In difesa dell’anarchismo

Prefazione all’edizione castigliana di ‘In difesa dell’anarchia’

Eduardo Colombo

2021-05-19

traduzione di Pietro Masiello.

«Il mito della legittimità è anche un importante strumento di dominio». La gente crede nello Stato e non si preoccupa di sapere da dove proviene il dovere di obbedire alla legge. Tutta la filosofia politica antica e moderna, salvo scarsissime e lodevoli eccezioni, è stata ed è uno sforzo per giustificare l’autorizzazione della coercizione legittima che il potere istituito rivendica. Ma l’anarchico è uno scettico.

Una filosofia politica normativa, che si preoccupa di valori, con l’ambizione di analizzare e discutere ciò che è buono o ciò che è meglio per una comunità umana, o per la società nel suo complesso, deve dare una risposta all’inevitabile conflitto «tra l’autonomia dell’individuo e l’autorità putativa dello Stato».

La democrazia si presenta in epoca moderna come l’unica soluzione a tale conflitto. Un lento processo di secolarizzazione ha dissolto la garanzia metafisica che sosteneva tradizionalmente l’autorità del trono e dell’altare nell’Occidente cristiano. A partire dalla larga via aperta da Machiavelli all’azione politica dell’uomo, Hobbes e i teorici del contratto sociale che gli sono succeduti provocarono una rottura rivoluzionaria dell’immaginario collettivo: l’autorità «naturale» divina e paterna lasciò il posto a una società politica auto-istituita. Sono gli uomini a creare le istituzioni con le quali si governano.

Accordi, patti, trattati, norme, formano il corpo politico e assomigliano, sostituendolo, «a quel fiat, o facciamo l’uomo, pronunciato da Dio nella creazione»1.

Le catene che soggiogavano il genere umano a una volontà trascendente cedettero di fronte alla rivolta e allo spirito critico, lasciando in piedi l’esortazione di Pico della Mirandola: «nessuna restrizione ti assoggetta, è il tuo stesso giudizio che ti permetterà di definire la tua natura»2.

La conseguenza sarà allora che colui che obbedisce a una legge – e «obbedisce» per motivi de jure, cioè, se mettiamo da parte la forza, l’ignoranza o l’apatia – lo fa solo per due motivi: perché la ritiene giusta oppure perché lui stesso l’ha proposta, formulata, votata, o ha dato in qualche modo il suo esplicito consenso.

Ci sarebbero altre due ragioni che pretendono di giustificare il dovere di obbedienza o di obbligo politico reclamato dallo Stato, ma sono contrarie all’autonomia dell’individuo e pertanto non risolvono il conflitto. Tuttavia sono proprio queste due ragioni a essere utilizzate dai filosofi liberali. Una di queste è che «la giustizia della struttura di base» dell’istituzione è sufficiente per giustificare l’obbligo politico. Cosa che è già un progresso rispetto alla posizione tradizionale basata sulla supposta «autorità» di ciò che è istituito. Pascal direbbe che bisogna obbedire alle leggi non perché sono giuste ma perché sono leggi, «così tutte le nostre leggi emanate saranno inevitabilmente riconosciute come giuste senza essere esaminate giacché sono state emanate»3.

Il gran pregio del ricorrere all’analisi o al giudizio sensato è che la ragione, a poco a poco, corrode e modifica persino le sue stesse basi storiche. Così, una volta accettato il postulato dell’auto-istituzione della società civile o politica, torna necessario esaminare le opinioni e fornire gli argomenti su cui si fonda o si sostiene un obbligo di obbedienza generica alla legge che l’esistenza dello Stato presuppone. Essendo evidente che essere vincolati da una legge a cui non si è dato esplicitamente il proprio consenso è una mancanza, o una riduzione, dell’autonomia.

L’altra ragione giustificativa dell’obbedienza cerca sostegno nella legge della maggioranza, solitamente utilizzata nella trasformazione, per una sorta di alchimia, di una pluralità di persone in un soggetto unico (Stato, corpo politico o volonté générale) che rappresenta tutti e in cui risiede la sovranità di tutti.

Per un liberale come Rawls per esempio, la cui teoria politica della giustizia come equità ebbe un certo seguito, l’obbligo politico deriva necessariamente dal dovere naturale di partecipare a istituzioni sociali le cui basi sono giuste, o ragionevolmente giuste, e così «ogni individuo è legato a quelle istituzioni indipendentemente dai propri atti volontari»4. Ciononostante, bisogna sapere che quelle istituzioni sono giuste a partire da un momento contrattuale, ipotetico e originario, che fonda le istituzioni de jure, ma che una volta postulato «può essere semplicemente dimenticato», ci dice Rawls. Così il vantaggio politico ritorna al potere istituito, poiché le persone si trovano legate all’istituzione politica, e agli obblighi che ne derivano, da un dovere naturale di giustizia che «non richiede nessun atto volontario per esercitarsi»5. Più coerente con la realtà del potere – credo – Hobbes individuava nella spada la garanzia del patto.

Non è questo il luogo per una critica in piena regola della teoria liberale del contratto sociale, ma vorrei evidenziare alcuni aspetti che ritengo fondamentali per esaminare «la difesa dell’anarchia» nei termini di Wolff. Il contratto originale, o la situazione originaria dell’accordo, in ogni caso ideale, presuppone individui liberi, uguali e razionali, che decidono, in un momento in cui non esiste ancora la società civile, i principi del patto che li terrà uniti e il modo con cui si governeranno.

In tale ipotetica situazione, la pluralità di persone coinvolte deve decidere per unanimità. Rousseau lo dice chiaramente: da dove discende «l’obbligo per il piccolo numero di sottomettersi alla scelta del grande numero, e da dove i cento che vogliono un padrone hanno il diritto di votare per i dieci che non lo vogliono? La legge del voto a maggioranza è essa stessa stabilita per convenzione, e presuppone almeno una volta l’unanimità»6.

Detto questo, nessuno mette in dubbio che gli Stati de facto esistano, ma la pretesa che di solito viene loro riconosciuta è di avere un’autorità de jure, ed è proprio questa ambiziosa pretesa di imporre e di essere obbediti che l’anarchismo rifiuta.

Prendere le proprie decisioni e attenervisi è un dovere dell’essere umano, pensa Wolff (e non è certo l’unico a pensarlo), pertanto non può obbedire alle leggi dello Stato per il semplice fatto che sono leggi, ma deve figurarsi un principio morale superiore che giustifichi l’abdicazione della propria volontà di fronte alla volontà degli altri.

Una volta abbandonate le credenze nell’intervento di un legislatore esterno alla società o nel diritto divino della monarchia a governare, l’origine di ogni obbligo – che evidentemente esclude la tirannia, illegittima da quando il mondo politico esiste – non può che risiedere nella partecipazione di tutti alla formulazione delle leggi che ci governano. Cosicché, in una società civile o politica «l’autorità alla quale ogni cittadino si sottomette non è solo quella di se stesso, bensì quella dell’intera comunità presa collettivamente»7. La democrazia diretta unanime è quindi l’unico regime compatibile con l’autonomia.

Di fronte alle difficoltà che insorgono in ogni società complessa quando si intenda prendere una decisione per consenso, la soluzione tradizionale è stata quella di ridurre l’esigenza di unanimità al principio di maggioranza e alla delega. Qui inizia la difficoltà teorica con cui si dibatterono Locke e Rousseau. La legittimità dell’obbligo politico è evidente e immediata nella democrazia diretta unanime, ma nella democrazia rappresentativa detta legittimità deve avere origine nel contratto iniziale.

Ogni teoria della democrazia consacra la sovranità del popolo, il problema sta allora nel sapere se la forma rappresentativa e maggioritaria salvaguarda detta sovranità rendendola compatibile con l’autorità dello Stato.

È questo il punto su cui si concentra la critica di Wolff e dove tale critica, ben argomentata, è irrefutabile: come aveva già capito Rousseau, la sovranità (o l’autonomia) non può essere rappresentata, ogni cessione di sovranità a un’istanza realizzata – assemblea di rappresentanti, potere legislativo – annulla l’autonomia dei soggetti e quindi la volontà del popolo, che è libero di esprimersi solo quando viene convocato per eleggere i suoi rappresentanti. La condanna più aspra della democrazia rappresentativa, dice Wolff citando Rousseau, si trova nel Contratto sociale: «L’uso che esso fa della propria libertà nei brevi momenti in cui la possiede, gli fa ben meritare di perderla »8.

L’argomentazione maggioritaria non risolve il problema, perché anche supponendo che ci sia una forza morale addizionale, dato che ogni individuo possiede un’uguale forza morale, il risultato non giustifica il fatto che la minoranza rinunci alle proprie opinioni e debba obbedire alla maggioranza. Le maggioranze sono fluttuanti e la minoranza aspira a essere maggioranza. In questo gioco il potere istituzionalizzato carica il proprio peso sulla bilancia e la regola maggioritaria «garantisce ai membri della maggioranza che le loro preferenze diventeranno legge»9, e condanna i membri della minoranza alla sottomissione o alla ribellione.

La forza del ragionamento di Wolff risiede nell’analisi logico-filosofica dei presupposti con i quali si pretende di legittimare un regime democratico, cosa che gli consente di dimostrare come la democrazia maggioritaria non possa in alcun caso soddisfare le condizioni del contratto originario. Come scrive lo stesso Wolff nella prefazione alla seconda edizione, l’idea della democrazia diretta unanime non viene presentata come un modello ideale a cui la società deve tendere, ma al contrario come una situazione irraggiungibile, «un caso limite di soluzione più che un esempio veritiero di Stato legittimo»10.

Uno Stato giusto è un tropo, un ossimoro, come se dicessimo un quadrato circolare o un fuoco freddo o, ancora, l’acqua secca.

In questo saggio non si troverà nulla, o quasi, che vada nel senso dell’attività politica dell’anarchismo, né «sulle condizioni materiali, sociali o psicologiche nelle quali l’anarchia potrebbe diventare un tipo possibile di organizzazione sociale»11. Non è il suo scopo. Salvo, forse, la seguente constatazione: se la filosofia politica si ostina a cercare il principio fondamentale dell’autorità legittima, l’impresa è condannata al fallimento. Di conseguenza: «Al suo posto dovreste mettere l’azione politica, guidata dalla ragione e diretta verso quei fini collettivi ai quali voi e i vostri compagni avete dedicato il vostro impegno. E se non avete compagni, allora neppure questo libretto può fare qualcosa per voi»1212.

Chiosa

Aggiungerò alcune considerazioni e critiche che non concernono il nocciolo del ragionamento, ma bensì certi giudizi o valutazioni collaterali che meritano di essere tenute in conto.

Le osservazioni critiche di Robert P. Wolff sono rivolte al livello astratto della teoria della democrazia rappresentativa e dimostrano la mancanza di legittimazione o di giustificazione morale dello Stato nel ridurre la minoranza all’obbedienza. Ma nella realtà del nostro mondo chiamato democratico è la minoranza che detta legge alla maggioranza. La migliore delle democrazie, da un punto di vista politico e sociologico, altro non è se non un regime oligarchico a partecipazione limitata, in mano a una classe politico-finanziaria. La democrazia è l’ideologia della legittimazione.

Penso anche che una piena autonomia dell’individuo è impossibile in una società eteronoma. Da questo punto di vista, se non facciamo attenzione, nella difesa dell’autonomia si introduce surrettiziamente un’ideologia propria del liberalismo politico: l’uguaglianza giuridica che nasconde la disuguaglianza sociale. L’individuo giuridico astratto, incoronato dalla rivoluzione borghese e al giorno d’oggi al servizio del sistema rappresentativo e dell’economia capitalistica, è la perfetta antitesi dell’individuo concreto posto nel contesto dei suoi legami sociali.

L’atomismo sociale è implicito in ogni teoria della democrazia che faccia riferimento all’ipotetico contratto originario. L’uomo libero non esiste prima della società politica, egli inizia a esistere nel processo che porta alla costruzione di una società libera. Per vivere in anarchia c’è bisogno di un uomo nuovo in una società nuova.

Mi sembra inoltre necessario separare concettualmente Stato e Governo. Lo Stato è il garante metafisico del governo esercitato da un gruppo di persone.

Trovo parimenti inaccettabile pensare una qualsivoglia forma di anarchismo all’interno di frontiere nazionali, come sembrano suggerire le ultime pagine di questo libro.

A ogni modo la solidità del ragionamento giustifica pienamente la lettura di In difesa dell’anarchia di Robert P. Wolff.

Eduardo Colombo Parigi, Novembre 2003

Note alla Prefazione


  1. Thomas Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, Laterza, Bari-Roma, 2020.↩︎

  2. Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, Edizioni studio tesi, Pordenone, 1994.↩︎

  3. Blaise Pascal, Pensieri, cap. V «Ragioni degli effetti», UTET, Torino, 2014.↩︎

  4. John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2019.↩︎

  5. Ibidem.↩︎

  6. Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, libro I, cap. V, Feltrinelli, Milano, 2019.↩︎

  7. Robert P. Wolff, In difesa dell’anarchia, elèuthera, Milano, 2020, p. 66.↩︎

  8. Jean-Jacques Rousseau, op. cit., libro III, cap. XV.↩︎

  9. Robert P. Wolff, op. cit., pp. 93-94.↩︎

  10. Ibidem, pp. 129-130.↩︎

  11. Ibidem, p. 37.↩︎

  12. Ibidem, p. 34.↩︎