Prologo a 'Dall’urbanizzazione alle città'
Libro
Dall'urbanizzazione alle città
Bookchin
Cartaceo 22,80 € E-book 9,99 €
gio 06 lug 2023
INDICE DEL LIBRO:
Prefazione di Debbie Bookchin
Prologo
CAPITOLO PRIMO L’urbanizzazione contro le città
CAPITOLO SECONDO Dalla tribù alla città
CAPITOLO TERZO La creazione della politica
CAPITOLO QUARTO L’idea di cittadinanza
CAPITOLO QUINTO Modelli di libertà civica
CAPITOLO SESTO Dalla politica all’arte di governo
CAPITOLO SETTIMO L’ecologia sociale dell’urbanizzazione
CAPITOLO OTTAVO La nuova agenda municipale
APPENDICE Municipalismo confederale: una visione d’insieme
Questo libro non è l’ennesima riflessione sulla pianificazione urbanistica, e nemmeno primariamente una critica della vita urbana, sebbene questo sia uno dei temi principali affrontati nel testo. Più di ogni altra cosa mi propongo di formulare una nuova politica, e nello specifico una politica municipalista confederale, in contrasto con le forme di governo centralizzate e nazionaliste. Come indicato dal titolo del capitolo conclusivo, «La nuova agenda municipale», intendo presentare un’argomentazione in favore di un’estensione del potere centrato sul cittadino attraverso confederazioni di villaggi, borghi e città, a scapito dello Stato-nazione e, come esito ultimo, in vista della sua eliminazione.
In un’epoca in cui lo Stato-nazione è divenuto un fenomeno ambiguo, tanto che spesso la sua autorità è soverchiata da grandi società multinazionali, il cittadino – così come è stato sino a oggi definito – sta perdendo ogni senso di identità o potere sulla sua vita quotidiana. Questo vasto sistema politico-economico, dotato di vita propria, minaccia di eliminare del tutto il controllo già vacillante che le persone comuni possono esercitare sulla propria esistenza e il proprio futuro. È come se una macchina artificiale – capace di governarsi da sé e onnipervasiva – stia ormai soppiantando gli umani che l’hanno creata.
I problemi determinati dalla perdita di potere del cittadino sono già stati sviscerati da una quantità di libri e saggi. Ma persino la letteratura più sensibile al problema finisce quasi sempre per offrire soluzioni adattative. La gran parte degli autori che si sono occupati di città e cittadini ha suggerito vari modi di operare entro i parametri stabiliti dallo Stato-nazione, come se la sua sostituzione con qualsiasi altra forma di organizzazione politica trascendesse l’ambito del possibile. Quasi tutti i sostenitori di una «democrazia» forte o di varie tipologie di «repubblicanesimo civico» – entrambi concetti il cui obiettivo presunto sarebbe di incrementare la partecipazione del cittadino – accettano lo Stato-nazione e il suo apparato burocratico come un dato di fatto ineliminabile. Tipicamente ci viene detto che la società è di gran lunga troppo complessa o troppo globalizzata perché sia ancora possibile fare alcunché senza un apparato statuale. Di conseguenza, l’argomentazione meglio intenzionata è quella che punta a uno «Stato minimo», idealmente contenuto da una società civile forte.
Viceversa, se la storia nella sua interezza – dai primi reperti fino al tempo presente – ci ha dimostrato qualcosa, è il fatto innegabile che il potere dello Stato è corrosivo. Nessuno dei grandi leader rivoluzionari, anche quelli con i più alti ideali e principi, ha mai convissuto in modo agevole con gli effetti corruttivi del potere statuale: per lo più hanno finito per soccombere o li hanno coscientemente replicati. L’esercizio del potere statuale, per quanto breve, ha distrutto l’integrità morale dei più convinti socialisti, comunisti e anarchici. Le rivoluzioni inglese, francese, russa e spagnola forniscono una prova inequivocabile della capacità del potere statuale di corrompere – una capacità che non possiamo più considerare alla stregua di un truismo morale, ma che va vista, a causa della sua natura implacabile, come un dato di fatto. Perseguire il potere dello Stato – o «impadronirsene», per usare il linguaggio del radicalismo tradizionale – equivale a garantire che quel potere persista sotto forma di manipolazione elitista, che si rafforzi e che venga esercitato in modo brutale come strumento da contrapporre a una democrazia popolare.
Una politica municipalista libertaria e confederale rappresenta dunque l’approccio migliore per prevenire qualunque «conquista» del potere statuale da parte di un’élite, cercando al contempo di accrescere lentamente il potere delle municipalità – attribuendo inizialmente un potere morale alle assemblee municipali, come illustrato nel capitolo conclusivo di questo libro. Il municipalismo libertario e confederale punta a espandere le istituzioni democratiche che ancora sopravvivono in ogni sistema repubblicano moderno aprendole alla più vasta partecipazione pubblica possibile in quel dato momento. Da qui lo slogan che ho proposto: «Democratizzare la repubblica! Radicalizzare la democrazia!». Non si tratta di «conquistare» il potere dello Stato – per poi conservarlo gelosamente in eterno – bensì di espandere il potere popolare finché tutto il potere apparterrà alle istituzioni della democrazia partecipativa.
Salvo rassegnarci definitivamente all’idea che la società attuale – competitiva, acquisitiva e agonistica – rappresenti la «fine della storia» essendo il migliore sistema sociale mai realizzato dall’umanità nel lungo arco della sua storia, io propongo di contrapporre il potere pubblico all’attuale potere oligarchico. Con questo intendo che dobbiamo contrapporre un emergente potere politico, basato su una democrazia che sia diretta espressione dei cittadini, al potere statuale esercitato dai vari parlamenti, ministeri e istituzioni repubblicane, per non parlare delle forme apertamente autoritarie del dominio coercitivo.
Chiarisco che con il termine «politica» non intendo l’«arte di governo», il significato tipicamente attribuito alla politica e ai suoi praticanti, i politici di professione. E nemmeno considero lo Stato semplicemente come una forma di amministrazione; piuttosto, lo vedo come un apparato professionale basato sul monopolio della violenza e impiegato dalle classi dominanti per controllare le moleste classi subalterne. In modo analogo, quando uso il termine «cittadini» non intendo il «corpo elettorale», e nemmeno impiego la parola «democrazia» per indicare un sistema di «governo rappresentativo» – un’espressione ridotta a clamoroso ossimoro nella variante «democrazia rappresentativa». In questo libro il mio impiego dei termini «politica», «cittadino» e «democrazia» rispecchia il significato originario e classico che avevano in passato – un significato che oggi hanno quasi interamente perso.
Per recuperare la politica, la cittadinanza e la democrazia dobbiamo non solo recuperare il nostro concetto di città come luogo in cui lavoriamo e siamo impegnati in una consociazione quotidiana, ma dobbiamo anche vederla come un’arena pubblica, in cui ci mescoliamo agli altri per discutere di affari pubblici, per esempio i modi per migliorare le nostre vite in quanto esseri civici. Molte piazze delle città antiche medievali e rinascimentali – spesso replicate un po’ ovunque nei quartieri di città come Firenze e Venezia – erano luoghi in cui i cittadini si aggregavano e discutevano della cosa pubblica, tenendo riunioni aperte per prendere decisioni sulle questioni di interesse generale. Questo processo di articolazione e riarticolazione civica non è stato sufficientemente incorporato nella nostra mentalità, mentre bisogna riconoscerne l’importanza se vogliamo realizzare una nuova politica fondata su una cittadinanza reale.
Il che solleva il problema di cosa sia effettivamente questa nuova politica e perché la ancoro al recupero della vita cittadina invece che agli Stati-nazione. Le risposte più tipiche alla domanda su cosa sia una città sono per lo più di natura spaziale e demografica, in quanto viene principalmente intesa come una superficie densamente popolata, occupata da una comunità strettamente interconnessa. La mia definizione di città non può essere ridotta a una semplice proposizione come questa. Al pari della razionalità, della scienza e della tecnologia, che considero definite dalle rispettive storie, io vedo la città come la storia della città. Ovvero come uno sviluppo cumulativo – o dialettico – di alcune cruciali potenzialità sociali e delle loro fasi evolutive, tradizioni, culture e peculiarità comunitarie.
Secondo la mia tesi, la città primeva nasce quando si configura come il superamento creativo del retaggio essenzialmente biologico dell’umanità, come la concreta «metamorfosi» in una nuova forma sociale di evoluzione. Nelle sue forme iniziali, la città fu l’arena par excellence per riconfigurare i rapporti umani, passando dalle aggregazioni basate su caratteri biologici, come la parentela, ad altre basate su dati prettamente sociali, come la prossimità abitativa; per l’emersione di forme istituzionali progressivamente più secolari; per il rapido proliferare di relazioni culturali spesso innovative; e per l’universalizzazione di attività economiche precedentemente legate all’età, al genere e alle distinzioni etniche. In breve, la città è stata l’arena storica in cui non casualmente le affinità biologiche si sono trasformate in affinità sociali, rendendola il singolo fattore più rilevante per trasformare un popolo etnicamente determinato in un corpo secolare di cittadini, una tribù campanilista in una civitas universale in cui, con il tempo, lo «straniero» e l’«outsider» potevano diventare membri della comunità senza dover comprovare alcun legame di sangue, reale o mitico, con un antenato comune. Così, non solo i rapporti politici hanno rimpiazzato le parentele, ma il concetto di humanitas condivisa ha rimpiazzato l’esclusività del clan e della tribù, le cui pretese biosociali di essere «il popolo» avevano spesso escluso l’«outsider» configurandolo come «Altro» disorganico, esogeno e spesso minaccioso.
La città è stata dunque, storicamente, il luogo in cui sono emersi concetti universalistici come quello di «umanità», e tuttora ha il potenziale di diventare il luogo in cui riaffermare i concetti di autogestione politica e cittadinanza, in cui rielaborare nuovi rapporti sociali e una nuova cultura civica. I passi che hanno condotto dal clan di consanguinei, dalla tribù e dal villaggio alla polis, o città politica; dai fratelli e dalle sorelle di sangue, che acquisivano le proprie prerogative per nascita, a cittadini almeno idealmente liberi di decidere quali responsabilità civiche attribuirsi e quali affinità privilegiare sulla base della propria ragione e dei propri interessi secolari – ebbene, tutti questi passi costituiscono una valida definizione di città.
Certo, le città possono sorgere e crollare. Possono a loro volta essere campaniliste. Possono godere di una sorte favorevole per un certo periodo e poi, a causa dei più disparati conflitti, scomparire del tutto, come dimostrano i grandi tumuli delle antiche città sepolte in Mesoamerica e Mesopotamia. Ma una volta saldamente radicata nella storia dello sviluppo sociale, la città ha acquisito una realtà concettuale che persiste ancora oggi, e che è ancora passibile di metamorfosi a prescindere dalla scomparsa o dalla stagnazione di talune città singolarmente prese. Di fatto, la città è divenuta una tradizione storica – spesso altamente morale – che tende a potenziare non solo specifici tratti umani e specifici concetti di libertà, ma anche un’idea di comunanza civica che corrode i vincoli campanilistici del legame di sangue e le distinzioni di status per i generi, i gruppi d’età e l’appartenenza etnica.
In Dall’urbanizzazione alle città intendo non solo esplorare l’enorme valore delle città, grandi e piccole, in quanto straordinarie creazioni umane, ma anche esaminare da una prospettiva storica le loro origini, il ruolo che hanno svolto nell’affermarsi dell’umanità come specie unica e altamente creativa, e la promessa che offrono oggi come spazi per un nuovo sistema politico e sociale. Di conseguenza ne analizzo l’evoluzione, le forme assunte nel corso del tempo, il funzionamento (che non si limita a essere un semplice mercato o un centro di produzione), e le modalità di interazione dei loro cittadini per dar vita a una forma di ciò che il grande pensatore romano Cicerone chiamava «seconda natura» (cioè una natura creata dagli esseri umani), capace di una coesistenza pacifica con la «prima natura», cioè l’ambiente naturale ordinariamente inteso. Pertanto i cittadini sono parte del mio discorso quanto la città stessa, perché nella sua forma migliore la città è stata un’unione etica di persone, una comunità morale oltre che socioeconomica, e di certo non è stata solo un fitto agglomerato di strutture il cui unico scopo è fornire merci e servizi ad abitanti anonimi.
Io intendo redimere la città, esplorarla non come un fenomeno corrosivo ma come una manifestazione unica di vita comunitaria, umana, etica ed ecologica, i cui membri sono spesso vissuti in equilibrio con la natura. Non solo, ma hanno creato istituzioni capaci di affinare la consapevolezza umana, promuovere la razionalità, elaborare una cultura secolarizzata, potenziare l’individualità e dare vita a forme istituite di libertà. In un’epoca in cui le funzioni tradizionali della città appaiono orrendamente sfigurate dall’ascesa delle megalopoli, dai politici di professione, dall’onnipresenza dello Stato-nazione, dal crescente controllo autoritario esercitato sull’individuo (checché ne dica l’usurata retorica elettorale con i suoi vuoti proclami sulla democrazia), è vitale indagare il passato per individuare gli elementi del comunalismo autentico, coglierli nella loro forma non adulterata, e riformulare una sintesi dei loro attributi migliori, in vista di una società più razionale di quelle che l’umanità ha conosciuto nella sua storia.
Forse da questa sintesi potremo trarre un senso di speranza, di prospettiva, e anche le basi per un’azione concertata. Lasciare che i grandi attributi civici languiscano nel passato, mentre i «futuristi» cibernetici e postmoderni proiettano l’irrazionalità del presente sul secolo a venire, equivarrebbe a permettere che l’ideale di una società razionale – quella che i grandi rivoluzionari di fine XIX e di inizio XX secolo chiamavano la «Comune delle Comuni» – sparisca dalla memoria delle generazioni future1.
Merita precisare che sono fin troppo consapevole dei difetti del passato, pochi dei quali, ahimè, sono stati superati fino in fondo. La polis ateniese era gravata da schiavismo, patriarcalismo e imperialismo, tanto che ne fu infine avvelenata. Le migliori tra le città democratiche del Medioevo erano in parte oligarchiche e con il tempo lo divennero del tutto. Le città del Rinascimento e dell’Illuminismo presentavano forti tratti autoritari ed erano repubbliche civiche, salvo in quei pochi casi – in particolare le cittadine del New England durante la rivoluzione americana e Parigi durante la rivoluzione francese – in cui si produssero straordinari avanzamenti delle istituzioni democratiche.
Ma presa nel suo insieme, questa è una storia condivisa che non si deve e non si può ignorare. Inoltre, la mia esplorazione della politica (nel senso del termine impiegato qui) non riguarda una città specifica, che si presume esemplare, o le sue istituzioni. Ciò che mi interessa è il concetto ellenico e medievale di città come unione etica di cittadini. Infatti, la mia è una visione prevalentemente etica di ciò che una città dovrebbe essere, che non si limita dunque a ciò che le città sono state in questo o quel periodo storico.
Il termine dovrebbe è fatto della stessa materia di cui è fatta l’etica, con la differenza che nella mia accezione dovrebbe non è un credo regolativo formale o arbitrario, bensì il prodotto di un ragionamento, di un processo razionale deduttivamente derivato dalle potenzialità umane di sviluppare, sia pure con mille tentennamenti, comunità mature, consapevoli, libere ed ecologiche. Chiamo questa integrazione del meglio della natura «prima», o biologica, e della natura «seconda», o sociale, «terza» natura o natura libera, cioè una comunità etica, su scala umana, che stabilisce un’interazione creativa con il suo ambiente naturale. Grazie a essa, gli esseri umani, rispondendo in modo consapevole a un senso del dovere nei confronti dell’integrità ecologica del pianeta, mettono le capacità razionali e comunicative tipiche della propria specie, la sua ricchezza sociale, immaginativa ed estetica, al servizio del mondo sia umano sia non umano2.
Questa etica della complementarità, come la chiamo io, potrebbe rappresentare il culmine sia di eoni di evoluzione naturale (orientando il comportamento umano nelle città di una società ormai ecologica), sia dello sviluppo della ragione stessa (perseguendo gli obiettivi razionali stabiliti da coloro che vivono nelle nuove reti urbane ecologicamente orientate, ovvero da cittadini divenuti esseri autenticamente razionali). Perché anche la cittadinanza è un processo, come i Greci avevano già capito, un processo che comporta la trasformazione sociale e individuale delle persone in partecipanti attivi nella gestione della comunità.
Questo libro non si impegna soltanto a fornire lo schema teorico di una nuova politica, ma promuove al contempo una prassi consapevole che i municipalisti confederali possono portare nell’attività elettorale locale. Come programma minimo, una tale pratica punta ad alterare, laddove possibile, gli statuti di città e cittadine al fine di espandere la democrazia civica e fondare strutture dal basso che all’inizio saranno forse costrette a richiamarsi all’autorità meramente morale di una nuova cittadinanza per contrastare e auspicabilmente scalzare il potere crescente dello Stato-nazione sulla vita pubblica.
Come ho già sottolineato, nessuno degli esempi riportati nelle pagine seguenti rappresenta un modello, un «paradigma» o un’immagine ideale di ciò che potremmo o dovremmo realizzare in futuro. Sono tutti citati per evidenziare non ciò che hanno rappresentato in un dato momento storico, ma ciò che di innovativo sono riusciti a realizzare, ed è indubbio che ciascuno di essi presenta delle notevoli pecche – tipicamente, divisioni e antagonismi di classe ed esclusione delle donne (e spesso anche dei non possidenti) dall’attività pubblica. Tuttavia dimostrano, in modo convincente, che le istituzioni di democrazia diretta non solo sono emerse in città di notevole complessità per il loro tempo, come la Parigi del XVIII secolo, ma che hanno oltretutto funzionato in modo straordinariamente efficace, finché non sono state fisicamente annientate dalle oligarchie e dai regimi autoritari3. A determinare il fallimento di queste istituzioni popolari non è stata una loro debolezza intrinseca o il loro utopismo, ma il fatto che i loro leader hanno disatteso al cruciale compito di organizzare forti movimenti di difesa delle libertà civiche. Al contrario, molti di quei leader hanno avuto la tendenza a comportarsi da solisti, appellandosi a una massa informe di sostenitori dotati di una conoscenza solo limitata dei conflitti che li assediavano e di idee troppo rudimentali per fare buon uso delle possibilità a disposizione.
Da qui deriva lo spazio considerevole che ho dedicato alla necessità di un’educazione alla cittadinanza, o paideia, e al bisogno di sviluppare una coscienza sociale generalizzata, una coerenza teoretica come elemento essenziale della lotta municipalista. In larga parte, questa coerenza poggia sulla consapevolezza che la realizzazione della Comune delle Comuni, cui hanno a lungo aspirato tanto i socialisti quanto gli anarchici, implica una politica che non scenda a patti. Poggia cioè sull’idea di creare un fondamentale potere duale in cui le municipalità indipendenti e confederate emergano in opposizione netta allo Stato-nazione centralizzato. E come continuerò a ribadire nel corso del libro, ogni e qualsiasi potere delle municipalità confederate potrà essere acquisito solo a scapito dello Stato-nazione, così come ogni potere dello Stato-nazione potrà essere acquisito solo a scapito dell’indipendenza municipale.
Nel campo di forze che si crea tra i due, o le municipalità e le loro confederazioni incrementeranno il proprio potere sottraendolo allo Stato-nazione, oppure sarà lo Stato-nazione a incrementare il suo potere riducendo l’autorità delle municipalità e delle loro confederazioni. Pertanto, sarebbe assurdo per il movimento municipalista presentare candidati alle cariche politiche regionali, statali o nazionali perché farlo smentirebbe la pretesa di perseguire una democrazia dal basso o partecipativa, se non altro perché qualsiasi carica oltre il livello municipale è quasi per definizione una forma di rappresentanza piuttosto che di partecipazione. E, cosa ancora più significativa, ignorerebbe il fatto cruciale che i candidati dei municipalisti confederali corrono per le cariche locali precisamente in contrapposizione alle cariche e istituzioni regionali, statali o nazionali. L’istanza municipale confederale è contemporaneamente un’istanza di opposizione allo Stato-nazione in tutte le sue forme e di radicale rigetto dell’illusione che il controllo dei corpi legislativi statali «dall’alto» sia un prerequisito per il conseguimento del potere locale «dal basso».
Puntare a cariche regionali, statali o nazionali non solo allenterebbe la tensione tra il «vertice», regno dell’arte di governo, e la «base», regno della politica autentica, ma indebolirebbe anche la funzione educativa della politica presso la base, l’unico ambito possibile per una nuova politica. Invece di raggiungere un numero maggiore di persone, le campagne dei candidati in lizza per i vertici dello Stato offuscherebbero la distinzione tra politica e arte di governo, tra partecipazione e rappresentanza, tra ambito confederale e ambito nazionale. Di conseguenza, la tensione tra queste due sfere opposte di attività risulterebbe indebolita; la natura autenticamente democratica dell’educazione politica, che si basa sul rapporto faccia-a-faccia tra vicini e tra cittadini, verrebbe rimpiazzata dai rapporti mediati da Internet; e la spinta morale ed educativa di un approccio municipalista, comunalista o confederale, andrebbe perduta. Una «Comune delle Comuni» non è una «Repubblica dei Comuni», né un Commonwealth. Anzi, in quanto confederazione delle municipalità si oppone con intransigenza a ogni tentativo specioso che tenti di ridurla a una Repubblica o a un Commonwealth.
A maggior ragione, bisogna conservare la distinzione tra politica e arte di governo, per garantire che mai nessuna convenienza o urgenza pragmatica – fosse pure soltanto quella di diventare noti su scala nazionale – sia motivo sufficiente e legittimo per adottare strategie parlamentari volte a realizzare presunti fini municipalisti. Anzi, l’impatto più efficace dell’educazione municipale deriva proprio dal fatto che è municipale, cioè può darsi solo nel faccia-a-faccia e può estendere la sua portata solo mediante un movimento che cerchi di raggiungere tutte le municipalità di una data regione o nazione. È un tipo di educazione che si fonda sulla fiducia, sull’interazione personale, sul confronto concreto, e che promuove lo sviluppo di una democrazia diretta. Il suo vero punto di partenza è il piccolo gruppo, l’associazione di isolato, i media di quartiere e i discorsi diretti tra le persone.
Dall’urbanizzazione alle città lancia dunque un appello per la creazione di nuovo schema teoretico in cui sviluppare una nuova politica (nel significato ellenico del termine, non in quello parlamentare proprio dello Stato-nazione). Un appello per mettere a punto anche una pratica consapevole grazie alla quale i municipalisti confederali possano impegnarsi in un’attività elettorale locale capace di modificare gli statuti di città e cittadine, di riconfigurare le istituzioni civiche affinché offrano uno spazio pubblico di democrazia diretta, e di ricondurre i mezzi di produzione sotto il controllo del cittadino – anche se non nelle varianti particolaristiche del «controllo operaio», che tendono a degenerare in forme di capitalismo collettivistico, o nelle varianti della produzione nazionalizzata, che rafforzano l’autorità dello Stato conferendogli un maggiore potere economico.
La città non è destinata a scomparire. È da millenni una parte cruciale della nostra storia, nonché un fattore rilevante nella formazione della mente umana. Stando così le cose, potremmo mai ignorarla? Ma questo significa che siamo tenuti ad accettarla così com’è – un’entità che peraltro rischia di essere obliterata da un’urbanizzazione incontrollata che minaccia anche le campagne? Oppure possiamo dotarla di un nuovo senso, di una nuova politica, di una nuova direzione, e offrire nuovi ideali di cittadinanza, molti dei quali in larga parte già realizzati nel passato?
La decisione di scrivere questo libro è nata dalla mia convinzione di ecologista sociale che vi sia un bisogno pressante di concepire la città – e più in generale la municipalità, se vogliamo includere anche i centri minori – come un’impresa ecologica e non soltanto logistica o strutturale. Essa va dunque studiata esplorando i tempi e i modi in cui si sono storicamente sviluppati quei concetti di dominio e di gerarchia che hanno portato ai problemi – sia sociali sia naturali – che oggi incombono su di noi. La mia speranza è infatti che da queste pagine il lettore tragga non solo una comprensione quanto più profonda possibile del potenziale di libertà rappresentato dalla città, ma anche un’agenda programmatica per la creazione di una nuova politica, capace di combinare gli alti ideali della cittadinanza partecipativa al riconoscimento di ciò che la città può diventare nel contesto di una società razionale, libera ed ecologica.
Institute for Social Ecology, Burlington, Vermont, febbraio 1995
Note al Prologo
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Proprio per scongiurare questa perdita ho scritto una storia delle rivoluzioni popolari: The Third Revolution: Popular Movements in the Revolutionary Era [Cassell, London-New York, 1996]. È vitale preservare le vicende, le conquiste e la promessa di questi movimenti per le generazioni future.↩
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Ribadisco il punto per rispondere ad alcune critiche che ho ricevuto sulla mia presunta presentazione dell’antica Atene come «modello» o «paradigma». Queste critiche mi obbligano a sottolineare il fatto che la città autenticamente razionale, libera ed ecologica di cui parlo deve ancora venire e che tutti i miei riferimenti alle città storiche hanno per unico scopo quello di dimostrare che alcune straordinarie istituzioni esistite in passato – e soltanto quelle istituzioni – meritano di essere studiate con la più grande attenzione.↩
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In proposito, vedi in particolare i miei testi: The Ecology of Freedom: The Emergence and Dissolution of Hierarchy, AK Press, Oakland, 2005; prima edizione Cheshire Books, Palo Alto, 1982 [trad. it. L’ecologia della libertà, elèuthera, Milano, 2023] e The Philosophy of Social Ecology: Essays in Dialectical Naturalism, AK Press, Chico, CA, 2022.↩