary ethics», di natura wittgensteiniana, si nascondesse una dimensione che valeva la pena esplorare. La domanda era: come fa la gente a stabilire regole di interazione quotidiana che consentano una convivenza, come fa a «creare» una morale che morale non è ma somiglia da presso a un «kit» pratico per non farsi e non fare male? Fu Piero Zanini, nelle magnifiche discussioni che portarono alla stesura di Una morale per la vita di tutti i giorni5 a suggerirmi che stavamo ancora occupandoci di mente locale: la morale quotidiana come una sfera identica a quella esperienza dello spazio, a cui si aggiungeva la relazionalità, la reciprocità, l’interrelazione con i presenti accanto a noi.
La natura di questa morale quotidiana era talmente poco astratta da non far pensare a una morale fissa, ma piuttosto a uno stratagemma quotidiano che aveva più i caratteri di un buon comportamento, di un galateo, di una maniera di arrotondare gli spigoli. Cominciammo a immergerci nella letteratura antropologica sull’argomento e così scoprimmo che c’era nella nostra intuizione qualcosa di vero. E soprattutto che – come per la mente locale – anche qui si trattava di qualcosa che si poteva afferrare solo rinunciando all’astrattezza di una «universalità» e accettando la concretezza della «singolarità». La mente locale, al pari della morale quotidiana è situata, singolare, specifica, evenemenziale, fluttuante, maledettamente contingente e grounded, ha cioè a che fare con l’immanenza e i «fatti della vita».
Il lavoro con Piero Zanini, divertentissimo sia nella ricerca che nelle discussioni a casa mia a Parigi, venne pubblicato da elèuthera nel 2012. Passò completamente inosservato – nessuna recensione – e la comunità antropologica lo ignorò, ma Marshall Sahlins decise di farlo tradurre e di pubblicarlo nella sua collana della Prickly Paradigm Press6. E ci mandò un messaggio complimentandosi per il tema scelto, così rognoso. Negli Stati Uniti la comunità accademica accolse con stupore il libro, ammettendo che era un ottimo contributo al tema, ma contestandone sdegnosamente la natura volutamente poco accademica. C’erano tutti i riferimenti giusti, ma non c’era l’ossequio ai big della materia, e soprattutto chi erano questi due italiani che si permettevano di infilarsi in un tema che era patrimonio delle tenures e delle chairs delle Università americane? In ben due recensioni si parlava di una nostra «nonchalance»7, che in inglese suona più come una minaccia che come l’elegante disinvoltura di un dandy. Nel frattempo, la stessa «ordinary ethics» prendeva un’altra direzione e diventava qualcosa di più «politically correct», trasformandosi da uno studio della morale quotidiana a uno studio di come rendere «morale» l’antropologia: davvero un peccato per un’antropologia che dovrebbe piuttosto andare verso una visione più complessa delle interazioni umane. Per noi invece quel lavoro ha rappresentato un passo avanti rispetto alla definizione di mente locale. Non a caso abbiamo pensato che l’ovvia continuazione sarebbe stato scrivere un libro sull’universalismo. La mente locale suscita immediatamente il suo opposto, ovvero la domanda se ci siano degli universali comuni all’umanità. Proprio perché l’antropologia è la disciplina che più vuole restare fedele alla dimensione biografica, ma che allo stesso tempo ha l’ambizione comparativista di chiedersi: «e… altrove?». Potrebbe essere interessante esplorare oggi se la vocazione immanentista e comparativista dell’antropologia non sia una buona cura per l’incapacità di visione delle scienze in generale. L’aver paura di costruire sistemi non può portare allo sbando rispetto alla contingenza da un lato e dall’altro all’ignoranza della complessità del «qui vicino».
La ricchezza della mente locale ha molte altre dimensioni da esplorare. Se è diventata la matrice di un approccio diverso alla comprensione dello spazio vissuto, e forse un pungolo per sminuire le presunzioni di architetti e pianificatori, rimane pur sempre una domanda aperta all’antropologia. Cos’è questa strana disciplina oggi? Quali sono i suoi strumenti? Dove sta la sua specificità? La mente locale può essere un grimaldello per scassinare le lentezze accademiche in campo antropologico, la povertà a cui essa si è ridotta (in ambito italiano). Ad esempio, nella dimensione di una lettura incentrata sull’esperienza fisica del mondo, essa apre una questione a cui la ricerca antropologica ha guardato in modo miope. Si tratta della relazione «fisica» legata alla filiazione e alla parentela. Qui, in un nodo strategico dell’antropologia, c’è un gap terribile. L’imbarazzo di fronte alla dimensione culturale della biologia fa sì che non si riesca ad andare oltre all’esame strutturalista delle strutture della parentela. Lo stesso Marshall Sahlins, nei suoi Un grosso sbaglio: l’idea occidentale di natura umana8 e La parentela, cos’è e cosa non è9, non sfiora l’argomento. Il timore di evocare improprie relazioni di una certa etologia e di una certa sociobiologia blocca una visione d’insieme. Eppure, nella filiazione c’è una questione fondamentale che nelle monografie etnografiche viene spesso colta. Si tratta della questione della somiglianza. Bronisław Malinowski la ritrova nelle Trobriand. Qui sono i padri a dare la forma ai figli. Janet Carsten10 nota che l’unica definizione attinente alla filiazione è un passaggio di umori tra generazioni. In maniera più benjaminiana, si può dire che fare figli o essere figli significa fare somigliare qualcuno a se stessi o cercare di somigliare a qualcuno. I corpi sono la materia dove viene modellata la somiglianza. In questo processo c’è poco di biologico (ma c’è), e moltissimo di culturale. Non tenerne conto fa parte del disembodiment a cui l’antropologia rischia di abbandonarsi nelle aule delle università.
La somiglianza è un’altra dimensione della mente locale, è quella che concerne la trasmissione della mente locale tra le generazioni. Cosa sono quell’insieme di espressioni facciali, quelle andature, quelle posture, quelle tecniche del corpo che finiscono per sagomarlo, se non la conseguenza del lavoro che una generazione ha fatto nella relazione tra i propri corpi e un luogo, un clima, le sue risorse? Nel mondo greco classico le persone venivano riconosciute per i tratti facciali e per l’andatura. I corpi trasmettono ad altri corpi la propria esperienza di un luogo, la propria mente locale. è quello che scrivevo in Saperci fare, corpi e autenticità11 in un capitolo specifico, «Somigliare agli autentici», e nell’insieme del libro, che era un’applicazione delle «tecniche del corpo» di Marcel Mauss, ampliate al sonno, la padronanza di sé, la propriocezione maschile, la seduzione, la somiglianza. Allora avevo cercato di instaurare un dibattito con chi si occupava, come Leonardo Piasere, di riflettere sulla parentela e sulla filiazione, ma la provocazione venne lasciata cadere. Ritengo che adesso i tempi siano più maturi per riprendere la ricerca in questo campo.
In qualche modo, anche il mio lavoro sull’identità maschile, Modi bruschi, antropologia del maschio12, si muoveva nella stessa direzione. L’identità di genere è una declinazione specifica della mente locale e per questo è difficile ridurla a una definizione universale, o anche alla sua condanna. Non si è maschi o femmine o lgbt se non in una dimensione legata a un luogo e un tempo biografico. Tutto il resto è ideologia e in quanto tale reazionaria, sia che si tratti di tentativi di ancorare le identità sessuali a ciò che conosciamo, sia che se ne vogliano definire in chiave queer generalista le regole.
Infine la mente locale ha una componente che è stata riconosciuta dagli epistemologi. E qui torniamo all’esprit de finesse di Feyerabend. C’è nella mente locale una funzione del comprendere, dell’encompassing, che è molto diversa da una semplice organizzazione della sensibilità. C’è una possibilità di cogliere la realtà come qualcosa che fa di noi stessi il luogo di quella realtà. Nel con-vivere, con-crescere, co-evolverci o co-decadere con un luogo noi diventiamo quel luogo stesso. Finiamo per somigliargli e per farlo somigliare a noi. è la poesia di Wallace Stevens all’inizio del libro. Mente locale è l’accadere biografico di noi stessi in un situarci. Ma la dimensione epistemologica sta proprio qui. C’è una maniera non solo di esperire il mondo, ma di comprenderlo, classificarlo, elaborarlo. è la «conoscenza locale» di chiave geertziana, ma anche il «pensiero del bricoleur», o se volete il «pensiero selvaggio». Si tratta di un pensiero che definire «pratico» è riduttivo. E non bastano le intuizioni di Pierre Bourdieu sul «senso comune». Nella sua idea di habitus c’è il prodotto della mente locale, ma non il suo processo vitale, il suo essere chiave attiva dello stare in un luogo. è quello che James C. Scott chiama mētis rifacendosi a un termine della Grecia classica su cui molto hanno lavorato Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne: «Ben lungi dall’essere rigida e monolitica, la mētis è invece plastica, locale e divergente»13.
Sarebbe interessante interrogare oggi le neuroscienze rispetto a questa facoltà, laddove i «neuroni specchio» sono il pericoloso aping del comprendere umano, ovvero il ridurre la conoscenza a contatto (con persone, animali, cose, natura), a un puro scimmiottamento. Probabilmente la mente locale ha una dimensione originaria da cui deriva il comprendere il mondo. E nonostante i quasi trent’anni passati dalla sua nascita, Mente locale è ancora ai suoi primi passi.
Come mi ricorda Piero Zanini, uno dei primi contributi di Mente locale è stata la ripresa di molto lavoro sulla geografia, sulla peculiarità dei luoghi, sulla natura di certi caratteri geografici – montagne, stretti, laghi – come «numeri primi» che modellano il nostro modo di capire il mondo. Con Piero Zanini abbiamo scritto un libro sugli stretti di mare14 per raccontare appunto quello strano dispositivo a cinque uscite che è uno stretto: passare da una costa all’altra, passare da un mare all’altro, restare in mezzo come Ulisse tra Scilla e Cariddi. Oggi, soprattutto in Francia, c’è una riscoperta dell’importanza della geografia come irriducibilità del mondo a una visione cartesiana: il mondo non può essere mappato o tracciato su restituzioni planimetriche, non può essere organizzato in algoritmi e in stratificazioni simulate. La sua presenza è imprevedibile, come siamo costretti in questo periodo a renderci conto. La reazione violenta che la natura fa a quello che le abbiamo fatto riprende una dimensione che avevamo dimenticato: essa non ci appartiene, mentre noi le apparteniamo. C’è, come dice Michael Taussig1515, la scoperta che la catastrofe ambientale è l’evidenza della risposta attiva della natura e della imponderabilità delle sue manifestazioni e ragioni. Un ritorno a un timore della natura che forse è l’unica sana conseguenza del disastro attuale. Taussig parla di un reincanto della natura, in contrapposizione alla banalità del «disincanto del mondo» che per tanto tempo è stata la lettura del carattere della modernità. Il punto è che questo incantesimo non è solo un incanto, ma è anche uno spell, un fattura su di noi, una predazione, una violenza: la natura ci inghiotte e ci distrugge, e la conseguenza è quello che in molte lingue romanze è il contrario di «incanto», cioè lo scanto, l’espanto, lo spavento, la paura. Oggi ne viviamo in pieno la dominanza, in quell’assoluta incertezza con cui la globalizzazione ci ha restituito un «tenersi insieme» con la natura segnato dalla circolazione dei suoi virus, dai suoi tornado, dal cambiamento climatico e dai cascami di una tecnologia che ci mostra il suo disastroso lato nascosto. Mente locale significa oggi leggere nella vita quotidiana le conseguenze di tutto questo, ma anche cominciare a comprendere che è dal qui, dalla prossimità, che è possibile magari non cambiare le cose, ma cercare di aggiustarle per quanto possibile. Anche la speranza ha una dimensione che a livello di mente locale è più percorribile.
Note all’Introduzione
P.K. Feyerabend, Contro il metodo, abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza [1975], trad. it. Feltrinelli, Milano, 1979. P.K. Feyerabend, Addio alla ragione [1987], trad. it. Armando, Roma, 1990.↩︎
F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.↩︎
F. La Cecla, Contro l’urbanistica, la cultura delle città, Einaudi, Torino, 2015.↩︎
M. Lambek (a cura di), Ordinary Ethics: Anthropology, Language and Action, Fordham University Press, New York, 2010.↩︎
F. La Cecla, P. Zanini, Una morale per la vita di tutti i giorni, elèuthera, Milano, 2012.↩︎
F. La Cecla, P. Zanini, The Culture of Ethics, trad. eng. Lydia Cockrane, Prickly Paradigm Press, Chicago, 2014.↩︎
J. Faubion, «The Culture of Ethics» by Franco La Cecla and Piero Zanini, recensione apparsa su «Anthropological Quarterly», 2014, vol. 87, n. 4, pp. 1311-1314; R. Llera Blanes, «The Culture of Ethics» by Franco La Cecla and Piero Zanini, recensione apparsa su «Social Analysis: the International Journal of Anthropology», Autumn 2015, vol. 59, n. 3, pp. 135-136.↩︎
M. Sahlins, Un grosso sbaglio, l’idea occidentale di natura umana, trad. it. elèuthera, Milano, 2010.↩︎
M. Sahlins, La parentela, cos’è e cosa non è [2013], trad. it. elèuthera, Milano, 2014.↩︎
J. Carsten, After Kinship, Cambridge University Press, Cambridge, 2012.↩︎
F. La Cecla, Saperci fare, corpi e autenticità, elèuthera, Milano, 2008.↩︎
F. La Cecla, Modi bruschi, antropologia del maschio, elèuthera, Milano, 2000.↩︎
J.C. Scott, Lo sguardo dello Stato, trad. it. elèuthera, Milano, 2019; M. Detienne, J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, trad. it. Laterza, Roma, 2005.↩︎
F. La Cecla, P. Zanini, Lo stretto indispensabile, storie e geografie di un tratto di mare limitato, Bruno Mondadori, Milano, 2004.↩︎
M. Taussig, The Mastery of Non-Mastery in the Age of Meltdown, University of Chicago Press, Chicago, 2020.↩︎