Dall’Economia dell’età della pietra suggerimenti per una economia antropologica

Guido Candela

2022-02-04

traduzione di Lucio Trevisan.

Sono passati precisamente 48 anni, è cambiato il secolo, eppure il lavoro di Marshall Sahlins L’economia dell’età della pietra rimane di attualità, meritando una nuova edizione. Cionondimeno, qualche cosa è mutato. Non il testo, poiché solo l’ultimo capitolo è stato interamente rivisto, ma è l’economia, che si respira in tutto lo scritto, che ha mutato di contenuto. Il nostro se ne rende conto, proponendo una nuova interpretazione del suo stesso lavoro. Prima di iniziarne la lettura, è quindi opportuno confrontare l’Introduzione alla prima edizione (1972) con l’Introduzione alla seconda edizione (2020), che il novantenne Sahlins scrive e Andrea Aureli traduce.

Nel 1972, l’antropologia economica si inserisce in un’economia che si divide fra «formalista» e «sostanzialista», un dibattito aperto da Karl Polanyi professore a New York di Sahlins. La prima valida i suoi modelli come universali, applicabili alle economie primitive come a quelle «moderne»; l’altra propone invece che ogni tipo di società debba avere i propri modelli di riferimento. David Graeber nella sua Prefazione spiega, non senza una certa ironia, perché nel mainstream c’è l’economia formalista: «I formalisti erano gli ingegneri di grido in cerca dei principi sottostanti i sistemi sociali, mentre i sostantivisti equivalevano a decrepiti ‘collezionisti di farfalle’» (p. 13), evidentemente irridendo il formalismo. Orbene, il lavoro di Sahlins coniuga una via di mezzo fra queste due visioni. Il «libro è sostanzialista» – scrive nel 1972 – ma «a partire dai termini formalisti» (p. 34). Quindi il nostro usa modelli e micro lingua dell’economia formalista, partendo finanche dalla definizione «classica», quella di Lionel Robbins: ottimizzare l’uso di mezzi scarsi rispetto a molteplici fini. Ma riconoscere i fini dell’uomo e delle comunità sarebbe compito dell’antropologia.

Nel 2022, quel dibattito è superato. Hanno perso di importanza i modelli in vacuo che l’economista considera validi a priori sempre e comunque, ma v’è l’imporsi dei contenuti profondi di un diverso agire culturale della specie umana: sentimenti, propensioni, attitudini, percezioni e quant’altro viene portato in primo piano con l’affermarsi dell’Economia cognitiva e dell’Economia comportamentale. Cosicché acquista nuovo spazio una ricerca che tragga le sue premesse dall’antropologia: le ipotesi sull’homo egoista o altruista (Candela e Senta, 2017; Candela 2020); i contenuti della razionalità olimpica o limitata (Simon, 1985); l’interrelazione fra agenti codificata con l’ipotesi Cournot-Nash di una controparte passiva oppure quella di Roemer-Kant di una controparte che replica ogni azione con la stessa azione (Roemer, 2015); l’evoluzione delle istituzioni seguendo motivazioni estrattive oppure inclusive (Acemoglu e Robinson, 2013). E questi sono solo alcuni esempi del pensare relativizzato dell’economia, cosicché «il campo dell’antropologia economica» – osserva Sahlins – «è totalmente cambiato dalla pubblicazione nel 1972» (p. 25). Il nostro propone, quindi, una diversa chiave di lettura del libro di allora, in sintesi è lo spostamento del punto focale: da un’antropologia economica a un’economia antropologica, che non enuncia modelli in vacuo, ma osserva l’antropologia individuale e di comunità, ne estrapola i sentimenti culturali e le motivazioni personali e di gruppo, quindi elabora modelli specifici. Conclude Sahlins 2020: «Mi piace pensare [questo libro] come un precoce contributo a questo auspicabile fine» (p. 26).

Il Capitolo primo, L’originaria società opulenta, ha fatto la fortuna del libro, motivandolo come titolo evergreen: desiderando poco, i raccoglitori (più spesso le raccoglitrici) e i cacciatori dell’economia di raccolta e caccia «primaria» – prendendo a prestito questa diversa denominazione dall’arte tribale, per sottolineare anche in questo caso che «primitiva» non è – vivono in una società opulenta, pur avendo poco. Hanno consumi alimentari sufficienti (il cibo nella quantità desiderata, seppure di qualità incomprensibile ai nostri gusti), godono di un’opulenza senza abbondanza nei consumi non alimentari (ciò che non si desidera non manca), usufruiscono di grande disponibilità di tempo libero e nessun desiderio di ricchezza, poiché «la roba» è un peso per i raccoglitori-cacciatori: i beni durevoli sono fardello per la mobilità che è necessaria. Cosicché – secondo il nostro – i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico non sono meno felici, forse persino più felici, degli agricoltori-allevatori che con la Rivoluzione del Neolitico si instaurano stanziali su un territorio (Candela, 1980). È una tesi forte, che Sahlins dimostra seguendo un’impostazione di economia sostanzialista ma utilizzando modelli formalisti, poiché parla di razionalità dei mezzi rispetto ai fini, di divisione tecnica del lavoro, di Prodotto Interno Lordo, di tempo di lavoro e tempo libero. Questa è l’antropologia economica del 1972. La stessa conclusione letta come economia antropologica, suona diversamente, mettendo in primo piano il modo di pensare e agire dell’homo raccoglitore-cacciatore: «Non è che i cacciatori-raccoglitori abbiano frenato i loro ‘impulsi’ materialistici, semplicemente non li hanno mai istituzionalizzati» (p. 54).

Roberto Marchionatti, che ha curato questa edizione, scrive nella Postfazione che la conclusione di opulenza primitiva di Sahlins ha suscitato un vasto dibattito non solo fra antropologi ma anche fra economisti. In particolare è stata coinvolta la Scuola di Chicago: Richard Posner, noto esponente della Economics and Law, torna all’idea della società «rozza e primitiva» di Adan Smith teorizzando un homo oeconomicus primordiale posto di fronte a poca informazione e molta incertezza, e Jack Hirshleifer sostiene un approccio di bioeconomia.

Tuttavia, anche per Sahlins, la vita dei raccoglitori-cacciatori presenta aspetti negativi. Egli ricorre ancora a un modello formalista: i rendimenti decrescenti dei territori di raccolta e caccia. Spostarsi è necessario. Quindi il Prodotto Lordo deve essere limitato (trasportare troppo è impossibile); la politica demografica deve essere draconiana (troppi bambini impicciano, i vecchi sono un peso). La Rivoluzione del Neolitico quindi ha una sua giustificazione economica, rispetto ad altri fini: rendendo stanziale la vita, è richiesta una diversa attitudine culturale nei confronti della roba e delle generazioni. Sono questi i mutamenti antropologici che spiegano il procedere della specie umana verso l’economia «moderna», compatibile con un homo oeconomicus insaziabile dai bisogni infiniti. Ecco cosa suggerisce Sahlins con questo esempio: un metodo socialmente variabile per l’economia antropologica, poiché non esiste «una forma universale di calcolo razionale» – come sottolinea Graeber nella sua Prefazione (p. 13), sostenendo la proposta di Sahlins.

Il Capitolo secondo, Il modo di produzione domestico: la struttura di sottoproduzione, sembra in apparente contraddizione con il capitolo precedente, ma in effetti lo avvalora. Qui si sostiene che «le economie primitive sono sottoproduttive», seppure opulente. Per economie primitive si intendono da ora in poi sia quelle del Paleolitico sia quelle del Neolitico, accomunandole in un unico sistema produttivo, il Modo di Produzione Domestico (MPD). Per sottoproduzione si fa riferimento al fatto che tutti i fattori di produzione, il lavoro, il capitale (cioè gli attrezzi) e la terra, sono sottoutilizzati, quindi il PIL effettivo è minore di quello potenziale. Molte sono le misure – anche se non propriamente statistiche, quindi a volte contestate dalle letteratura successiva – portate da Sahlins a sostegno della tesi che: «la forma dominante di produzione primitiva è la sottoproduzione» (p. 97). Come è e perché è così? Sono domande importanti che travalicano la specificità del MPD, infatti Graeber nella Prefazione scrive: «[Nel 2017] pochi ricordano il ‘modo di produzione domestico’, ma tutti ancora discutono intorno alle questioni che esso ha sollevato» (p. 16).

La risposta di Sahlins è che l’economia primitiva produce per l’uso e per il sostentamento, volutamente non di più. Il principio culturale del MPD è anti-eccedentario, per così dire la produzione domestica «odia» il surplus. È così perché non è motivata né dalla rendita né dal profitto. I modelli classici e neo-ricardiani del sovrappiù – l’aspirazione delle nazioni alla ricchezza di Adam Smith, le categorie distributive del sovrappiù di David Ricardo, gli schemi logici di Piero Sraffa, non sono adatti a comprenderla. È ancora l’economia formalista che spiega, ma è quella sostanzialista che consiglia alla scienza economica di usare modelli diversi per comprendere sistemi economici antropologicamente differenti: «L’unità domestica è per l’economia tribale ciò che il feudo è per l’economia medioevale e la società per azioni per il capitalismo moderno: l’istituzione produttiva dominante del proprio tempo» (p. 124).

Queste conclusioni spostano l’analisi del nostro verso i contenuti specifici del MPD. Egli ne individua ben sette, che interagendo causano la tendenza alla sottoproduzione: I) la divisione del lavoro, basata sul genere e sull’età piuttosto che sulle competenze; II) il rapporto primitivo tra uomo e il suo utensile, semplice prolungamento delle sue mani; III) la produzione esclusiva per la sussistenza, anche se c’è lo scambio (vedi capitoli cinque e sei); IV) una reazione «passiva» all’aumento della produttività, un suo aumento non stimola il lavoro ma l’ozio (Prima regola di Cayanov); V) la proprietà privata è inclusiva piuttosto che esclusiva, poiché è compatibile con il libero accesso ai mezzi di lavoro e alla terra; VI) la condivisione, essendo il MPD sia unità di produzione sia unità di consumo, si concretizza in quella «bolla» che «i sociologi chiamano gruppo primario; la gente comune focolare» (p. 145), dove si osservano solidarietà, reciprocità, distribuzione secondo i bisogni; vii) least but not last, nel MPD si coniugano «anarchia e dispersione». Su questo ultimo punto merita soffermarsi un po’ più a lungo.

Secondo Sahlins, il MPD è una «anarchia sui generis». È anarchia perché «è una società senza un sovrano» (p. 146), ma è sui generis perché è frantumata, divisa in tante unità produttive autonome e scoordinate: «il MPD ha l’organizzazione di un sacco di patate» (ibidem). Non si osservano né liberi contratti né patti spontanei, che conferiscano un ordine autoregolato ai diversi gruppi domestici. Entrambe le conclusioni lasciano perplessi. Innanzitutto, l’assenza di un sovrano non è causa sufficiente per identificare un sistema anarchico: se l’anarchia è in sé assenza di Stato, l’assenza dello Stato di per sé non è anarchia, un’affermazione compiutamente dimostrata da Colin Ward (2010). Inoltre, non convince neppure l’aggiunta sui generis alle tante, già troppe, aggettivazioni dell’anarchia. Se ha un senso di attualità, l’anarchismo extra-moenia di Tomás Ibánez per qualificare quello rivitalizzato e «diffuso» del millennio, se comprendiamo il post-anarchismo come «anarchia in movimento», che segue l’evolversi della filosofia, quello sui generis pare una vetusta categoria, più forviante che qualificante. Concludendo, né anarchico, né sui generis ci sembra il MPD descritto da Sahlins.

Invece, se accettiamo il parallelismo MPD-anarchia, il riferimento alla tendenza alla dispersione attrae l’attenzione: questa anarchia e questo modo di produzione sono destinati a creare scissioni: l’anarchia – sostiene Sahlins – è divisiva come il MDP è «discontinuo … nello spazio» (p. 150), perché motiva sia forze centripete nella cerchia domestica sia forze centrifughe tra le unità domestiche. Dispute faziose, tensioni ideologiche, contrapposizioni ideali e d’azione causano scismi e divisioni (Sahlins rinvia agli esempi di Carneiro, 1968). Per questo «il modo di produzione domestico» – conclude – «non è organizzato per dare una buona prova di sé» (p. 150). Per estensione del ragionamento, non darebbe buona prova un’anarchia che risolvesse le contrapposizioni con le scissioni, eppure la storia dell’anarchismo è piena di eventi divisivi (come è evidente guardando una «compatta» cronologia della sua storia, cfr. Ateneo libertario, 2020). Un’anarchia, che volesse coniugare al contempo unanimità e diversità, non può che rifarsi al valore costruttivo del compromesso autogestito, perseguito con volontà libera, non totalizzante ma condizionato, temporaneo e però sempre «trasparente».

Entrambi, Sahlins e Carneiro, accennano all’alternativa: per evitare che le dispute locali si risolvano in scissioni può intervenire un Chieftainship, un capo regolatore, dominante e forte. Tuttavia, questa non è una soluzione per l’anarchia, poiché negazione di se stessa – se così è stato, lo è stato solo suo malgrado. Allora l’anarchia non divisiva è esaltazione del valore del compromesso: su questo Sahlins ci inviata riflettere, anche se lo fa non esplicitamente.

I successivi quattro capitoli proseguono nell’analisi del MPD, usando sempre come fil rouge l’economia: per comprendere «le società primitive come forze anche economiche» (p. 158). Sahlins lo fa con un’analisi a tutto tondo, in questi capitoli si parla di produzione, circolazione dei beni, distribuzione del reddito e della ricchezza. Il Capitolo terzo, Il modo di produzione domestico: intensificazione della produzione, è in effetti una continuazione del capitolo precedente, che apre la «scatola nera» della Funzione di produzione del MPD, ora specificatamente riferita all’agricoltura primitiva. Si utilizzando misure quantitative riconducibili all’Economica della produzione (il prodotto per lavoratore, il capitale per lavoratore, nella fattispecie la terra) cui si aggiunge un indicatore specifico per l’economia domestica: il rapporto consumatori/orticultori riferito allo stesso gruppo primario. A questo proposito, Sahlins riporta la Seconda regola di Chayanov: l’intensità del lavoro è in relazione diretta con il numero di consumatori per lavoratore, quasi un modello di domanda effettiva per l’economia primitiva. L’analisi «tecnica» del MPD conferma la sotto produttività del lavoro e il sotto impiego del capitale. Tuttavia, la Funzione di produzione non è stabile, un effetto che ricorda il Residuo di Solow. Infatti, sostiene Sahlins, la produzione dipende dalla solidarietà all’interno dei gruppi, e questa è strettamente causata sia dalla definizione della parentela sia dall’ordinamento politico. Il grado di parentela, mutabile con usi e cultura, definisce la «bolla familiare», entro cui si manifesta la solidarietà e la reciprocità parentale, una logica del Noi, un insieme plurale che essendo chiuso si rivela però come «roccaforte dell’egoismo» (p. 185). L’ordinamento politico, l’autorità dei capi e dei sovrani, interviene per opporsi agli egoismi dell’economia domestica: «i poteri tribali … invadono il sistema domestico per minarne l’autonomia, frenarne l’anarchia e liberarne la produttività» (p. 186). Anche questa affermazione merita un attimo di commento: certamente i poteri tribali sono manifestazione di dominio quindi strada opposta all’anarchia, che è autogestione, ma ciò che frenano è l’anarchia sui generis, che abbiamo sostenuto essere non propriamente anarchia. Ora in Sahlins quell’aggettivo cade, mentre sarebbe qui opportuno riportarlo, poiché così scrivendo si rischia di perpetrare la falsa correlazione fra anarchia e disordine.

Gli ordinamenti politici descritti da Sahlins sono: il big man malesiano, il chieftainship polinesiano, che dietro reciprocità e liberalità nascondono la dipendenza del popolo, e il capo supremo della Hawaii, che se tiranno oltre ogni limite può causare ribellioni. Comunque gli ordinamenti politici considerati dal nostro non c’è lo Stato, incompatibile con il MPD. Per il ruolo dello Stato-nazione ci piace rinviare a un altro importante lavoro di antropologia economica: James C. Scott, Lo sguardo dello Stato, anche questa un’opera evergreen.

Con il Capitolo quarto, Lo spirito del dono, si entra nel tema della circolazione dei beni nelle economia primitive. Parlando del dono, Sahlins evoca immediatamente Marcell Mauss, Saggio sul dono, con estro e ammirazione: il suo libro «diventerà il dono del suo autore ai posteri» (p. 213). È naturale, quindi, che questo libro divenga il riferimento primo dell’intero capitolo, che in parte è un saggio di antropologia economica per poi trasformarsi in un contributo di politica economica delle istituzioni primitive.

Il punto focale del dono di Mauss è il concetto maori dello hau – diverso nel modo ma simile nel fine al potlatch degli indiani nativi – che implica due obblighi: il dono deve essere accettato, il dono deve essere ricambiato. Per lo hau nel donare si fa dono di sé, quindi i beni hanno lo «spirito delle cose», in certo senso sono delle persone: in ciò che è donato c’è lo «spirito delle donatore». Se le cose sono persone, rifiutare il dono è un’offesa, non renderlo reciproco è un oltraggio. Sahlins riporta le tre maggiori critiche antropologiche alla teoria di Mauss (Claude Lévi-Strauss, Raymond Firth e Jørgen Prytz-Johansen), ma la difende con convinzione. Quindi la sua conclusione è che il Saggio sul dono è una specie di «contratto sociale» per i primitivi, che assicura la circolazione dei beni: uno scambio senza dominio, poiché il «dono non è una rinuncia all’eguaglianza e neppure alla libertà» (p. 237).

Con questa conclusione, Sahlins entra nella seconda parte del capitolo, totalmente innovativa per una politica economica antropologica. Egli attribuisce al dono di Mauss due interpretazioni: i) alternativa al Leviatano di Thomas Hobbes: «Alla guerra di tutti contro tutti Mauss sostituisce lo scambio di tutto con tutti» (p. 235); ii) anticipazione primaria della Teoria contrattualistica di Jean-Jacques Rousseau: «L’analogo primitivo del contratto sociale non è lo Stato, ma il dono» (p. 235). «Se spiritualmente – continua il nostro – Mauss discende da Rousseau, come filosofo politico è imparentato a Hobbes» (p. 238). Tuttavia, per Sahlins, che pur si diffonde su Hobbes, è più convincente il collegamento spirituale: «Benché abbia esordito con Hobbes (ed è soprattutto confrontandolo con il Leviatano che discuterò il Saggio sul dono) è chiaro che le opinioni di Mauss sono molto più vicine a quelle di Rousseau» (p. 237).

Raggiunto il risultato che il dono è il contratto sociale dello scambio nelle economie primitive, che non hanno né Stato né mercato, inizia il Capitolo quinto, Sociologia dello scambio primitivo, che mette in relazione bidirezionale i rapporti sociali e la circolazione dei beni: «se gli amici fanno doni, i doni fanno gli amici» (p. 258). Fermo restando che il MPD non è autarchico, gli scambi perlopiù riguardano i beni di consumo, non i mezzi di produzione. Le istituzioni che consentono questi scambi sono sostanzialmente due che, seguendo Polanyi, comportano centralità e simmetria: I) la condivisione, il rapporto sociale all’interno di un gruppo; II) e la reciprocità, il relazione di azione e reazione fra le parti. La condivisione comporta centralità, poiché implica un centro che raccolga e redistribuisca i beni di consumo in forza del principio che i «beni prodotti collettivamente sono distribuiti nella collettività». Un principio che ha eco sia in Pierre-Joseph Proudhon – è chi vanta la proprietà di un bene ottenuto con altri o da altri che commette un furto – sia nelle cooperative di produzione. La reciprocità in se stessa è necessariamente simmetria.

In pratica, vi sono molti tipi di reciprocità: dall’estremo solidale (il dono puro, la reciprocità generalizzata tra prossimi) al tentativo di ottenere qualcosa in cambio di nulla (il dono avvelenato, la reciprocità negativa), fra questi estremi si colloca la reciprocità bilanciata regolata da una logica di equità/generosità. Sahlins estremizza questo concetto, affermando: «sembra possibile ordinare in modo astratto un continuum di reciprocità» (corsivo in originale, p. 266). Allora, secondo il principio dell’analisi matematica, i modi della reciprocità in quanto continui sarebbero infiniti! Anche se questa infinità non appartiene a una retta ma a un segmento, i cui estremi vanno dalla reciprocità interna al gruppo tribale a quella esterna, intertribale. Un’infinità pratica è proprio l’intuizione verso cui ci invita Sahlins, lasciando seguire il capitolo da tre appendici di casi rilevati, per ben 47 pagine complessive.

L’ultimo capitolo, Il valore di scambio e la diplomazia del commercio primitivo, è stato interamente rivisto per questa edizione, cosicché è Sahlins 2020 che parla: «L’economia antropologica può ben vantare una propria teoria del valore» (p. 365). Il suo compito è dimostrare come si determina il rapporto di scambio, il valore relativo dei beni, se la circolazione avviene con dono e reciprocità, non con il baratto né tanto meno con la compravendita. Perciò in questo capitolo, alla Teoria del valore dello scambio, il cui riferimento è il mercato, Sahlins contrappone la Teoria del valore del non-scambio, il cui riferimento è il MPD e il dono-reciprocità. Le due teorie sono diverse ma complementari.

Ricollegandosi al capitolo precedente, Sahlins torna all’idea della reciprocità come un «segmento» continuo, per affermare che all’estremo solidale è impossibile riconoscere nella reciprocità generalizzata una teoria del valore, poiché il rapporto di scambio è sensibile alle relazioni umane e parentali, ma avvicinandosi all’estremo opposto dello scambio intertribale un tentativo può essere fatto: «Al di là dell’economia interna a reciprocità mutevole, c’è una sfera, di maggiore o minore dimensione, contrassegnata da una qualche correlazione tra tassi di equivalenza consuetudinari e de facto»(p. 368). Con riferimento a questi scambi, dopo avere osservato tre casi etnografici, lo Stretto di Vitiaz, il Golfo di Huon e il Queensland, Sahlins propone il suo modello economico, per spiegare i valori nell’economia nell’età della pietra e nelle economie primitive più tarde.

Lo scambio tra tribù richiama i teoremi dell’economia spaziale, le più ricche al centro le più povere agli estremi, con un flusso di beni (e valori) che passa dalle località centrali a quelle marginali: anche nell’economia tribale «dunque, Business as usual» (p. 386). I rapporti di scambio, inoltre, tendono a essere stabili mostrando una «certa indolenza» nel breve termine, mentre rispondono ai mutamenti di lungo termine (p, 387). In un mercato, è la competizione fra i compratori che rende il prezzo sensibile all’eccesso della domanda, provocando un rialzo, come è la competizione fra i venditori che rende il prezzo sensibile all’eccesso di offerta, provocando un ribasso. Tuttavia, questo meccanismo non è presente nelle economie primitive, dove i rapporti interni tra chi dona o riceve sono di amicizia e di parentela, e quelli esterni fra chi dona e reciproca sono di ospitalità: «la socialità tribale e la moralità indigena costituiscono un’arena improbabile per un corpo a corpo economico» (p. 389). Allora spiegare i prezzi relativi nelle economie primitive, dove i mercati sono sistematicamente assenti, è un «mistero affascinante» tanto da sfidare ogni sistematizzazione. Tanti antropologi hanno esplicitamente sostenuto questo mistero come impossibile da risolvere, e tra di essi c’è anche Sahlins stesso. Ma era il 1962 in Moala: Culture and Nature on a Fijam Island. Ora in questo capitolo Sahlins ci prova. Cerchiamo quindi di rendere in breve il suo tentativo.

Il meccanismo è quello del dono e della reciprocità obbligatoria, in rapporti di ospitalità vige l’obbligo di contraccambiare esageratamente. Infatti, «il tasso di scambio assume le funzioni di un trattato di pace» (p. 393), come spiega Lévi-Strauss «Gli scambi sono guerre risolte pacificamente, e le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate» (Lévi-Straus,1969, p. 67). Le tribù si incontrano in pace più volte, la prima volta la tribù di Alef porta in dono un bene in una quantità crié par hasard e la tribù di Bet contraccambia esageratamente con un altro bene; la seconda volta è la tribù di Bet che porta in dono la stessa quantità di prima del suo bene ed è la tribù di Alef che ora contraccambia esageratamente. Cosicché le due esagerazioni fissano gli estremi del rapporto di scambio fra i due beni e, reiterando gli incontri, fra questi due estremi si determina un valore di equilibrio, un rapporto di scambio «fissato da una reciproca generosità» (p. 398). Questo valore relativo fra i beni tenderà a rimane stabile, poiché è primario l’interesse comune a mantenere rapporti di stima e di pace fra gli Alef e i Bet.

Sahlins raffronta il suo modello con quello del mercato – non lo afferma esplicitamente ma in più passi il riferimento appare a quello di libera concorrenza – in cui opera l’anonima e automatica Legge della domanda e dell’offerta. Egli vede due meccanismi differenti e solo parzialmente corrispondenti, tuttavia sarebbe stato meglio riferirsi alla teoria del monopolio bilaterale, modello frequente nelle economie moderne più dell’ipotetica concorrenza «pura».

Allora, come nell’economia primitiva il rapporto di scambio fra due beni oggetto di dono reciproco giace tra due estremi osservabili per effetto di una generosità esagerata bilaterale, così nel monopolio bilaterale il prezzo di equilibrio giace tra due estremi, il prezzo di riserva del venditore e il prezzo di riserva del compratore, variabili latenti ma chiare ai due agenti. Cosicché, in entrambi i casi il rapporto di scambio tribale e il prezzo del monopolio bilaterale appartengono a un insieme chiuso e limitato, entro cui si instaura un possibile equilibrio. Qui la similitudine si arresta. Nel monopolio bilaterale il prezzo si determina in base alla forza contrattuale della parti, un’affermazione imprecisa ma chiara, che è stata oggetto perfino di formalizzazione (si pensi alla funzione contrattuale di Nash); nell’economia del dono reciprocato il rapporto di scambio si determina tramite un rapporto consuetudinario di reciproca generosità, «analogo primitivo del meccanismo commerciale» (p. 402). Anche il riferimento alla consuetudine e alla generosità è affermazione imprecisa ma chiara, anche se ancora non formalizzata. Comunque come nel monopolio bilaterale la presenza di estremi è sufficiente in teoria per affermare che un rapporto di scambio di equilibrio c’è e «benché ipotetico, corrisponde a specifici fatti» (p. 405).

Con questo parallelismo tra scambio tribale e monopolio bilaterale (piuttosto che riferirsi alla libera concorrenza, che comporta flessibilità del prezzo), si risolve anche l’ultimo cruccio che rimane nel modello di Sahlins: spiegare la costanza nel breve periodo dei valori relativi tribali. Questi sono fissi così come sono rigidi i prezzi di equilibrio nel monopolio bilaterale: in entrambi i casi, si sostiene e si osserva una permanenza dell’equilibrio, poiché in entrambi i casi i valori si muovono con indolenza rispetto a fatti contingenti, mentre si adeguano nel lungo periodo ai mutamenti importanti delle condizioni oggettive e/o dei parametri di fondo che determinano generosità da una parte o potere contrattuale dall’altra.

Il modello di Sahlins consente un’interessante corollario, su cui proponiamo di riflettere: cosa accade allorché un agente Alef di una economia di mercato, motivato dal profitto, incontra la tribù di Bet motivata dal dono. Ovverosia due criteri diversi di scambio entrano a contatto. Alef sa che donando poco otterrà generosamente molto da Bet, e non si sentirà obbligato a reciprocare con generosità al dono di Bet, poiché altra è la cultura di Alef. Invece la cultura di Bet, che crede in una reciprocità che sarà smentita, lo obbliga a ricevere il dono, anche se per lui non ha un vero valore d’uso (ad esempio, narra la storia, perline, vetri colorati, specchietti e quant’altro), mentre può accadere che Bet reciprochi generosamente con un bene che per Alef ha un valore di scambio, motivo quindi di profitto in occidente (tanti sono i beni materiali e di arte, cui è possibile fare riferimento storico). In queste condizioni è evidente che il rapporto di scambio facilita un equilibrio predatorio, in una relazione di dominio che spiega i fatti che hanno coinvolto ‘colonizzatori’ e indiani nativi, neri e aborigeni. Questo è un corollario che vorremmo aggiungere in calce al modello di Sahlins, poiché ci sembra di non poco conto teorico e storico.

Il pensiero finale, con cui si chiude questo ultimo capitolo, è rivolto all’economia antropologica versus l’economia mainstream, quella totalizzante della rivoluzione industriale borghese: «nella sua forma borghese il processo non è generale, nella sua forma generale non è borghese» (p. 407). Questo porta a riflettere sulla ricchezza di contribuiti che la scienza economa potrebbe abbracciare aprendosi ai suggerimenti dell’antropologia. Però, oggi ci sentiamo di sostenere un ottimismo rispetto al pessimismo espresso da Graeber nella Prefazione «[gli economisti] manifestano un notorio disinteresse per gli strumenti teorici elaborati da chiunque altro» (p. 8). Ottimismo fondato sul fatto che, oltre ai recenti Nobel attribuiti a ricercatori di economia cognitiva e comportamentale, in questi anni si leggono sempre più frequentemente studi che considerano i diversi aspetti dell’agire sociale umano. Per tutti ricordiamo i recenti e «imponenti» lavori di Acemoglu e Robinson (2013 e 2020) e Piketty (2020), che sono a tutti gli effetti contributi di economia e politica antropologica portati alle stampe da economisti matematici ed economisti applicati. La loro ricchezza di apporti, stimolo per discussione e finanche dissenso, sono tuttavia testimonianza della «sconfinata ricchezza della creatività e della sperimentazione umane che solo l’antropologia è in grado di svelare» (Graeber, p. 19) … e che l’economia potrebbe contribuire a comprendere.

Bibliografia

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