Pedagogia hacker - Testo completo CC BY-NC-SA
Libro
Pedagogia hacker
Fant, Milani
Cartaceo 17,10 € E-book 8,99 €
Davide Fant, Carlo Milani
Pedagogia hacker
elèuthera
© 2024 Davide Fant, Carlo Milani
ed elèuthera editrice
Tecnologia, corpi, arte, poesia 4
Farsi hacker per imparare insieme 7
L’attitudine hacker in cinque punti 8
C’è un hacker dentro ognuno di noi 9
Hacker che si mettono in discussione 11
Pedagogia hacker come (auto)formazione giocosa 13
Noi e la tecnologia:una conferenza intergalattica 14
Nella galassia c’è un problema 14
Posizionarsi come momento di riflessione su se stessi 15
Stare sul problema, esplicitare le domande 20
Darsi tempo per mettersi in gioco …e creare nuove pratiche 22
Gioie e sofferenze: primo, chiedere 24
Sappiamo noi di cosa hanno bisogno! 24
Cosa hanno detto i ragazzi? 25
Cosa risuona, quali urgenze 30
Relazionarsi educativamente con l’ambivalenza 34
Spilli nel corpo. Poetare la sofferenza delle notifiche 35
Dal suono alla poesia alla performance 37
Evocare il demone che abita ogni app 39
Il dispositivo non è «solo uno strumento» 39
Offuscare i contenuti, osservare la cornice: l’analisi di interfaccia 40
Alla ricerca del demone di WhatsApp 41
Se conosciamo il demone possiamo prendere posizione 44
Giocare per svelare il gioco 48
Non è questione di essere stupidi 52
La fatica di essere profilo 54
Uno spazio ansiogeno e depressivo 54
Uno specchio distorto di sé: il sé frittella 55
Trucchi per andare a punti in TikTok 58
La nostra vulnerabilità come risorsa 63
Una resa che apre a nuove opportunità 64
Lavorare sui bias cognitivi 64
Giochi di (anti)manipolazione 65
Gioco 1: Chi mi conosce lo sa 66
Gioco 2: Le parole che mi triggherano 66
Resistere sul filo del rasoio 68
Utilizzare canali di comunicazione più protetti 71
Messaggi in codice: la steganografia sociale 72
Uscire dai social: il «tacchino freddo» 73
Distruggere lo smartphone (o passare a un dumbphone) 73
Trick di sottrazione e diserzione 75
Imparare a tenere e a farsi tenere: Ulisse e le sirene 77
Non è solo compito dell’individuo 79
Utilizzare insieme la tecnologia in modo diverso 79
Hackerare i setting di vita 80
Far respirare i contenuti preziosi 85
Andare più a fondo, esplorare nuovi percorsi di senso 86
Dal binge listening alla comunità di ascolto 87
Un approccio riflessivo ai testi 88
Come sceglieremo di nutrirci? 95
Coltivare il nostro essere corpo, essere vulnerabili 96
Introduzione
Esaurita la sbornia, passata l’euforia collettiva in cui sembrava che gli strumenti digitali avrebbero (auto)magicamente creato una nuova comunità planetaria, diffuso democrazia, concesso libertà mai sperimentate, le persone si trovano oggi spaesate di fronte al disincanto, talvolta traumatico: la solitudine dilaga, ci si sente in continua competizione, impotenti, agiti. Lo si percepisce a tutti i livelli: nei contesti sociali, lavorativi, nella vita di adulti, adolescenti e bambini. Sono vissuti che le nuove generazioni sperimentano in modo forse amplificato, con sofferenze difficili da esplicitare, pena il richiamo da parte degli adulti che li rimproverano di star sbagliando qualcosa, che gli strumenti sono «solo strumenti» e il problema sono loro che «li stanno utilizzando male».
Liberarsi nel digitale
Con il libro che avete tra le mani vogliamo rispondere all’urgenza di un’educazione sui temi del digitale che ponga al centro le relazioni fra persone e tecnologie. Relazioni ambivalenti che sfociano spesso in vissuti di sofferenza, di euforia a cui seguono cocenti delusioni, di esaltazione spasmodica ed emozioni violente; da questo disagio della tecnica vogliamo muovere per aprire spazi di immaginazione, ri-creazione e liberazione.
Come Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (circe) abbiamo chiamato questo approccio pedagogia hacker. Si tratta di una teoria-prassi che si può immaginare come l’attività di un gruppo di bambini intenti a giocare, cercare, smontare i giocattoli per capire cosa c’è dietro e dentro, a ricombinare i pezzi seguendo il proprio desiderio; o anche come l’attitudine di adolescenti che amano e odiano i propri dispositivi, inventano pratiche di resistenza più o meno efficaci per poterci convivere, che utilizzano la tecnologia per dar voce e forma alle proprie urgenze.
Nella pedagogia hacker hanno valore i tentativi a vuoto, la frustrazione dell’errore, l’errare della ricerca, l’eccitazione delusa, il tempo «perso» a esaminare le minuzie, a cercare senza trovare, a riprovare senza riuscire, nonostante l’esercizio e l’impegno, nonostante gli aiuti e i suggerimenti.
L’intento è sviluppare un metodo che produca spazi liberati, dalla produttività forzata, dall’efficienza necessaria, in cui si incontrano la tecnologia e l’organico, i corpi umani e gli apparecchi elettronici, la politica e il codice sorgente, la poesia e la fantascienza speculativa; in cui si possano assumere le nostre vulnerabilità e alimentare la capacità di immaginare.
Tecnologia, corpi, arte, poesia
Attraverso la nostra sperimentazione educativa vogliamo proporre non solo tecnologie digitali appropriate e conviviali, ma anche tecniche di facilitazione, capacità di entrare in contatto con il proprio corpo, narrare di sé e apprendere dall’esperienza, pratiche artistiche, modi di fare che curiamo come si curano gli ortaggi in un orto comunitario, i fiori in un giardino comune. Selezionare tecnologie appropriate non solo perché adeguate, ma perché proprie, riappropriate da noi.
In una prospettiva simile non stupirà allora che in un libro dedicato al digitale sia presente il teatro, la musica, i versi in rima, che si ritrovino, remixati, approcci derivati dal vasto mondo dell’arte-terapia, dallo psicodramma agli strumenti autobiografici, al lavoro di cura attraverso la poesia. Si tratta di applicare un metodo che è una dichiarazione d’intenti: far dialogare, porre in tensione generativa la dimensione quantificata del digitale e quella simbolica, metaforica, narrativa, per aprire inediti spazi di indagine, relazione e ibridazione generativa tra organico e tecnologico.
Giocare le domande
I nostri laboratori prendono le mosse da domande semplici e allo stesso tempo impertinenti: come mi sento quando utilizzo i diversi strumenti digitali? Come agiscono sul mio corpo? Quale potere esercitano? Come posso mettere a punto modalità migliori per viverci insieme?
Le risposte non sono scontate. Possiamo però elaborare un metodo, perché il metodo è (anche e soprattutto) un contenuto; proponiamo attività, giochi, riti e particolari conduzioni di gruppo per esplorare le questioni più incalzanti. Come nella migliore tradizione hacker ci divertiamo molto. Ad esempio è possibile partecipare a riti dal sapore arcano per scoprire quale demone, daimon, caratteristico abita una determinata piattaforma social: una sorta di presenza invisibile in grado di orientare i nostri comportamenti senza che ce ne accorgiamo. In alcuni casi utilizziamo maschere, musica, luci per condividere emozioni, desideri, disagi; chi partecipa a volte crea piccole scene teatrali, surreali, divertenti, talvolta geniali.
Diverse di queste esperienze sono raccontate in questo libro, tratte dai laboratori condotti in questi anni in giro per l’Italia e all’estero, e in quello spazio privilegiato di sperimentazione è stato Anno Unico, la «scuola per chi non va a scuola»1.
Sono attività che consegniamo a educatori, insegnanti e artisti, affinché, come hacker, possano attingerne per ciò che serve alle loro pratiche, smontarle, rimontarle, farsi ispirare per creare qualcosa di nuovo.
Fare pedagogia da hacker
Il testo che avete tra le mani a suo modo vuole anche contribuire al dibattito di lungo corso nei territori dei media studies e più specificamente della media education. E farlo con un approccio hacker, cioè rifuggendo un certo accademismo e privilegiando la dimensione della sperimentazione, l’urgenza di confrontarsi con esigenze reali in contesti concreti.
Vuole proporre una pedagogia critica capace di riportare in primo piano la riflessione sul potere anche nella relazione con le tecnologie, per evolvere pratiche di emancipazione da condizioni oppressive inedite.
Nei laboratori mettiamo a disposizione tutto quello che sappiamo, che abbiamo imparato dalla nostra esperienza e nel nostro percorso di ricerca; condividiamo molte competenze tecniche, ma ci smarchiamo dal ruolo di «risolvi-problemi»: il nostro approccio vuole essere capacitante, sostenere gli individui e i gruppi nell’acquisizione di potere e possibilità di azione.
Dietro a tutto questo, c’è l’amore per la materia, il pensiero e l’immaginazione che si plasmano, si modificano e «funzionano» perché riusciamo a far combaciare i pezzi, anche quelli che prima non esistevano o stavano altrove, parti mancanti che diventano vuoti necessari, oppure orpelli di troppo che si trasformano in snodi fondamentali, fino a creare dispositivi e, soprattutto, racconti nuovi.
Tutto questo funziona perché crea meraviglia là dove regnava l’apatia, funziona perché spiazza, ricombina, riusa, ripara, ricompone, mescola, meticcia e riorganizza, con pochi semplici gesti eleganti, montagne di merci spazzatura in giochi strabilianti.
Per giocare a questo gioco, la prima regola è: cominciare a giocare*!
Nota all’Introduzione
* Questo libro inizia sulla carta e continua online. Lungo il testo si rinvia spesso alla sezione materiali del sito di elèuthera, dove potete trovare molti approfondimenti e indicazioni operative per svolgere le attività riportate:
1. Anno Unico si trova a Saronno (va) ed è promosso da Fondazione Daimon. Da piccolo servizio di «scuola bottega» si è evoluto in percorso innovativo di contrasto alla dispersione scolastica e ricerca pedagogica. è caratterizzato da un approccio in cui sfumano i confini tra spazio educativo e scuola. Accoglie adolescenti in situazione di povertà educativa e, da qualche anno, chi soffre di forte ansia e fobia sociale
Torna all'indice ↩
capitolo primo
Farsi hacker per imparare insieme
Dichiariamo / che come abbiamo trasformato un giradischi in strumento musicale / utilizzeremo qualsiasi oggetto tecnologico arrogandoci la libertà di violarne i protocolli d’uso / esplorandone le potenzialità / piegandolo alle nostre necessità / al di là dello scopo per cui è stato concepito / superando la passività indotta / con la fotta / radicale di un bambino. / L’unica tecnologia che amiamo è quella dirottata e riappropriata / l’unica tecnologia che amiamo l’abbiamo già smontata / artisti del riciclo / sarti degli scampoli, reality sampler / sempre / con disciplina / rovisteremo nelle discariche a estrarre florida materia prima / spingeremo autoproduzione sana in dimensione umana / diy / in pratica artigiani, bottegai / lavoro lento di riappropriazione con cura e criterio / per micro-economie di desiderio.
Bambini curiosi
Noi siamo hacker! Nei nostri interventi ci presentiamo così, e spesso troviamo di fronte a noi facce un po’ perse, interrogative.
Siamo allora curiosi di sapere da chi partecipa quale immaginario evoca in loro questa parola. Spesso il termine viene associato a «smanettoni», «genietti del computer» dediti per lo più ad azioni illegali su Internet, furti d’identità e simili; qualcuno talvolta cita anche gli «hacker etici», individui altrettanto «skillati» nell’utilizzo della tecnologia che si pongono però dalla parte della legalità mettendo le loro competenze al servizio di istituzioni e aziende.
Nell’immaginario collettivo (e anche in quello specialistico) la figura dell’hacker rimane ambigua, ma comunque legata all’ambito tecnologico, in particolare a quello digitale.
Ecco allora alcune coordinate per orientare il significato che diamo noi a questa parola, con operazioni arbitrarie di selezione, non per forza più vere di altre, ma che illustrano aspetti da noi sviluppati perché scelti con cura, parte della nostra storia e delle nostre radici.
Il nostro riferimento, esperienziale ancor prima che teorico, è legato al contesto concreto degli hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un forte approccio comunitario ed emancipante nei confronti della tecnologia. Gli hacklab, oltre a organizzare eventi di portata locale o legati ad ambiti specifici (radio, antenne, scrittura di codice, ecc.), si danno appuntamento annualmente agli hackmeeting, eventi anch’essi autogestiti, ovvero: «Non esiste chi organizza o fruisce, esiste solo chi partecipa».
E ancora, come chiarisce il sito
In questo evento, tenutosi per la prima volta nel 1998, continua ancora oggi a proporsi una scena vitale e ricca di suggestioni, autonoma rispetto ai finanziamenti istituzionali e aziendali. È questo per noi un fertile terreno di sperimentazione sociale e culturale.
Con questo bagaglio di esperienze, abbiamo iniziato a impiegare l’espressione «pedagogia hacker» per evidenziare il valore pedagogico delle competenze e delle attitudini che caratterizzano quei luoghi: la condivisione mutualistica, l’autogestione accorta di risorse ed energie, la curiosità e la creatività, la ricerca della bellezza nel gioco con la materia.
Un’immagine efficace per raccontare la nostra idea di hacker è quella di una bambina curiosa: appena prende in mano un gioco vuole smontarlo per capire come funziona, esplora cosa succede dentro, apporta le sue modifiche, magari dei miglioramenti, e vuole raccontare a tutti le sue scoperte.
L’hacker che piace a noi è un adulto che mantiene ben viva in sé quella bambina, che ha voglia di scoprire come funziona il mondo (non solo la tecnologia), che vuole portare il suo contributo di creatività, sguardi differenti (le cose si possono fare così, ma anche in altri modi!), che ama condividere, riflettere insieme, immaginare mondi giocando e manipolando.
A questo tipo di persone stanno stretti gli spazi virtuali pensati/imposti da attori lontani, istituzioni o multinazionali che siano, con il corollario di tecnoburocrazia e sgretolamento dei tessuti socio-culturali: nulla a che fare con lo stereotipo del «mago informatico», che utilizza le proprie competenze in modo più o meno legale per profitto e per acquisire leve di dominio su altre persone.
L’attitudine hacker in cinque punti
Riassumiamo dunque per sommi capi ciò che intendiamo per attitudine hacker e la correlata prospettiva pedagogica.
Approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia. L’hacker è una persona che si pone delle domande, problematizza la realtà intorno a sé. Quando si trova davanti un problema che ritiene degno di nota, inizia a pensare, lavorare, operare per cercare di risolverlo. È una persona profondamente curiosa, animata da una passione (anche) per la tecnica; di fronte a un oggetto tecnologico sente la pulsione a smontarlo, per vedere come funziona, cosa c’è dietro/dentro. Dal suo punto di vista nessun artefatto è obsoleto perché sa che ogni cosa può essere re-inventata, ri-combinata, ri-adattata per scopi anche molto lontani da quelli per cui è stata creata.
Desacralizzazione della tecnica, o magia della tecnologia. Parafrasando il «nulla è sacro, tutto si può di dire» di Raoul Vaneigem, per una persona animata dall’attitudine hacker nessuna tecnologia è sacra, tutto si può smontare e rimontare altrimenti. In un’epoca abitata dalla sensazione diffusa della tecnica come magia contemporanea, incarnata in apparecchiature di cui nessuno è in grado di capire davvero il funzionamento, l’hacker si comporta come un mago consapevole che la magia della tecnologia è questione di rimboccarsi le maniche e di sporcarsi le mani insieme, invece di delegare a qualche sedicente esperto la gestione faticosa delle relazioni tecniche.
Apprendimento come piacere. Ciò che muove un hacker al continuo apprendimento è il piacere stesso di apprendere. Queste persone amano affinare le loro competenze e mettere a frutto la loro intelligenza. Ogni problema diventa una sfida, un’occasione appassionante per mettersi alla prova. Il motivo primario che spinge ad affrontare la fatica dell’apprendimento non è la possibilità presente o futura di cospicui guadagni, ma il piacere di superarsi, di creare, il divertimento di scoprire soluzioni (dis)funzionali ai problemi percorrendo strade non ancora battute.
Apprendimento come frutto della ricerca e della esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali. La formazione hacker segue principalmente canali non ufficiali, è un percorso di ricerca personale che parte anzitutto dal metterci sopra le mani (hands on). L’hacker sceglie autonomamente di volta in volta i propri obiettivi di apprendimento e autorganizza il proprio tempo di lavoro-studio non imbrigliato in un sistema di rigidi dispositivi di apprendimento e titoli riconosciuti.
La dimensione sociale del sapere e la conoscenza come bene collettivo. L’attitudine hacker si realizza compiutamente nel far circolare ciò che si è imparato, crescendo e cambiando insieme. La conoscenza è considerata un bene collettivo, risulta quindi fondamentale metterla a disposizione di tutte le persone. Il sapere-potere è un bene che si può costruire solo collettivamente e non può essere imbrigliato da leggi e lacciuoli.
C’è un hacker dentro ognuno di noi
Hacker non si nasce, si diventa. Insieme. Ognuno può scoprire e coltivare l’hacker che è dentro di sé.
È importante sottolineare che si tratta di un’attitudine non solo rivolta ai computer, ma a qualsiasi sistema tecnico di interazione, a qualunque apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altro modo. In questo senso è interessante notare come, mentre il mondo accelera sulla via del digitale industriale globalizzato, negli hacklab e nei laboratori durante gli hackmeeting degli ultimi anni c’è una tendenza sempre più marcata a proporre, accanto al classico coding di software e smanettamenti hardware, anche esperienze di panificazione, di coltivazione, di serigrafia e molte altre attività assai analogiche. In un mondo sempre più virtualizzato nel senso deteriore del termine, è forte il desiderio di materialità, il piacere di toccare con mano e trasformare gli oggetti della nostra vita. Si può diventare quindi hacker delle biciclette o della cucina; il materiale privilegiato è quello del riciclo, un po’ come fa la Mutoid Waste Company che trasforma scarti di automobili e macchinari industriali in meravigliosi robot.
Modificare gli oggetti e gli ambienti con cui ci si relaziona significa inevitabilmente modificare le pratiche e l’ambito psicologico, sociale e culturale circostante. Si può quindi diventare hacker anche dello stare insieme e delle organizzazioni sociali. L’attitudine hacker può attivarsi nei confronti del sociale, del lavoro e della comunità: si può diventare reality hackers come si autodefiniva l’esperienza di Reload (Pergola, Milano, 2004-2007, https://web.archive.org/web/20060202102034/http://reload.realityhacking.org/). Nei gruppi di formazione, racconti come questi accendono una lampadina anche in quelle persone che si sentono lontane dal mondo informatico: «Ma allora anch’io posso essere un hacker!».
Durante le nostre sessioni laboratoriali proponiamo ai più piccoli di darsi dei nomi da hacker, è un primo momento di «magia gentile» (Tomatis, 2024). Chiediamo poi di dimostrarci il loro valore sul campo raccontandoci le volte in cui si sono relazionati verso il mondo e la tecnologia con quella particolare attitudine: attiva, curiosa, disinibita, iconoclasta.
I bambini si concentrano, ci pensano, ci chiedono aiuto per capire se il ricordo che hanno scovato nella mente «va bene», e poi ci raccontano le loro storie, tante storie. Un ragazzo che frequentava il secondo anno di una scuola media di Milano si è ricordato di quando, con un amico, avevano fissato una tavoletta di legno di piatto al portapacchi della bici, per ampliare la base e stare dietro in piedi. Al netto dei rischi operativi, è senz’altro una cosa da hacker!
Quel ricordo ne ha risvegliati altri. Quella volta che Giulia, tredici anni, aveva permesso a tutti di uscire dal cortile della scuola. Il cancello era stato aperto per poi richiudersi perché chi lo manovrava si era assentato per un’urgenza, e sarebbero rimasti tutti dentro per un bel pezzo, se lei non avesse hackerato la fotocellula: aveva posizionato una fronda raccolta da terra in mezzo al fascio di luce invisibile, in modo che il cancello rimanesse aperto. O quella volta che Arturo, dodici anni, aveva salvato la pasta della nonna, che per errore aveva aggiunto il sale nell’acqua di cottura tre volte: si era ricordato che le patate assorbono il sale, perciò dietro suo consiglio la nonna aveva aggiunto tre belle patate all’acqua salatissima e la pasta era riuscita… perfettamente sapida, così come le patate!
Per i bambini è più facile, per gli adulti ci vuole un po’ più di tempo, ma poi, quando si rendono conto che la tecnologia va al di là degli strumenti digitali, si aprono mondi. Riscoprono così la propria attitudine hacker nel fai da te, in qualsiasi lavoro artigianale, nell’arte di arrangiarsi, nel riciclare e re-inventare, attività comuni quando il dominio del consumismo era meno totalizzante. A quel punto anche per loro diventa importante volgere lo stesso sguardo agli strumenti tecnologici.
[esercizio] Prova anche tu a fare lo stesso, pensa a quando sei stato hacker, quando hai smontato qualcosa per capire come funziona, o quando hai trovato soluzioni originali (e magari divertenti) a un problema, quando hai ricomposto in modo originale alcuni elementi, quando sei stata fiera o fiero di aver creato un nuovo modo per fare qualcosa.
Una volta scoperto che abbiamo già fatto una cosa hacker, che si tratta di guardare le cose in un altro modo, possiamo gettare il cuore oltre l’ostacolo e cominciare a immaginare quel che si potrebbe fare aggiungendo un pizzico di attitudine hacker alle nostre attività quotidiane. Ecco che nuove pratiche, invenzioni, pensiero collettivo possono prendere forma in maniera inaspettata.
Hacker che si mettono in discussione
Come tutti i giochi radicali la cultura hacker non è priva di lati oscuri. Una pedagogia critica hacker implica un approccio a sua volta critico e dialogico verso la realtà hacker stessa, una realtà costituita da persone con orientamenti molto vari che vanno dal socialismo libertario al collettivismo, dall’individualismo liberista e imprenditoriale fino al suprematismo transumanista. Infatti, lo stesso substrato culturale che ha permesso a un personaggio dalle molte idiosincrasie come Richard M. Stallman di fondare la Free Software Foundation, ha anche formato Bill Gates, Steve Jobs e, una generazione dopo, Mark Zuckerberg, così come molti altri multimiliardari protagonisti di quella che altrove abbiamo definito la «resistibile ascesa» dell’anarco-capitalismo (Ippolita, 2012, parte seconda; Ippolita, 2019).
Una criticità ricorrente dell’attitudine hacker è la tendenza al «soluzionismo», approccio secondo cui qualsiasi problema (anche sociale) ha soluzioni tecniche. Con il rischio di scivolare nell’oscuro mito del progresso e di una razionalità risucchiata dal perverso ideale della tecnocrazia salvifica che annulla la dimensione umana e politica. Di certo la consuetudine con il fare tecnico conferisce conoscenze e dunque poteri non ordinari, che non è banale diffondere nella società, anche perché inveterati meccanismi di delega tecnocratica (affidamento agli esperti e conseguente emersione di gerarchie) sono spesso operativi al di là della volontà personale.
L’esperienza hacker presenta anche dimensioni individualistiche e performative che hanno a loro volta risvolti problematici: il culto dell’eccellenza e del superamento costante del limite possono spingersi fino al non riconoscimento del limite stesso come limite di tempo, di energie profuse e di limiti corporei.
Nella nostra idea di pedagogia hacker, che si muove nel solco della pedagogia critica (Freire, 2018), questi elementi vengono aiutati a emergere per essere affrontati in maniera dialogica e riflessiva. La consapevolezza delle ambiguità della cultura hacker è dunque precondizione necessaria per dare spazio alle potenzialità generative rispetto a quelle distruttive, alle opportunità rivoluzionarie rispetto ai rigurgiti reazionari, alle occasioni di diserzione rispetto ai tentativi di cooptazione (militari, servizi segreti, multinazionali, criminalità organizzata, ecc.). Fingere che non esistano non serve a sfuggire alle ombre più minacciose delle derive tecnocratiche.
Hacker-artisti
La dimensione multidisciplinare, interdisciplinare e perfino in-disciplinare è diventata un leitmotiv in questa seconda decade del xxi secolo. I progetti accademici così come i bandi di finanziamento non mancano di sottolinearne l’importanza, auspicando l’integrazione fra diverse visioni portate da équipe di artisti, scienziati, ricercatori, politici che collaborano armoniosamente fra loro. Questa narrazione si scontra nella realtà concreta con una sempre maggiore incapacità di dialogo e mutua comprensione fra campi differenti, fino all’impotenza, all’impasse pratica. Infatti, è innegabile il predominio degli approcci metrologici, (dal greco mètron, «misura») per cui ogni cosa, evento, elemento va misurato per costituire dei dati da analizzare: tanti dati diventano sinonimo di eccellenza, in una corsa senza fine alla datificazione, alla quantificazione che vorrebbe misurare persino la qualità di questi dati per poter effettuare predizioni accurate. Ma non tutto è misurabile, soprattutto non ciò che importa di più agli esseri umani: l’amicizia, l’amore, le scelte di vita, le società, la politica. Non sono problemi da risolvere con i dati corretti, ma dinamiche da vivere.
Ecco allora che analisi estremamente minuziose condotte sulla scorta di quantità sterminate di dati, ad esempio in campo medico, non riescono a dar conto delle angosce e del male di vivere, per cui è necessario ricorrere al parere del filosofo e della riflessione etica, al di là delle misurazioni. Lo stesso accade nell’educazione, nello sviluppo di comunità, nell’organizzazione aziendale, nella progettazione di politiche sociali e in mille altri ambiti. La quantificazione imperante si rivela per quello che è: uno spreco immane di risorse dettato da un’ideologia inconfessata, che vuole far funzionare il mondo senza problematizzare il proprio punto di vista.
Fare pedagogia hacker significa per noi mettere in discussione il nostro stesso essere hacker, rimetterci in discussione, re-inventando le nostre pratiche, cogliendone gli elementi critici per tracciare la nostra strada, mai lineare, un passo alla volta. Consapevoli, come si è detto, che la cultura hacker, nascendo all’interno di un ambiente in cui predomina uno sguardo tecnico pervertito dell’efficientismo industriale, ha in sé connaturato il rischio di deriva del paradigma soluzionista, iper-razionalista e perciò stesso irragionevole, disumanizzato perché alienato. Sentiamo l’urgenza di innestare nelle nostra pratiche l’anelito alla disalienazione di fronte alla tecnica, per colmare il fossato scavato dalla frammentazione disciplinare fra noi e il nostro stesso mondo, popolato da sistemi all’interno dei quali ci sentiamo troppo spesso come ingranaggi in megamacchine senza senso. Ridurre l’alienazione, un’alienazione tecnica e psicosociale prima ancora che economica, è possibile coltivando tecnologie appropriate non solo nel senso di idonee, adeguate a una determinata situazione, ma anche e soprattutto nel senso di proprie, specifiche, di nostra proprietà in quanto beni collettivi, costruite in stretta connessione all’umano, alla sua dimensione di precarietà, di ineffabilità, di non risolto. La forte presenza della dimensione artistica, poetica, simbolica, narrativa, del gioco non è quindi strumentale, ma consustanziale, necessaria. Ci permette di mantenere viva nelle nostre pratiche la dimensione del corpo, quella emotiva, conflittuale, relazionale e di potere, le dimensioni tipiche del vivente, per poi analizzarne i processi di ibridazione con le macchine che ci piacciono, per costruire relazioni conviviali.
L’intuizione della molteplicità e dell’incompiutezza è la radice e la ragione del nostro gruppo di ricerca: circe è un crocevia per persone affini ma molto diverse, chi si occupa di tecnica accanto a chi si interessa più all’arte (d’altra parte, arte viene dal latino ars, che è traduzione del greco téchne, quindi c’è una radice comune); l’informatica c’entra con le discipline umanistiche, la pedagogia e la sociologia possono mescolarsi con la scrittura di codice, la mediazione culturale, la filosofia. In ogni caso ci sono individui che, al di là della propria disciplina prevalente, riconoscono in sé la presenza di tutti questi motivi, in una dinamica di continua contaminazione reciproca. Dalla miscela dei nostri caratteri è emersa una proposta formativa per i percorsi educativi di consapevolezza digitale: laboratori in cui si mixano esplorazione dell’interfaccia e pratiche teatrali, analisi del codice e poesia, esperienza corporea e studio dell’hardware, il tutto al fine di vivere un’esperienza emancipante che possa allargare i nostri margini di libertà. La frequentazione dei lavori di Paulo Freire, Miguel Benasayag, Donna Haraway, François Laplantine, Pëtr Kropotkin, Gilbert Simondon fra gli altri continua a ispirarci.
Pedagogia hacker come (auto)formazione giocosa
Le attività di pedagogia hacker si presentano come (auto)formazioni giocose. Il gioco è la modalità d’elezione per apprendere insieme, a patto che sia un gioco appassionato, non un automatismo gamificato di coazione a ripetere. Con i giochi «hacker» che proponiamo ci piace indagare noi stessi, i nostri vissuti e smascherare gli schemi di gioco stabiliti da algoritmi gestiti da altri dei quali vogliamo esplorare le implicazioni sociali, politiche, psicologiche. Cerchiamo di de-programmarci dagli automatismi che i giochi del dominio infiltrano sotto pelle.
Il metodo della pedagogia hacker è quindi anche una dichiarazione di intenti: ci si fa hacker e si gioca per liberare il gioco, per recuperarne la dimensione visionaria e rivoluzionaria, per riscoprire la sua caratteristica imprescindibile di atto libero, aperto, creatore, caratteristica propria dell’umano come lo definiva già lo storico e filosofo Johan Huizinga alla fine degli anni Trenta. Il gioco non viene utilizzato come strumento educativo simpatico, per mandare giù l’amara pillola del sapere senza annoiare e anzi divertendo. Il gioco diventa una scelta di campo per sfuggire alla stasi delle procedure d’insegnamento certificate, per esercitare la capacità di immaginare, sovvertire la banalità della lezione cui seguirà una valutazione, per affinare il proprio potere di metamorfosi. Un gioco a ricompensa intrinseca, dove il premio siamo noi, riconquistati.
capitolo secondo
Noi e la tecnologia:una conferenza intergalattica
Il gioco è alla base della pedagogia hacker, perciò cominciamo raccontando proprio un’attività altamente giocosa per dar conto delle pratiche che sperimentiamo nei laboratori. Quella che segue è fra le nostre modalità preferite per inaugurare un percorso formativo, in particolare quando abbiamo tanto tempo a disposizione, magari più giornate. Questo gioco ha una doppia valenza: da una parte stimola una riflessione sul rapporto che ogni partecipante intrattiene con le tecnologie; dall’altra inizia a sperimentare una postura problematizzante, consentendo la formulazione di domande di senso sul tema, questioni che ci accompagneranno per tutte le successive riflessioni.
Come evocato dal titolo Conferenza intergalattica, l’ambientazione del gioco è fantastica-fantascientifica, particolarmente coinvolgente anche per i più giovani. Si comincia da un what if…?, cosa succederebbe se…?, per poi esplorare insieme le visioni che emergono, aprirsi alle scoperte in cui man mano ci imbatteremo. L’ipotesi fantastica è una straordinaria modalità per apprendere, come ci ha insegnato Ursula Le Guin (2022). Si tratta di affidarsi all’immaginazione come spazio di cura di sé e allo stesso tempo di trasformazione sociale e politica, come si esplicita con intensità nell’opera di James Hillman. Nel nostro caso si concretizza nell’attraversare con l’immaginazione mondi più meno possibili (o anche ampiamente impossibili, come in questo caso) per riflettere ed essere più consapevoli del nostro presente.
Ma bando alle ciance, iniziamo a giocare.
Nella galassia c’è un problema
Nella stanza si è fatto buio. A un tratto, ad alto volume, si impone la cadenza maestosa della «marcia imperiale», dalla colonna sonora di Star Wars, che introduce la nostra comparsa. Siamo agghindati da dignitari alieni, con mantelli e occhiali spaziali. È evidente che ci divertiamo non poco, il che non è accidentale, perché un gioco fatto per forza è l’equivalente di un lavoro coatto, niente affatto hacker. Quindi declamiamo il nostro appello:
La galassia è sull’orlo di un grande conflitto. I pianeti degli Ingegneri, dei Mistici, degli Smanettoni e dei Giurassici, mossi da incomprensioni reciproche e distanze ideologiche incolmabili, stanno per dichiararsi guerra, ognuno vuole far prevalere la propria idea e diventare egemone nel sistema stellare. C’è un’ultima possibilità di scongiurare la catastrofe: provare una mediazione. Sono quindi convocati i rappresentanti dei pianeta per un estremo tentativo.
La pace nell’Universo è a rischio, come al solito, più del solito. Ormai popoli di galassie lontane, con i loro codazzi di pianeti, hanno imboccato strade che sembrano incompatibili. L’ultima e più grave ragione di scontro è la tecnica e l’uso della tecnologia derivata. Chi la venera, chi non può farne a meno, chi la gestisce, chi la detesta… troppe le incomprensioni, visioni radicalmente opposte si fronteggiano. Un accordo è auspicato per scongiurare la catastrofe universale. I rappresentanti delle grandi correnti planetarie sono stati convocati, dall’esito del loro incontro dipendono le sorti dell’Universo.
A questo punto i partecipanti sono chiamati a scegliere il proprio pianeta di appartenenza, a seconda della propria attitudine prevalente nei confronti della tecnologia. Vi sono quattro grandi ammassi di pianeti:
Il pianeta degli Ingegneri. «Alla base del mio agire c’è il pensiero razionale, analitico; strutturo procedure». Per gli abitanti di questo pianeta la tecnica è disciplina, regole, semplici o complesse, ma pur sempre regole. Ci sono manuali, ci sono specifiche. Funziona quando si seguono le regole; altrimenti, inutile lamentarsi. Certo, si trovano a loro agio nelle regole anche perché spesso le fanno loro…
Il pianeta degli Smanettoni. «Il mio modo di sviluppare competenze, anche di alto livello, è provando e riprovando, per tentativi ed errori». Per gli Smanettoni la tecnologia è sempre un’occasione per metterci su le mani, per giocare, imparare, smontare, rimontare, smanettare. Non ricordo più come avevo fatto, dunque, ma sì, prova e riprova, e vedrai! Non funziona? Eh, fa niente, l’importante è smanettare!
Il pianeta dei Mistici. «Non ho idea di come funzionino le cose ma mi affascinano, mi sembra magia». Sul pianeta dei Mistici la tecnica, concretizzata negli oggetti tecnologici, ha un sapore divino. Funziona? Miracolo! Non funziona? Ah, concentriamoci, preghiamo, su, cerchiamo, inventiamo un rito adeguato! Troviamo qualche Esperto, un gran Mago, un Guru capace di rimettere ogni cosa al suo posto, ogni ingranaggio, circuito e sistema proprio dove deve stare! Ommmm ahhh, con la sola imposizione delle mani… spegni e riaccendi… Miracolo!
Il pianeta dei Giurassici. «Meno oggetti tecnologici, meno tecnica c’è nella mia vita, meglio è; a volte vorrei tornare a un mondo che non c’è più!». Per chi vive da queste parti la tecnologia è spesso sopravvalutata. Quanto tempo perso dietro ai virus del computer, a imparare come far funzionare questo o quel maledetto affare che poi di punto in bianco decide di imbambolarsi. E poi tutte queste comunicazioni, non serviranno solo per riempire il vuoto cosmico? Basta! La natura, ecco quello che piace ai Giurassici.
Posizionarsi come momento di riflessione su se stessi
Il solo fatto di dover scegliere dove posizionarsi attiva un primo momento riflessivo. Ovviamente nessuno appartiene unicamente a un determinato pianeta, la richiesta è quella di individuare la propria attitudine prevalente. Una domanda così semplice può aprire spazi di riflessione non scontati che muovono dalla tecnologia per arrivare a ogni altro ambito della vita. Come agisco quando sono in difficoltà? Qual è la mia strategia di apprendimento? Abbiamo imparato che l’attitudine nei confronti della tecnologia non dipende dall’estrazione sociale, dalla lingua, dall’età. Ci sono persone smanettone fin dall’asilo infantile e persone affascinate dalla magia mistica della tecnica dalla più tenera età; c’è chi ha sempre voluto disfarsi degli ammennicoli tecnologici e chi ha una predilezione per le regole capaci di ordinare il caos del mondo circostante e si sente ingegnere (del pianeta degli Ingegneri, s’intende!) a dieci anni, a trenta, a sessanta e a novanta.
È anche emerso che se i caratteri delle persone tendono a stabilizzarsi, le attitudini possono cambiare nel corso della vita. Ci sono persone che ricordano lunghe sessioni di montaggio e smontaggio di apparecchiature varie nella loro adolescenza per poi diventare decisamente inclini a quello che abbiamo inquadrato come misticismo. Infatti da adulte, quando qualcosa non funziona, spengono, magari effettuano una serie di manovre di scongiuro (contare fino a dodici, spostare il dispositivo lontano dalle correnti d’aria, respirare profondamente…).
Quando si lavora con gruppi intergenerazionali è interessante notare dove si posizionano i giovani e i meno giovani, i genitori e i figli, gli insegnanti e gli studenti. Sono momenti di conoscenza reciproca molto intensi, in cui possono emergere aspetti personali non scontati anche tra chi si frequenta da tempo; si assiste talvolta a posizionamenti contro-intuitivi. Ad esempio ci colpisce sempre la grande quantità di adolescenti e preadolescenti che si collocano nel pianeta dei Giurassici: la tecnologia ci fa perdere troppo tempo e distrugge il pianeta, dichiarano senza possibilità di appello.
[esercizio] Invitiamo chi legge a posizionarsi: dove ti troveresti maggiormente a tuo agio, tra gli Ingegneri, gli Smanettoni, i Mistici o i Giurassici? Hai sempre avuto questa attitudine nella vita? Sei indecisa o indeciso tra più pianeti differenti? Prova comunque a sceglierne uno ed evoca nella mente tre situazioni della tua vita che possono giustificare questa scelta.
La vita sul pianeta
Una volta approdati al proprio pianeta di elezione si chiede a ogni gruppo di inventare il motto del proprio mondo e disegnarne lo stemma. Gli abitanti dovranno poi discutere insieme definendo, sul loro pianeta:
– Come si comunica.
– Come si governa, come è organizzato il potere.
– Come ci si cura.
– Come si apprende/educa, come è la scuola?
– Quali sono i valori principali.
– Come si cercano le cose.
– Come si risolvono i problemi.
– Altro che ci si inventa di volta in volta.
Tutto viene riportato su un cartellone o su una piattaforma digitale; in genere preferiamo carta e pennarelli e ci è capitato di portare riviste per arricchire le produzioni con collage. Una volta terminato può avere inizio la vera propria conferenza.
Che la conferenza abbia inizio
Durante la conferenza ogni gruppo fa un intervento presentandosi, raccontando i propri presupposti e le proprie pratiche cercando di essere il più possibile convincente, persuadere gli altri gruppi che il proprio approccio è il migliore. Non mancano episodi divertenti, sono momenti conviviali per stare bene insieme. Ecco qualche accenno di ciò che ci è capitato di ascoltare:
Ingegneri: sono persone che cercano soluzioni attraverso numeri e schemi; quando si incontrano, si salutano scambiandosi un codice di riconoscimento. Comunicano attraverso onde elettromagnetiche mediate da strumenti tecnologici. Sul loro pianeta ogni cosa ha un codice, tutto nel mondo è catalogato, quindi quando devono cercare qualcosa la trovano sempre molto in fretta. Il loro slogan: ogni cosa al suo posto!
Smanettoni: non ci sono regole, ogni cosa la si inventa… provando! A scuola non ci sono spiegazioni, ti mettono di fronte a una situazione e ti dicono: «Ora fai da te». Il potere è organizzato secondo il sistema «creativocratico», non permette una grande stabilità di governo, ma è molto divertente e talvolta efficace. Cartelloni ipercolorati, lunghe discussioni per confrontarsi su idee originali sono elementi tipici; non hanno grandi regole, riti, progetti; hanno più chiaro lo stile, si sentono determinati, liberi, con un forte senso critico.
Mistici: si giocano con gli Smanettoni la palma d’oro della creatività. Sul pianeta dei Mistici, quando si vuole parlare con qualcuno si pensa a lui intensamente, quando si cercano le chiavi di casa perdute vengono bruciate delle foglie di alloro (la pianta) recitando la formula «chiave, vieni qui, che mi scappa la pipì». Una volta un gruppo di Mistici adolescenti ha utilizzato il proprio cartellone come spazio di rivendicazione del «sacro diritto al cellulare» rivolto ai loro genitori, presenti ma in altri gruppi: il simbolo che avevano disegnato era uno smartphone tra le colonne di un tempio, il loro motto: «Io sono il tuo smartphone non avrai altro smartphone all’infuori di me».
zuzzaGiurassici: non difettano di creatività, immaginazione e gusto per la provocazione. Ci hanno raccontato di pianeti organizzati come comuni primitiviste, o improbabili comunità ispirate all’essenzialità amish. Un gruppo di Giurassici tredicenni ha dichiarato: «Noi non rifiutiamo la tecnologia ma preferiamo usare il nostro tempo per altre cose come ad esempio andare in bicicletta, incontrare amici o ballare. Se venite sul nostro pianeta per comunicare vi invitiamo a una nostra riunione attorno a un falò, oppure possiamo inventare altri modi per dirci le cose, si ma poi… è sempre così importante comunicare? Per cercare chiediamo agli amici, usiamo la memoria, o ce ne facciamo una ragione se non riusciamo a trovare le cose».
Terminato il primo giro in cui ogni pianeta esprime le basi della propria quotidianità e del proprio credo proponiamo un momento in cui ogni delegazione può fare domande alle altre. Lo scopo è capire meglio le posizioni altrui, ma anche mettere in difficoltà, esplorare questi mondi immaginari, sollevare nuovi interrogativi e abbozzare risposte.
Può succedere quindi che si creino alleanze e che i diversi caratteri/pianeti si manifestino come attitudini possibili per ciascuno. Diventa allora possibile immaginare collaborazioni fra i pianeti, che si insegnano l’un l’altro alcuni comportamenti. I cartelloni possono diventare una mappa dell’Universo con punti di collegamento, piste che collegano un pianeta all’altro: ad esempio per andare dal pianeta degli Smanettoni a quello degli Ingegneri bisogna cercare di seguire le regole, magari prendere appunti sugli smanettamenti effettuati, e viceversa, per andare dal pianeta degli Ingegneri a quello degli Smanettoni, bisogna provare ad ammettere che a volte seguire alla lettera le regole non funziona, bisogna provarci e vedere l’effetto che fa. Queste procedure possono essere esplicitate in vari modi.
Una volta degli Smanettoni hanno scritto sul loro cartellone, tendendo una mano agli altri mondi (tranne che ai Giurassici…): Ingegneri+Smanettoni+Mistici = Intelligenza+Istinto+Emozioni.
Al termine del giro si chiede se qualcuno desidera cambiare pianeta o muovere guerra a qualche altro pianeta, o se ha trovato qualcosa di convincente negli altri pianeti che possa scongiurare la guerra, o se pensa di aver trovato una via d’uscita.
Il gioco può risultare più o meno appassionante, alcune persone si immedesimano al punto da diventare fastidiosamente aderenti al proprio ruolo, come se rivelassero così una parte di sé particolarmente autentica; se qualcuno si prende eccessivamente sul serio e progetta soluzioni globali grandiose per l’intera galassia, qualcun’altro all’opposto fatica a lasciarsi andare.
La condivisione
A questo punto è venuto il momento di uscire dai ruoli e tornare noi stessi (per qualcuno è importante un rito magico ad hoc perché non riesce a staccarsi dal personaggio). Proponiamo di riflettere insieme su quanto è accaduto, chiedendo alcuni contributi in particolare:
– Rispetto al mio ruolo: quanto mi sono forzato, cosa ho sentito di mio e cosa di non mio?
– C’è stato qualcosa fra ciò che è emerso che mi ha colpito, che è stato detto da qualcuno o qualcosa che è successo?
Alla prima domanda spesso qualcuno risponde di essersi stupito della naturalità con cui ha esagerato nel proprio ruolo, non si aspettava di essere così aderente (e fiero di esserlo), altri a un certo punto si sono trovati a disagio, alcuni raccontano quali elementi portati da persone di altri pianeti sono risuonati in loro.
In questa fase emergono sempre elementi interessanti rispetto a quello che ha colpito durante l’osservazione e l’interazione, le risonanze positive o negative. Di seguito riportiamo una email inviataci da un gruppo che dopo aver seguito un laboratorio ha riproposto l’attività nella loro associazione di genitori. Le osservazioni, in particolare rispetto agli Ingegneri, aprono questioni importanti:
Gli Ingegneri si sono rivelati inquietanti e semi-alleati della nebulosa! Forse perché unico gruppo non misto, composto di soli adulti? Hanno giocato davvero a fare gli spocchiosi: sanno tutto loro e fanno le cose come vanno fatte, seriamente. Nel loro mondo le Persone hanno tutte un microchip dalla nascita, sono dotate di scanner che si attiva appena ti avvicini a una persona per dirti chi è… (insomma un lager!) e solo loro possono salvare gli altri dallo strapotere della Corporazione… Bellissima la proposta di una carta comune (scritta solo da loro!) per allearsi e lavorare insieme agli altri pianeti… ma dopo rimostranze e critiche si sono ammorbiditi verso Smanettoni e Mistici… dei Giurassici userebbero solo i pappagalli viaggiatori per rilegare i manuali in pregiata pelle di pappagallo!
[…] Non solo erano tutti adulti, ma a parlare erano principalmente due maschi (bianchi e laureati, ovviamente) che nei propri gruppi sociali, di lavoro e di militanza, sono due piccoli capi molto propositivi, a tratti autoritari (sì, mi sono permessa di profilarli perché già li conosco bene tutti e due).
[…] Lo scrivo perché la cosa mi ha dato modo di riflettere su quanto siano anche gli stessi usi sociali dei singoli a rispecchiarsi nei loro approcci alle tecnologie, nella loro sicurezza di controllo, e non a caso questi due hanno scelto di riconoscersi come Ingegneri.
[…] Poi, si, lo confesso, ho calcato un po’ la mano quando loro stavano costruendo il loro mondo, cercando di dipingerlo anche come luogo della partecipazione (liquida) e dell’orizzontalità (tra pari, ossia tra avanguardie). Ho ricordato loro che, come detto nell’introduzione, gli Ingegneri sono quelli che scrivono le regole, e loro mi hanno preso alla lettera!
La dimensione del potere balza agli occhi, legata anche alla prevaricazione di un certo sguardo sul mondo in cui fra l’altro il tema del genere ha un ruolo centrale. È capitato in diverse altre occasioni che gli Ingegneri tirassero fuori atteggiamenti un po’ altezzosi, guardando gli altri dall’alto in basso. Notevole il fatto che nel mondo attuale c’è un certo ossequio e ammirazione nei confronti della postura ingegneristica, che spesso interpreta in maniera operativa la quantificazione imperante.
In genere i Mistici vengono presi in giro parecchio. Quando durante il gioco si posizionano è palpabile una certa vergogna: «Scusami, io sono così, spengo e riaccendo, non capisco nulla ma le tecnologie mi piacciono!». Poi giocando rivelano spesso una notevole immaginazione e autoironia; non è raro che altre persone, di altri pianeti, ne rivalutino l’approccio. Lo stesso vale per i Giurassici, che non appaiono mai banali retrogradi. Quando poi nascono delle alleanze e si mixano gli approcci accadono faville.
In quell’allucinazione condivisa che chiamiamo mondo reale, in questo inizio di xxi secolo, troviamo al comando l’ingegnere-smanettone (alleato allo psicologo). Progettano e realizzano, per conto di chi detiene le leve della produzione, sistemi in cui ci troviamo tutti coinvolti. Alla luce del potere di chi progetta le macchine, durante un laboratorio qualcuno ha rievocato l’icastica foto di Mark Zuckerberg, padrone di Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp, Oculus Rift, Threads), che si aggira in mezzo a una platea di persone che indossano un casco per la Realtà Virtuale (vr). Aleggia il mito della caverna di Platone, ma rovesciato: non è il filosofo che ha visto il mondo fuori della caverna e torna a riferirlo, ma un ragazzo diventato multimiliardario, nerd, che mostra a tutti un altro mondo, rimanendone però ben al di fuori.
Che la tecnologia sia un affare troppo serio per essere lasciata solo nelle mani delle multinazionali e dei tecnici?
Stare sul problema, esplicitare le domande
Le domande, a volte, fioccano: e quindi? Cosa abbiamo imparato con questo gioco? Cosa dobbiamo fare in pratica?
A sollecitazioni del genere, assolutamente comprensibili, ci piace reagire in maniera provocatoria: la fretta di trovare soluzioni è da Ingegneri, al limite da Smanettoni. Il soluzionismo, abbiamo scoperto, è un atteggiamento fra tanti altri possibili; un atteggiamento che ai giorni nostri va per la maggiore, noi però che siamo bio-diversi, possiamo anche sperimentare altre strade. Ad esempio, come ci ha insegnato Donna Haraway (2020), possiamo provare a «stare sul problema», a «rimanere nella turbolenza» (Staying with the trouble), a esplorare ulteriormente le questioni emerse, attraverso le nostre diverse sensibilità, tutte preziose.
Si apre quindi una nuova fase molto importante. Nel solco del metodo pedagogico freiriano proviamo, a partire dalle parole significative emerse con maggiore ricorrenza durante il gioco, a formulare domande, temi di indagine; a esplicitare le questioni che si sono imposte sotto traccia durante l’attività.
Di seguito riportiamo quelle emerse con più frequenza, ricordando che ogni volta, a seconda delle sensibilità dei partecipanti, i focus presentano una variabilità degna di nota.
Tecnologia e potere. Durante il gioco spesso c’è una tendenza da parte di chi è più a suo agio con le tecnologie a trattare con sprezzante sufficienza chi ne capisce di meno. Questo dà fastidio a molti e porta a formulare alcune domande: quale asimmetria di potere c’è tra chi ne capisce di tecnologia e chi no? Quale potere conferisce saper progettare le macchine? Come si declina questo potere nella società attuale? Come si contrasta quando si manifesta come dominio? Abbiamo gli strumenti, anche interpretativi, per rispondere o ce ne servono di nuovi? E se sì, quali? Se ci sembra che oggi comandi l’approccio dell’ingegnere-smanettone affiancato dallo psicologo, che spazio c’è per altri approcci? Uno sguardo giurassico o mistico può avere un valore? Quale?
Il vissuto di impotenza. Soprattutto da parte di Mistici e Giurassici emerge spesso la sensazione di sentirsi, nella vita quotidiana, alienati rispetto al funzionamento dei dispositivi e della rete di Internet. Lì dentro succede qualcosa di cui sentono di non avere né conoscenza né, soprattutto, controllo: una percezione inquietante che genera un vissuto di impotenza. Ecco gli stessi argomenti trasformati in domande: Cosa succede se nella mia vita è invasiva la presenza di un dispositivo che non posso controllare? Quale processo manipolatorio si attiva senza che io me ne accorga? È possibile avere un reale controllo su tecnologie così complesse? Ma le cose cambieranno mai? Esiste un modo per sentirsi meno impotenti? Cosa possiamo fare qui e ora? Come faccio a svincolarmi dall’inerzia delle abitudini? Posso essere in qualche modo più attivo, anche se la mia indole non andrebbe in questa direzione?
La funzione/valore dei dati. Si è notato talvolta, in particolare ascoltando i discorsi degli Ingegneri, come vi sia da parte loro una sorta di culto dei dati; fanno continuamente riferimento a statistiche e misurazioni come prove di valore. I dati assurgono a indicazioni oracolari di verità nascoste all’occhio dei mortali, oracoli da seguire senza tentennamenti una volta svelate dai sacerdoti dei dati, coloro che sono in grado di interpretarli e presentarli al mondo. Ci siamo allora chiesti: che ruolo hanno i dati oggi? Sono così affidabili? Sono alla base della distopia che ci attende? C’è un modo alternativo di relazionarsi a loro? O dobbiamo radicalmente allontanarci dai numeri? Ci stiamo intossicando? Ma se mettiamo in discussione i dati e le misurazioni, non c’è il rischio che crolli il paradigma scientifico, e che torniamo alla superstizione?
Il tempo. Fra i temi problematici, ritorna frequentemente il tempo. Gli Smanettoni vengono derisi per il tempo che impiegano a trovare soluzioni, i Giurassici perché senza tecnologia tutto per loro diventa più difficile e quindi più lento, e loro rispondono che la qualità della vita è data proprio da questa lentezza, e che in realtà la tecnologia non fa risparmiare tempo ma ne fa perdere ulteriormente. I Mistici sostengono che non porsi troppe domande è un buon modo risparmiare tempo e godersi quello che resta della vita, per poi comunque ammettere che perdono un sacco di tempo «incantati» dai dispositivi. Alcune domande a questo proposito: come affrontare la fatica del mondo accelerato di oggi? Come rallentare se il super-io ci fa sentire in colpa se lo facciamo? Come si fa oggi a riconquistare il tempo? Quale dimensione di potere c’è nel furto del tempo? Come lo si combatte?
La scelta individuale e la scelta collettiva. La scelta tecnologica diventa specchio di una scelta psicosociale. Le tecnologie con cui viviamo, di cui ci circondiamo, dicono molto di noi, del modo in cui ci trattiamo reciprocamente e di come ci relazioniamo con il mondo circostante. Ripensando ai diversi pianeti, ci si chiede se sia possibile andare contro-corrente una volta che il mondo in cui si è immersi va tutto in una determinata direzione. Alcuni interrogativi in merito: come attivare cambiamenti sul fronte tecnologico nel momento in cui le consuetudini si muovono in direzione opposta? È possibile creare spazi alternativi in un mondo in cui la tecnologia ha già colonizzato tutto lo spazio-tempo? Se l’intuizione è liberarci insieme, come si fa? Se vogliamo stare alla larga da questi dispositivi, come si fa?
Rimanere nella turbolenza
Abbiamo giocato alla conferenza intergalattica con bambini delle scuole elementari e medie, con genitori e figli, con universitari e professori, con attivisti e cooperanti. Gruppi diversi hanno adattato l’attività ai rispettivi contesti.
È un gioco che apre domande, ma non dà risposte.
Per noi è un buon modo per smarcarci dalle richieste di risolvere una situazione insegnando, da esperti, cosa bisogna fare. Insegnanti ed educatori ci cercano spesso per questioni legate al cyberbullismo, all’azzardo e alle «patologie» videoludiche; associazioni, cooperative, servizi, progetti accademici e gruppi informali per fornire soluzioni alle loro necessità di comunicare e organizzare i flussi di lavoro, e così via. In tutti questi casi non è facile sottrarsi al ruolo di esperti tecnologici in cui veniamo incasellati.
Eppure sottrarci è necessario, soprattutto per evitare il concreto rischio di ritrovarci a operare come servizio tecnico laddove le questioni sono di ordine sociale, psicologico, relazionale e politico. Le disfunzionalità tecniche sono uno dei modi in cui emergono queste conflittualità, ma non sono quasi mai il nocciolo della questione.
I temi e le problematiche che ruotano intorno alla tecnologia oggi presentano delle dimensioni oppressive spesso celate, oppure esplicite ma ritenute ineluttabili. Si vocifera che questo è il nostro futuro, dobbiamo adeguarci; l’avvenire viene concepito come una strada senso unico, rendendo così impossibile qualsiasi sguardo differente, qualsiasi pratica trasformativa.
È necessaria allora una comprensione d’insieme, uno sguardo ampio, l’attivazione di un processo dialogico e problematizzante che porti all’emersione di quelli che in termini freiriani vengono definiti temi generatori, ovvero le cause più profonde delle contraddizioni e delle situazioni problematiche che caratterizzano ogni situazione storica e sociale, questioni che esplorano la relazione tra l’uomo con se stesso e l’uomo con il mondo. Solo così possiamo cominciare a tracciare vie emancipatorie: ponendoci l’obiettivo, come mostrava Simondon, di disalienare e disalienarci da noi stessi e dal mondo, con un fare, un metodo, una pratica, che sia già non alienante. Fare educazione in un mondo ad alta intensità tecnica non può prescindere da un lavoro di ricerca collettivo su questi temi per aprire a possibilità di cambiamento liberatorio, personale e sociale. È una sfida che può essere affrontata solo tessendo alleanze fra sensibilità e competenze differenti: c’è bisogno di ingegneri e psicologi ma anche di visionari, attivisti, sciamani, hacker, letterati, filosofi, artisti…
Darsi tempo per mettersi in gioco …e creare nuove pratiche
Aprire un percorso di formazione-ricerca con i gruppi attraverso un lavoro come quello descritto in questo capitolo significa anche sostenere l’emersione delle specificità, delle sensibilità e delle urgenze di ognuno, cosa che aiuta anche noi conduttori a farci un’idea su quali sono le urgenze di riflessione e apprendimento su cui focalizzarci. Non di rado nei laboratori ci si ferma alla dimensione riflessiva, a volte però emergono anche ipotesi di progetti, azioni concrete che proseguono in autonomia.
Tutto questo ha bisogno di tempo. Più si sarà disposti inizialmente a lasciar da parte le questioni operative e progettuali scottanti, più ci si concederà il lusso di giocare insieme, più si sarà efficaci in seguito nell’azione pratica. Ci è capitato anche con attivisti dei centri sociali. In quello che un tempo era xm24 nel quartiere Bolognina a Bologna convivevano diversi collettivi. Si era creata una situazione esplosiva legata all’uso di Facebook per la promozione delle attività. Per i collettivi più hacker affidarsi a un macchina della propaganda made in Silicon Valley con l’illusione di raggiungere cerchie di persone diverse era un’incoerenza manifesta; per altri era necessario per non scadere in quello che identificavano come tipico elitismo nerd, chiuso nella torre d’avorio di Linux e dintorni.
Il laboratorio fu molto partecipato, da social entusiasti così come da social scettici, da smanettoni così come da persone del tutto digiune di tecnologia. Si giocò a lungo ribaltando i propri ruoli, i partecipanti immaginarono di essere gli abitanti di un modo sotterraneo e di dover scegliere dei metodi per comunicare con il mondo in superficie. Tutti si misero in discussione giocando con altri punti di vista. L’apertura di un nodo Mastodon da parte del collettivo BiDa (https://bida.im/) è avvenuta anche in seguito a quell’attività.
Nell’ottobre 2023 abbiamo rimaneggiato la conferenza intergalattica in occasione del Laboratorio di immaginazione utopica tenutosi a Perugia (https://circex.org/en/news/laboratorio-immaginazione-utopica-perugia-call) da cui prenderà vita il terzo volume di Lezioni di Anarchia.
capitolo terzo
Gioie e sofferenze: primo, chiedere
Sappiamo noi di cosa hanno bisogno!
Crediamo di sapere. Come adulti, in molti siamo abituati a pensare i mondi digitali come sinonimo di adolescenti smanettoni che ci surclassano e quindi, grazie a un’improbabile proprietà transitiva, li consideriamo uno spazio di piacere per loro, a meno che non incontrino bulli o qualche pericoloso «adescatore». Già nella conferenza intergalattica ci siamo accorti che non è proprio così, eppure il pensiero molto diffuso rimane: abusano del digitale proprio per via di questo sentirsi a loro agio, ovvero perché esagerano con il piacere. Devono imparare a controllarsi, per questo è nostro dovere porre loro dei limiti.
Consapevoli che in rete si possono incontrare brutte persone, sentiamo anche il dovere di metterli in guardia, magari coinvolgendo operatori delle forze dell’ordine, polizia postale o simili. Questi esperti spiegheranno che alcuni comportamenti costituiscono reato, perciò è fondamentale denunciarli; in questo modo il loro intervento instillerà il timore della punizione in chi aveva magari in animo proprio quei comportamenti criminali.
Siamo anche molto preoccupati dei contenuti che gli adolescenti si scambiano, specialmente attraverso WhatsApp, Telegram, Snapchat e così via. Violenza, sesso esplicito, razzismo: immagini inquietanti e lontane dai nostri valori. Forti delle nostre certezze proponiamo percorsi di «prevenzione dei rischi del digitale».
Ai ragazzi, di fronte a tutto ciò, qualcosa non torna. Si chiedono e ci chiedono: come è possibile che gli adulti si pongano con tutte queste certezze? Cosa ne sanno della mia esperienza, che neanch’io riesco tanto bene a descriverla, su un tema nel quale anche gli esperti annaspano e rincorrono?
Oppongono spesso resistenza alle nostre proposte, fino al punto di replicare semplicemente «sì», «hai ragione», disconnettendo la testa e le emozioni, consapevoli che le proprie esperienze sono da un’altra parte.
I limiti dei nostri radar
Non solo pensatori poco noti o dichiaratamente di area libertaria, ma anche una studiosa mainstream come Shoshana Zuboff, nel suo imponente lavoro su quello che ha definito «capitalismo della sorveglianza» (2023), ci ricorda che i radar a cui facciamo ricorso per intercettare le esperienze oppressive sono stati in molti casi settati su categorie precedenti alla comparsa delle tecnologie digitali. Rivelano quindi solo quello che già conoscono, con il rischio di lasciar passare sotto traccia un ampio spettro dell’esperienza contemporanea. Declinato nel nostro discorso ciò significa, ad esempio, sapere bene che il bullismo è una brutta cosa, magari lo abbiamo anche sperimentato, possiamo quindi comprendere che il cyberbullismo sia qualcosa di altrettanto brutto, anzi ben peggiore, e provare empatia per chi lo subisce. Ma che dire invece di eventuali esperienze di disagio nuove, inedite? Facciamo fatica a intercettarle, non abbiamo gli strumenti per sintonizzarci su quelle frequenze. Sono vissuti a cui anche gli adolescenti e gli operatori più giovani fanno fatica a dare un nome, mancano parole ed espressioni idonee. Di queste sofferenze è però forte il vissuto corporeo: da questo possiamo ripartire, con un’attitudine di ricerca.
Primo, chiedere
È meglio allora, per chiunque voglia affrontare questi temi sul fronte educativo, partire da una domanda, e aspettare la risposta, senza la presunzione di conoscerla già.
Come circe e come educatori, abbiamo imparato che il modo più generativo per riflettere insieme agli adolescenti è porsi in modo dialogico, in ascolto autentico. Nell’ambito del digitale è ancora più palese, perché c’è la macchina, la tecnologia che media, che sta in mezzo a noi. Interrogare è uno dei movimenti dell’apprendimento esperienziale e anche uno dei fondamenti dell’attitudine hacker. Ci poniamo, insieme, in maniera interrogativa nei confronti della macchina e di noi stessi. Ascoltiamo e ci ascoltiamo.
Un buon modo per cominciare un percorso formativo sui mondi digitali, o anche solo per entrare in relazione con un adolescente su questi temi, è allora porre questo semplice quesito: nella tua esperienza con lo smartphone, cosa ti fa stare bene e cosa male?
Domanda che spiazza, se posta con sincera curiosità. Domanda da cui si può imparare molto.
Ascoltando le risposte degli adolescenti, la prima cosa che si scopre è la complessità delle esperienze nel digitale e la loro ambivalenza. L’attrazione verso i dispositivi digitali risulta spesso affiancata da una altrettanto significativa tensione repulsiva; la soddisfazione si alterna a vissuti quotidiani di sofferenza, di ansia e di stress.
Cosa hanno detto i ragazzi?
Una volta posta la domanda «cosa ti fa stare bene e cosa male con il tuo smartphone o nei mondi digitali?», è necessario darsi tempo, chiedere esempi, aneddoti, formulare domande per approfondire e capire meglio quello che intendono, ascoltare le risposte e annotarle: su una lavagna, su cartelloni, oppure in un pad, su un cloud, tramite un servizio in cui riponiamo fiducia.
Di seguito riportiamo alcune delle risposte più ricorrenti che abbiamo raccolto in questi anni da ragazzi e ragazze. Non hanno un valore statistico, ma sicuramente possono aprire (e hanno aperto a noi) panorami ricchi di spunti.
Mi fa stare male: 1. Il tempo rubato. La risposta perdere tempo sta diventando sempre più frequente. Si cita spesso il binge watching su Netflix, le notti passate a cazzeggiare tra piattaforme streaming e social media. Sono proprio i social i più accusati: su questo fronte la palma di maggiore ruba-tempo la conquista TikTok, in cui questa sensazione viene amplificata, ci dicono, dalla «stupidità dei contenuti», «si continuano a vedere cose ignoranti!», è un «posto pieno di cazzate eppure ci sto». Anche Instagram viene citato spesso, dice Luca: «Continuo a scrollare e vorrei riprendermi la mia libertà». Il termine trappola ricorre più volte.
2. Non essere mai lasciati in pace. «Se hai lo smartphone non puoi mai stare in pace!». Ci riferiscono che i genitori chiamano sempre nei momenti peggiori, ma anche gli amici quando si vuole stare per conto proprio o in intimità; arrivano notifiche di continuo. La distrazione, che noi adulti percepiamo come spazio in cui i ragazzi di oggi sguazzano, in realtà è percepita come contesto di forte sofferenza.
3. Sentirsi sempre sotto controllo. Legato al punto precedente viene evidenziata la sofferenza di sentirsi monitorati, in particolare dai genitori. La raggiungibilità costante e il dover rispondere prontamente a richieste come «dove sei?», «con chi sei?», «quando torni?», è uno degli elementi di sofferenza più grande, sconosciuta agli stessi adulti.
4. Disagi relazionali. Sotto questa categoria abbiamo riunito, su proposta di un gruppo di adolescenti, tutte le situazioni emerse in cui i social e le piattaforme hanno portano disagio e problemi relazionali: «Quando mi aggiungono ai gruppi WhatsApp e io non voglio partecipare!»; «Quando devo rispondere ai messaggi e non so cosa dire!»; «Mandare i messaggi e non sapere quando la gente ti risponde»; «Rispondere male d’impulso a un amico quando mi manda meme, e poi vergognarmene»; «Scrivere quello che penso quando sono arrabbiata e postarlo, e poi pentirmene».
5. Apparenze. La rete sembra piena di persone finte. Fa soffrire incontrare persone non autentiche. Non ci si riferisce a possibili adescatori o imbroglioni che si manifestano con un’identità falsa per ingannare, ma a tutte le persone che sui social media costruiscono un’immagine di sé fittizia, non rispondente alla realtà, disconnessa, pur di collezionare like. A quanto pare lo fanno «praticamente tutti». Certo, sui social tutti (compresi noi) devono essere un po’ finti, come vedremo fa parte delle regole del gioco!
6. Ansia e depressione. «Lo smartphone ci mette ansia! È depressivo». Reiterano l’oppressione percepita rispetto al controllo, il fastidio per l’incontro con persone finte, sempre perfette; ci sembra di intendere che c’è di più, ma non riescono a spiegarlo bene. Lo sentono, senz’altro quei vissuti sono molto vividi in loro. «Ti paragoni agli altri e ti prendi male». Un malessere che può sorgere anche a riguardare vecchie chat o foto, sottolineano.
7. Fare male psicologico. In questa categoria, così denominata dagli stessi ragazzi, vengono classificati vissuti di tristezza provocati dalla lettura di commenti aggressivi sotto i post di qualcuno, dal vedere utenti che prendono in giro le persone più fragili, cyberbullismo, revenge porn, ricatti e tentativi di truffe online. Perché in rete si diventa così cattivi? Domanda non retorica.
8. Economia. Emerge anche la questione economica. «Mi pesa quando faccio shopping online e spreco soldi per cose inutili, quando compro mille skin (outfit personalizzati che modificano l’apparenza) per il mio personaggio di Fortnite e poi magari non le uso neanche!». Anche il fatto che la rete sia piena di pubblicità viene indicato come elemento molto fastidioso.
9. Quanto sento che il telefono è fuori controllo. Un po’ ridendo ci dicono: «Poi ci sono delle volte in cui lo smartphone sembra spiritato, fa delle cose che non sapremmo spiegare, fa quasi paura. Ci inquieta quando parliamo di un certo argomento e poi ci arrivano pubblicità che riguardano proprio quella cosa!».
Mi fa stare bene: 1. La musica. Al primo posto si colloca, nella nostra esperienza, la musica: non lo avremmo immaginato. Gli adolescenti ci hanno detto che lo smartphone è uno strumento che «fa stare bene» perché permette loro in qualsiasi momento di ascoltare musica, soprattutto di ascoltarla in cuffia. Raccontano che rilassa in questo mondo frenetico, dà l’energia per affrontare la giornata, riesce a cambiare l’umore quando non tutto va come dovrebbe.
2. Restare in contatto con le persone importanti. Al secondo posto troviamo quello che forse ci saremmo aspettati al primo. Ci teniamo a far notare un dettaglio fondamentale: non ci dicono «stare in contatto con tutti gli amici e follower che ho sui social o nella rubrica», ma parlano esplicitamente delle persone importanti, che, ci ricordano, «si possono contare sulle dita di una mano». Le persone importanti talvolta non fanno parte della cerchia degli amici con cui si condivide lo spazio fisico, ma a volte sono contatti costruiti attraverso il mezzo digitale, con cui costruiscono relazioni anche molto significative.
3. Trovare nuovi amici. I social per trovare nuovi amici? A questa affermazione più di un adulto è pronto a storcere il naso, anche perché «chissà chi si incontra su Internet!». Invece i ragazzi ci tengono a raccontare come attraverso siti, piattaforme, pagine social in cui ci si incontra perché si condivide una passione comune possono nascere relazioni importanti. Chi lavora con i più giovani può testimoniare che è davvero così.
4. Informarmi sui miei interessi. Al quarto posto gli adolescenti ci dicono che lo smartphone è molto utile per informarsi e rimanere aggiornati sui loro interessi: sport, fumetti, elettronica, musica. Ci spiegano di apprezzare il fatto che attraverso i tutorial o la condivisione di trucchetti, tricks, possono imparare sempre nuove cose in questi campi. Non è però solo una questione di «cosa», ma anche di «con chi», ci tengono a ricordarci ancora che spazi social legati a interessi specifici (la pagina che tratta di manga, musica trap, giardinaggio…) sono un connettore per incontrare persone simili a sé, creature simili diremmo noi; sono spazi di agio in cui sentirsi capiti nelle proprie passioni e sensibilità.
5. Lo scrigno per conservare i ricordi preziosi. Questa risposta ci ha molto sorpreso, non ci avevamo proprio pensato. Eppure è tornata più volte. Lo smartphone, ci raccontano, è per loro uno spazio per raccogliere i ricordi, un piccolo scrigno. Mostrano la foto della nonna che non c’è più, di una vacanza con gli amici in cui si è stati particolarmente bene, un messaggio WhatsApp di una persona a cui tengono molto. «È tutto qui dentro», ripetono. Nel mondo in cui le foto non si stampano più, in cui non ci si scrive più lettere e neanche bigliettini d’amore o d’amicizia da un banco all’altro, e tutto questo non si può conservare nel «cassetto dei segreti» rimane solo lo smartphone a racchiudere tutto ciò che è prezioso, «ma è una tragedia quando si rompe o si cancellano per sbaglio», concludono.
6. Fare cose creative. Lo smartphone è importante per fare cose creative, in particolare per chi è appassionato di fotografia, video e musica o chi si diletta con applicazioni di editing e fotoritocco. Più di recente riferiscono di utilizzare le cosiddette ia (Intelligenze Artificiali), in particolare i sistemi generativi per creare personaggi fantastici e racconti illustrati.
Ridere e non pensare
Un altro elemento che emerge spesso è l’importanza di utilizzare gli strumenti digitali per distrarsi, per «ridere e non pensare». Non lo abbiamo incluso negli elenchi precedenti perché si fa fatica a collocarlo: fa stare bene o male? È vero, ci fa stare un po’ meglio, però è un riso amaro, una ricerca di non sentire niente, un «drogarsi» di risate coatte per soffocare l’ansia, per non pensare alla fatica della vita; è uno stare meglio che però ci ricorda il nostro stare male, è un anestetico che, quando finisce, stiamo ancora peggio.
Intervistare lo smartphone
La conferenza intergalattica raccontata nel capitolo precedente e l’approfondito squadernare la domanda «cosa ti fa stare bene e cosa male con il tuo dispositivo?» appena esplorata, sono due possibilità per cominciare a riflettere con le persone e i gruppi rispetto al proprio rapporto con le tecnologie, a condividere costruendo significato insieme, intuizioni, storie, frammenti di vita, facendo emergere in modo interrogativo le questioni problematiche.
Le possibilità per lavorare con sfumature diverse sulla disalienazione tramite la problematizzazione sono limitate solo dalla nostra immaginazione. Riportiamo qui una terza possibilità che abbiamo chiamato Intervista allo smartphone; rientra nella categoria del «chiedere», per davvero, senza pensare d’avere già in tasca la risposta, e ascoltare.
L’idea è proporre una surreale immedesimazione con il proprio smartphone, ispirati dalla tecnica psicodrammatica dell’«inversione di ruolo» (Moreno, 1987; Boria, 2003). Chi vorrà sperimentarsi dovrà calarsi nei panni del proprio dispositivo (device) in modo che il conduttore (o un altro componente del gruppo) lo possa intervistare. Oltre che aiutarci a ragionare sui temi già accennati è un’occasione per soffermarsi su una relazione intima data per scontata.
Si tratta anche di conferire e legittimare, seppure nel gioco, un’agentività propria al dispositivo, iniziando a mettere in discussione la convinzione che sia «solo uno strumento», e di conseguenza il postulato in genere non esplicito che la tecnologia sia neutra e dipenda dall’utilizzo che ne fanno gli esseri umani.
Giocando questa inversione abbiamo ascoltato tante storie, simili e diverse, mai banali.
Di seguito riportiamo un’intervista fatta da Davide al telefono di Mohamed, un allievo di diciotto anni di Anno Unico, che si era offerto volontario per sedersi sulla «sedia magica» e trasformarsi nel suo dispositivo:
Davide: Buongiorno telefono di Mohamed, ti chiederei innanzitutto di presentarti. Come sei fatto?
Telefono di Mohamed: Buongiorno, sì, sono il telefono di Mohamed, sono così, con il vetro un po’ rotto. Questa è la prima cosa di cui tutti si accorgono di me, un giorno lui mi ha fatto cadere. E da quel giorno purtroppo sono così, un po’ brutto.
d: Che faccia aveva mentre precipitavi a terra?
t: Era terrificato! Sapessi quanto si è spaventato! Non avrebbe potuto più mantenere i contatti con i suoi amici, sapere quando uscire, essere aggiornato, e poi i suoi genitori si sarebbero arrabbiati e non è detto che gliene avrebbero ricomprato subito uno nuovo.
d: Da quanto sei il suo telefono?
t: Mi ha comprato l’anno scorso, dopo che quello che aveva prima si è rotto. Lui è uno che i telefoni vuole tenerli il più possibile, finché funzionano (la famiglia di Mohamed ha qualche difficoltà economica).
d: Quando ti utilizza per la prima volta durante la giornata?
t: Io sono la prima cosa con cui Mohamed si relaziona al mattino. Però non è che guarda i social. Lui mette una canzone, questo lo fa sentire bene, gli dà la forza di alzarsi.
d: Guardando le app che ha scelto e che utilizza di più cosa si capisce di Mohamed?
t: Gli piace la musica, è una delle poche cose che lo fa stare davvero bene, e ama la fotografia. Ha scaricato otto applicazioni legate alla fotografia, questo dimostra che per lui il cellulare è un importante strumento per esercitare questa sua passione.
d: Quando lo hai visto innervosirsi per causa tua?
t: Quando non c’è campo si prende davvero male. Si sente lontano dal mondo. Una cosa che lo inquieta è poi quando partono gli aggiornamenti automatici. Si arrabbia perché non ha più controllo su di me, dice che sono posseduto.
d: Molte grazie, telefono di Mohamed, del tempo che ci hai dedicato, vuoi mandare un messaggio al tuo proprietario?
t: [Ci pensa un attimo…] Di innervosirsi un po’ di meno, e poi di prendersi più cura di me!
d: C’è qualcuno qui dentro a cui vuoi affidare questo messaggio, in modo che quando Mohamed tornerà potrà riferiglielo?
t: A Sara…
Questa fase termina con Mohamed che esce dal ruolo del suo telefono e torna se stesso, e Sara gli riporta il messaggio del suo telefono: «Ho un messaggio per te… il tuo smartphone ti vuole dire di innervosirti un po’ meno e prendersi più cura di lui!».
Anche solo un breve momento come questo, in cui i temi volutamente si sfiorano appena, è stato sufficiente per mettere in campo tantissimi elementi che potranno essere oggetto di riflessione, di confronto, di apprendimento in momenti successivi. Basta poco per aprire mondi:
– L’importanza della musica che moltissimi ragazzi confermeranno essere «la cosa più importante nel mio smartphone», spazio di rifugio, serenità, convivialità.
– L’utilizzo creativo attraverso la fotografia, la soddisfazione nella ricerca di immagini e nel fotoritocco.
– La cosiddetta fomo, Fear Of Missing Out (Paura di essere lasciati fuori), uno dei timori maggiori degli adolescenti: allontanarsi dal digitale significa faticare a organizzarsi con il proprio gruppo di pari di riferimento, perdere informazioni fondamentali che «non si può non sapere».
– La questione del denaro: lo smartphone ha un costo non indifferente, averne uno vecchio o rotto segnala inequivocabilmente un’appartenenza di classe; per molti ragazzi è motivo di disagio nel confronto con i coetanei.
– Le case produttrici di software esercitano un continuo controllo su strumenti che non sono mai completamente dell’utente; questo «spossessamento» genera inquietudine.
– L’importanza del prendersi cura della macchina (Milani, 2022).
È interessante rilevare come dopo questa «intervista» in aula si sia aperto un dibattito su come i telefoni siano in grado «autodistruggersi» attraverso l’obsolescenza programmata e sulla dimensione oppressiva di questa scelta delle aziende.
[esercizio] Chi legge può provare a calarsi nei panni del proprio smartphone. Può leggere e rispondere una alla volta alle domande che seguono. In conclusione, può scrivere su un foglio il messaggio a sé stesso che lo smartphone invierà e rileggerlo quando tornerà nei panni umani.
Buongiorno signor smartphone, puoi descriverti? Chi è il tuo proprietario? Quando vi siete conosciuti? Ricordi il momento in cui sei stato per la prima volta tra le sue mani? Che faccia aveva? Quando ti usa la prima volta la mattina? E l’ultima la sera? Quali delle tue app usa di più? Quando? Ci sono dei momenti in cui ti appare buffo mentre ti usa? Quando ti sembra davvero stanco di te? Quel che fa con te, può farlo anche in altri modi? Quando lo hai visto preso male nei tuoi confronti? Quando ti vorrebbe far scomparire? Si prende abbastanza cura di te, in quale modo? Quando ti ha causato qualche problema relazionale? Quale messaggio vuoi dare al tuo proprietario? (Scrivilo su un bigliettino).
Cosa risuona, quali urgenze
Le attività proposte in questo capitolo e nel precedente ci aiutano a cogliere quali sono le urgenze di riflessione e apprendimento, le traiettorie di ricerca condivisa a cui i gruppi che incontriamo sono maggiormente interessati. Solo una volta acquisita questa consapevolezza possiamo ipotizzare degli affondi, proporre stimoli e percorsi di riflessione che rimarranno in ogni caso fortemente dialogici ed esperienziali.
Allo stesso modo, nel libro che avete tra le mani, tante delle domande, questioni, criticità poste dalle voci riportate in questi primi capitoli troveranno spazi di approfondimento nei capitoli che seguono. Continuando a camminare e a domandare, senza pretesa di esaustività.
capitolo quarto
Notifiche, corpi e poesia
Laboratorio dopo laboratorio, la pedagogia hacker si è fatta riflessione su come sostenere lo sviluppo di consapevolezza nel rapporto tra umani e macchine. Per attivare processi riflessivi, per sostenere l’attivazione consapevole di uno sguardo strabico in cui gli individui possono con un occhio osservare se stessi e con l’altro le caratteristiche dell’ambiente tecnologico che abitano, è emersa spontaneamente l’adozione di un approccio metodologico di tipo esperienziale (Boud, Cohen, Walker, 1993; Reggio, 2010). In questo modo, da una prospettiva decentrata, si possono evidenziare le interazioni fra il sé e l’ambiente che lo circonda e acquisire maggiore consapevolezza su di esse.
Osservare le dinamiche relazionali fra persona e ambiente digitale, per un verso rivelerà elementi comuni a ogni essere umano, per l’altro rivelerà aspetti necessariamente personali e unici, mettendo in evidenza il ruolo di vissuti, immaginari, entusiasmi, resistenze, attitudini, rappresentazioni dell’universo individuale e sociale che ognuno abita, le proprie risorse e vulnerabilità. Ancora, mostrerà le tensioni economiche e politiche che si celano dietro queste relazioni.
La prospettiva di apprendimento esperienziale che adottiamo focalizza il suo interesse sulla capacità degli individui di apprendere generando sapere significativo a partire dai vissuti. Questo può avvenire sollecitando gli individui a compiere dei movimenti; quattro fondamentali: notare, trasformare, dirigere, generare; e quattro ausiliari: interrogare, immaginare, azione, pausa. Rimandiamo per approfondimenti teorici al testo Il quarto sapere di Piergiorgio Reggio e a una pubblicazione di Davide (Fant, 2024) in cui questo approccio viene declinato nel lavoro con gli adolescenti.
Nella conferenza intergalattica ci siamo focalizzati sul movimento dell’immaginare, esplorando come potrebbero essere i pianeti in cui si estremizzano approcci diversi alle tecnologie, ma anche sull’interrogare, perché ci siamo posti in modo interrogativo rispetto al nostro personale posizionamento. Abbiamo dedicato del tempo anche alla formulazione di domande che problematizzano l’attuale rapporto essere umano-tecnologia. Nel terzo capitolo è rimasto ancora centrale il movimento dell’interrogare, anche se nell’Intervista allo smartphone, sebbene ancora supportati da una buona dose di immaginazione, si è imposto il movimento del trasformare: attraverso la pratica psicodrammatica dell’inversione di ruolo (Moreno, 1987) si è potuto indagare il rapporto con il dispositivo cambiando punto di vista. Si trasforma ogni volta che qualcosa che abbiamo notato in noi e nel mondo (notare è infatti un altro movimento imprescindibile) cambia forma, si associa un’immagine, una metafora, una narrazione.
Al di là del paradigma proposto da Reggio, al quale siamo legati anche in virtù di un cammino di ricerca che in parte abbiamo condiviso insieme, il concetto di trasformazione trova spazio in molta letteratura riguardante l’apprendimento riflessivo: oltre i già citati ricercatori australiani Boud, Cohen e Walker (1993), può essere importante ricordare il lavoro seminale di Jack Mezirow (2003) e in Italia quello di Laura Formenti (2017).
è proprio alla dimensione trasformare che è dedicato questo capitolo, nella particolare declinazione della composizione poetica.
Tecnologia e poesia?
Lavorare con la poesia in percorsi dedicati alla consapevolezza tecnologica può risultare alquanto strano, ma abbiamo già ricordato che la contaminazione tra il paradigma della tecnica e quello dell’arte sono alla base del nostro approccio. Non c’è fare senza tecnica, ma la tecnica troppo spesso si incancrenisce in procedure alienanti perché alienate, lontane dai noi, fredde automazioni: perciò selezioniamo delle tecniche che ci piacciono e sperimentiamo come hacker-artisti, hacker-poeti.
Il rapporto con la tecnologia è un rapporto anzitutto fra corpi, il corpo fisico di chi ricorre a un apparecchio e l’analogo corpo della macchina; la poesia come fare poetico, come tecnica profondamente disalienante perché disalienata, a noi prossima, che palpita e smuove, diventa quindi uno strumento privilegiato per indagare a fondo questa relazione incarnata. Nei nostri laboratori emergono esperienze profondamente radicate nei corpi, a cominciare da piaceri e sofferenze fisiche, elementi di ambivalenza che si sentono, ma che molto più difficilmente si riesce a descrivere attraverso il linguaggio argomentativo.
La poesia e il pensiero metaforico possono aprire spazi per dare voce a tutti questi vissuti, conferire loro un abito, una forma, in modo che siano comunicabili per poi poterli esplorare, associare a suoni, sapori, odori, legittimare ai propri occhi e a quelli degli altri (Dallari, 2008). Tutto questo fare serve per «stare nel problema», «rimanere nella turbolenza», senza cercare soluzioni affrettate, ma per maturare una maggiore consapevolezza di ciò che sta accadendo dentro e fuori di noi. La poesia è in grado di tenere insieme contraddizioni, di accogliere ambivalenze, intuizioni, sensazioni poco nitide, può dare valore ai vissuti in quanto spazio di apprendimento e di cura (Mazza, 2019; Bartalotta, 2003).
Intrecciare un approccio cognitivo al fare poetico non ha per noi solamente una funzionalità educativa perché «così impariamo meglio», ma ha anche il valore di presa di posizione epistemologica e per certi versi ontologica. Significa resistere alla carica dispotica della tecnica come discorso del dominio, quella tecnica che misura e inquadra, dispone e provvede, fino a predire il futuro, per riportare invece nei discorsi e nelle pratiche la singolarità di ogni vivente (Benasayag, 2022) così come di ogni non vivente (Simondon, 2020). Se la tecnica si appiattisce su misura, razionalismo irragionevole, funzionamento automatizzato, efficienza priva di efficacia, la poesia ci riporta all’ineffabile, al simbolico, all’inutile; ridona dignità all’ombra sempre più rimossa nel presente digitale (Oddo, 2018). La danza claudicante (Sardicchio, 2012) fra tecnica e poesia può condurre a processi di ibridazione inediti fra l’organico e la macchina; i rapporti emancipanti e sostenibili con le macchine, quelle accuratamente selezionate con cui scegliamo di fare un pezzo di strada insieme, devono incorporare la dimensione poetica.
Io sono il tuo smartphone
L’attività che vi raccontiamo ora, centrata per l’appunto sulla scrittura in versi, ha seguito l’Intervista allo smartphone di Mohamed, riportata nel capitolo precedente nel quadro della riflessione generale su cosa ci fa stare bene e cosa male della tecnologia. Vista la ricchezza degli elementi emersi e il forte vissuto di ambivalenza che ne emerge, Davide ha pensato che l’utilizzo della scrittura poetica sarebbe stata una buona scelta per iniziare a lavorare su questo materiale: uno strumento utile per dare un nome, una forma e un valore a quanto si era condiviso.
La tecnica utilizzata è detta dello stelo di frase (Koch, 2022; Rico, 1983) o, più prosaicamente, dell’anafora: si scrive poesia a seguire alcune parole reiterate all’inizio di ogni verso, una sorta di incipit che scandisce il ritmo e il senso del componimento. In questo caso la consegna era di provare a scrivere dieci versi che iniziassero con le parole «io sono il tuo smartphone e…». È stato chiesto ai partecipanti di fare riferimento al lavoro precedente in cui avevamo preso insieme appunti sui temi principali emersi, attingendo a quelli con maggior risonanza personale ed eventualmente aggiungendone di inediti.
Si sono presi il proprio tempo in silenzio, chi scriveva di getto, chi poche parole alla volta, chi scriveva, cancellava, aggiustava; il coinvolgimento era evidente. Al termine abbiamo letto i versi, eccone alcuni:
Io sono il tuo smartphone e spesso ti faccio sentire in colpa / Io sono il tuo smartphone, grazie a me quando ti arrivano messaggi sorridi come una bambina / Io sono il tuo smartphone, ti faccio vedere la persona che non sei / Io sono il tuo smartphone, grazie a me hai ricontattato chi desideravi tanto / Io sono il tuo smartphone, ti porto la musica senza la quale non riusciresti a iniziare la giornata / Io sono il tuo smartphone e ti getterei dal secondo piano perché tu sei una delle cose che riesce a farmi odiare a tal punto da farmi molto male.
Quello che ci ha stupito, conoscendo anche i ragazzi e le loro storie, è l’autenticità che contengono questi versi, il desiderio e l’urgenza di affidare alla scrittura la propria esperienza, anche negli aspetti più critici. Deborah, autrice degli ultimi versi, aveva davvero agito in passato comportamenti autolesivi. Ovviamente le cause vanno ben oltre l’agentività presunta, percepita o effettiva dello strumento tecnologico; in ogni caso le sue parole palesano un ruolo dello strumento in quello che è accaduto, e questo non può non aprire uno spazio di attenzione particolare (ci ritorneremo nel capitolo La fatica di essere profilo).
Relazionarsi educativamente con l’ambivalenza
Al di là della dimensione metodologica, questi resoconti evidenziano la complessità del rapporto con il dispositivo. Per esplorarne insieme le trame è necessaria delicatezza, ascolto, empatia, consapevolezza: sono tante le cose che non abbiamo ancora messo a fuoco.
Per chiunque abbia a che fare sul fronte educativo con i più giovani, l’ambivalenza è un’indicazione preziosa per orientare il proprio agire. Lo smartphone è strumento che in alcuni casi non solo porta elementi positivi, ma può «salvare» facendosi spazio di dialogo protetto, strumento di evasione da dolori troppo grandi, porto sicuro per momenti faticosi, così come mezzo e luogo dove intessere e mantenere relazioni significative. Allo stesso modo è luogo e origine di grandi sofferenze, o amplificatore delle stesse.
Per poter sostenere i più giovani dobbiamo tenere conto di entrambe queste tensioni. Limitare semplicemente l’uso senza sapere (o quanto meno intuire) quali tensioni, anche contrapposte, possono attraversarne il corpo e il dispositivo, è un’operazione di dubbia efficacia. Spesso ci chiedono la «regola giusta» per il proprio figlio, o quella da utilizzare con gli alunni a scuola. La risposta (deludente) è sempre dipende, seguita da una serie di domande: chi si limita? Quale momento sta vivendo? Cosa significa limitare? Quali sono le funzioni imprescindibili del digitale che in questo momento vanno tutelate per quella persona? Quali quelle più tossiche? Quali vulnerabilità rischiamo di approfondire o addirittura generare con la limitazione? Durante le formazioni dobbiamo imparare a sintonizzarci profondamente con gli altri, a variare l’approccio e le modalità di intervento a seconda dei loro vissuti del presente, e delle relazioni personali che hanno costruito con il digitale.
Spilli nel corpo. Poetare la sofferenza delle notifiche
Alla domanda «cosa ti fa stare male nel digitale?», tra le risposte più frequenti avevamo trovato il fastidio nei confronti delle notifiche, delle suonerie, del continuo disturbo che devia l’attenzione, che fa cambiare l’umore. «Dà fastidio quando stai parlando con qualcuno, stai facendo qualcosa e ti chiamano», «quando sei sereno basta un messaggio per portarti pensieri negativi, per portarti via con la mente da quello che stavi facendo». Sono elementi oppressivi che rimangono sottotraccia, perché a prima vista, allo sguardo adulto ed esterno, sembra che gli adolescenti si divertano a controllare in continuazione lo smartphone; invece, ancora una volta, se lasciamo spazio all’espressione del disagio e del malessere, se proviamo a restare un poco insieme in queste turbolenze ad ascoltare, in tanti ci svelano che non sono affatto contenti. Sembra che per loro essere distratti sia un piacere, che non vedano l’ora che la loro attenzione sia deviata; invece tutto questo provoca grande fastidio.
Accade anche a scuola. Ci sono adolescenti beccati a chattare sotto il banco che si difendono dicendo: «Non potevo non rispondere, poi si preoccupa! Poi si arrabbia!». Sembra una scusa improvvisata e risibile, eppure spesso non è così: non di rado sarebbero stati molto più sereni a seguire la lezione (o comunque a starsene con i propri pensieri) invece di leggere il messaggio dell’amico o del fidanzato che chiede «che fai? cosa facciamo pomeriggio?»; invece di re-immergersi con la testa in problemi, questioni, discorsi aperti e rimasti irrisolti con altre persone fuori dall’aula. Non rispondere in tutti questi casi equivale a rispondere «mi stai ignorando!», «non ti interessa di me!». Per mantenere la relazione, allora, è necessario rispondere indipendentemente da dove si è, da cosa si sta facendo, da quanta voglia si ha. Talvolta significa farsi trascinare in chat interminabili. Gli adulti con prole possono fare il parallelo con i gruppi chat dei genitori.
La notifica si manifesta come uno «spillo» che punge, inquieta, non lascia mai stare il corpo nel ritmo di un unico presente. Queste sofferenze legate al digitale sono espresse dai ragazzi «di pancia», fortemente avvertite nel corpo, ma difficilmente tematizzate, al limite «sbottate», trasformate in improvvisi agiti aggressivi.
Lavorarci insieme, anche con strumenti artistici, è parte dell’opera. Con un altro gruppo di Anno Unico abbiamo provato a dare valore a questi vissuti scrivendo altri versi, con l’obiettivo di legittimare questa sensazione di pungolo, renderla condivisibile, perché si faccia discorso.
Prima di scrivere era però necessario consentire al gruppo di rimettersi in contatto esattamente con quella sensazione, prendere le mosse dal movimento del notare per sentire cosa accade al corpo in concomitanza con il sopraggiungere della notifica.
Abbiamo allora inventato un’attività che si avvia proprio sottoponendosi allo stimolo sonoro delle notifiche, amplificato per renderlo più funzionale al nostro scopo. Abbiamo editato un file audio montando tante suonerie diverse. Ognuno doveva poter ritrovare i suoni tipici del proprio dispositivo, della propria quotidianità. Abbiamo recuperato i principali suoni di ios (iPhone/iPad) e Android, il suono delle notifiche di WhatsApp e di altre applicazioni molto diffuse. Abbiamo creato un cut-up di sei minuti montando questi estratti.
Con questa «arma» fabbricata appositamente, la consegna era semplicemente di ascoltare con attenzione il montaggio, magari chiudendo gli occhi, e mettersi in contatto con il proprio corpo, sentire quali parti si attivano, come e quando.
Al termine abbiamo fatto raccolto le impressioni facendo un giro di cerchio in modo che ognuno potesse condividere le proprie sensazioni. La richiesta era di riassumere in una parola il proprio vissuto: Andrea ha detto «rumore», Nicholas «fastidio», Alessandro «mollami», Sharon «irritazione».
Il successivo lavoro poetico si è basato sulla metafora, nel senso di portare oltre (meta-foreo) il significato, anche metafore concatenate e continuative (allegorie), anche in altri campi sensoriali tramite sinestesie. La consegna era: quale colore per rappresentare quella parola/sensazione? Quale materiale? Quale altro suono? Quale situazione di vita quotidiana?
Una volta create le metafore/allegorie/sinestesie ognuno doveva utilizzarle per scrivere una piccola poesia, modificando quanto scritto, ricombinandolo nell’ordine più efficace e aggiungendo un verso di chiusura. Ecco alcuni risultati:
fastidio: Come quando affondi le dita in una spugna per fiori e senti la polvere insopportabile addosso / una campana che suona di continuo, una sveglia che non puoi spegnere / un cancello che sbatte all’infinito per colpa del vento / come quando tenti di non ascoltare una persona / che ti chiede all’infinito qualcosa / e vuoi solo non provare più quella sofferenza.
irritazione: Una ragazza che lancia il telefono / in quel vento che ti sbatte di qua e di là / muratori che lavorano alle 7.00 del mattino / mentre cerco di dormire / come se il graffio / arrivasse fino al cervello / suono di unghie che incidono sulla lavagna.
Parole efficaci, nessun commento da aggiungere.
[esercizio] Invitiamo chi legge a cercare sul sito circex.org o sul blog pedagogiahiphop.org il file delle notifiche, si intitola «ringtones-follia». Un certo effetto continua a provocarlo, nonostante gli anni passati dalla sua creazione. Andrebbe aggiornato, chi si propone per questo compito? Prova a ascoltare a occhi chiusi… qual è l’emozione prevalente? In che punto del corpo senti sussulti? Prova a scrivere qualche metafora per dare forma, portare oltre quelle sensazioni.
Dal suono alla poesia alla performance
Dopo aver condiviso i componimenti con un reading performativo in cerchio, si è deciso di «giocare» ulteriormente con questi contenuti e le produzioni poetiche elaborate. Eravamo partiti da uno stimolo sonoro fortemente destrutturante, deterritorializzante, per giungere a un prodotto, la poesia; questa, in forma recitata, si fa stimolo sonoro, strutturante e integrativo: a questo punto si è deciso di provare a chiudere il cerchio, andando a riconnettere entrambi gli elementi.
Abbiamo così utilizzato un software di produzione musicale (particolarmente adatto anche per l’esecuzione di musica elettronica dal vivo) andando a inserire come sample, «campioni», i diversi suoni di notifica. Quindi attraverso un controller, una particolare tastiera collegata al computer, è stato possibile, con un pizzico di magia tecnica, «suonare» le notifiche, conferendo loro un tempo e un ritmo. Per rendere ancora più ricca la nostra performance abbiamo introdotto frammenti registrati di singole parole che nella nostra intenzione volevano tradurre verbalmente il richiamo delle notifiche sonore. è stato così possibile premere tasti per far pronunciare inquietanti avvertimenti come «rispondi!», «ohhh!», «muoviti!», «ti sto chiamando!», ripetendoli a ciclo continuo.
Potete immaginare il risultato finale: un’opera per voce e musica elettronica in cui in sottofondo si alternavano, più o meno a ritmo, i suoni delle notifiche e le voci registrate: «Rispondi! Rispondi! Ri-ri-rispondi!», «Muoviti-muoviti-muoviti-ohh!-rispondi-muoviti-ti sto chiamando!». Abbiamo inoltre inserito qua e là letture di alcuni versi delle poesie composte in precedenza.
È stata un’esperienza forte e anche divertente. Ci siamo riappropriati di ciò che ci creava ferite e abbiamo utilizzato quei vissuti di sofferenza come materiale da costruzione per creare bellezza, per quanto dissonante. La tecnologia, in questo caso il software di produzione musicale, non è stato quindi un agente di oppressione, ma un alleato di emancipazione, ha generato una «gioiosa ibridazione» con l’umano.
Lavorare con il corpo
Abbiamo poi ripetuto questo lavoro sulla «violenza delle notifiche» in tante occasioni, sperimentando molteplici varianti. L’esperienza immersiva di ascolto iniziale del file audio e la condivisione dei vissuti ne è rimasta la base, mentre il successivo movimento di trasformazione è stato giocato in modalità diverse.
Una strada feconda è coinvolgere maggiormente la dimensione corporea. Dopo l’ascolto del «file audio delle notifiche» si può chiedere in quale punto del corpo si è sentita maggiore pulsazione, contrazione, e domandare di trasformare questo sussulto in un gesto, in un movimento in loop, magari che rappresenti l’automazione gestuale provocata dal suono; oppure rappresentare con il proprio corpo quel vissuto, trasformandosi in una scultura evocativa.
Con chi fa formazione ed educazione l’attivazione corporea è solitamente una prassi di facile proposta e applicazione, oltre che godibile. Con i più piccoli è quasi sempre uno spasso, ci insegnano rapidamente e senza falsi pudori un sacco di cose inaspettate. Con chi insegna molto meno, probabilmente perché sono abituati a un approccio logocentrico, e il lavoro corporeo diviene una sfida non banale. Emerge chiaramente un timore diffuso di essere giudicati. Lo stesso accade con studenti universitari di ogni ordine e grado. Ma è con preadolescenti e adolescenti che il lavoro attivazione fisica diventa più difficile: la paura di sentirsi goffi, inadeguati, giudicati è molto forte. Non c’è da sorprendersi, visto che non solo sono alle prese con corpi in tumultuoso cambiamento, ma anche posti continuamente di fronte alle proprie imperfezioni e manchevolezze da modelli mediatici inarrivabili, fra cui spiccano influencer di vario ordine e grado.
In ogni caso, il lavoro in cui si va a rielaborare attraverso il corpo la relazione con il digitale, magari anche producendo frammenti performativi è un territorio dagli ampi margini di sperimentazione, molto oltre le nostre esperienze.
Sarebbe interessante andare a lavorare sui movimenti prodotti dagli automatismi e creare con questi sequenze coreografiche; il movimento frammentato in questo modo può essere lavorato, trasformarsi in ritmo, armonia, in una sorta di rituale sciamanico, di disintossicazione collettiva dei corpi e delle anime. Si potrebbero anche creare scene teatrali che analizzino i vissuti interiori nelle esperienze di utilizzo delle tecnologie digitali, esplorando e dando forma a tutto quello che è celato ma «punge» l’anima degli abitanti della contemporaneità. Qualcosa in realtà lo abbiamo sperimentato, lo troverete nei prossimi capitoli; invitiamo chi legge e si riconosce in pratiche artistiche, attoriali, musica, danzaterapia, drammaterapia, a esplorare con i gruppi che conducono questo tipo di pratiche e raccontarci i risultati. Non dubitiamo che siano già pratiche diffuse: fateci conoscere le vostre!
L’intento rimane quello di prendersi cura di sé creando il bello a partire dall’oppressione taciuta. Mettere in opera sinergie impreviste capaci di trasformare le turbolenze opprimenti in occasioni di liberazione.
capitolo quinto
Evocare il demone che abita ogni app
Lo sguardo strabico
La pedagogia hacker propone di tenere sempre un occhio rivolto verso di noi, verso la nostra interiorità, le emozioni che ci agitano, i movimenti dei corpi, osservandoci mentre interagiamo con le macchine. Cerchiamo di cogliere il nostro tipo di approccio prevalente con la tecnologia: abbiamo un’attitudine da Giurassici o da Smanettoni? Da Mistici o da Ingegneri? Ci esorta a maturare consapevolezza delle nostre reazioni e modalità di utilizzo. Nei capitoli precedenti abbiamo esplorato quel che accade dentro di noi, quello che sentiamo: cosa ci fa stare bene e cosa male? Quali emozioni proviamo? Quando? Con che parole possiamo renderne conto, raccontare?
Questo sguardo, ispirato all’apprendimento esperienziale (Reggio, 2010), non è unidirezionale, ma strabico. Infatti mentre un occhio osserva la parte interiore, l’altro si volge verso la macchina, per scrutare cosa succede nel dispositivo tecnologico. La duplicità dello sguardo può generare un apprendimento significativo.
In questo capitolo iniziamo a esercitare il secondo occhio, quello rivolto al dispositivo. Sviluppiamo competenze di osservazione, manteniamo un’attitudine di curiosità e indagine verso l’oggetto tecnologico, cerchiamo di acquisire alcune conoscenze, non solo tecniche, utili a interpretare quello che riusciremo a scorgere.
Gli stessi elementi oppressivi con cui abbiamo lavorato entrando in contatto con le nostre sensazioni (il peso delle notifiche, le fatiche relazionali…) si possono indagare allargando la messa a fuoco, facendo rientrare nell’inquadratura oltre al nostro corpo anche quello della macchina. Compaiono anche i corpi dei dispositivi, in effetti. Come contribuiscono alle nostre sofferenze? Quali sono le loro caratteristiche? Hanno una volontà e delle caratteristiche tali da diventare un carattere in grado di contribuire al disagio e all’alienazione?
Il dispositivo non è «solo uno strumento»
Spesso si dimentica che la macchina non umana non è un oggetto passivo, ma gioca un ruolo importante nel determinare i comportamenti dell’umano chiamato utente. La macchina digitale connessa in rete non è solo l’oggetto-smartphone che teniamo in mano: è un software, cioè un codice informatico composto di vari livelli (presentazione grafica dell’interfaccia, strati sottostanti di interazione); è un hardware, cioè una parte «dura», materica, fatta di plastiche, metalli, fili, connettori; è un’infrastruttura di rete (cavi, onde, ripetitori, router e così via) che consente all’umano di connettersi alla piattaforma, a sua volta costituita in parte da software e in parte da hardware… Una complessità straordinaria che tende a svaporare di fronte alle nostre sensazioni, uniche e irripetibili, eppure così ripetute e ordinarie: ansia, noia, irritazione, frustrazione, aspettativa, entusiasmo, eccitazione e chi più ne ha, più ne metta.
Osservando invece con attenzione, senza comunque smettere di tenere un occhio rivolto anche su ciò che succede nel nostro corpo, saremo sempre più consapevoli che la macchina (software e hardware) è un attore importante nella costruzione dei vissuti emotivi, capace di scatenare re-azioni pre-determinate, talvolta in modo anche molto invasivo e pressante. Tutto ciò non accade per caso, ma by design, dipende da come il sistema tecnico è stato progettato e realizzato.
Nelle proposte formative, in particolare in quelle rivolte ai più giovani, si ribadisce spesso che i dispositivi digitali sono solamente degli «strumenti» e che quindi dipende da come vengono usati: se li usi bene otterrai un certo risultato, se li usi male accadrà qualcosa di male (sottinteso, sarà tutta colpa tua!).
Noi proponiamo un’altra narrazione. Ogni applicazione e piattaforma ha un proprio carattere, lo chiamiamo alla greca daimon, italianizzato in demone, ossia una voce interna che guida i sistemi, una spinta fortemente presente nelle interazioni; non è per forza malvagio, anche se l’interazione può risultare tossica per noi.
Se sottovalutiamo la sua presenza ci troviamo a conferire una sorta di onnipotenza alla volontà umana e, nel caso di contesti educativi, alla volontà dei ragazzi. Si presuppone che l’individuo abbia pieno controllo del proprio agire, ignorando le vulnerabilità, le idiosincrasie, i non detti e gli agiti, insomma tutto ciò che avviene su un piano di non-consapevolezza, di automatismo comportamentale e abitudine tanto diffusa quanto irriflessa, territori privilegiati in cui operano questi dispositivi.
Muovere invece dal fatto che non ci troviamo di fronte a oggetti neutri apre a domande cruciali: quale sarà il carattere di questa applicazione? Cosa favorisce? Cosa avversa? Cosa mi spingerà a fare? Su quali mie vulnerabilità potrà contare per portare avanti le sue «intenzioni»? Sono questioni che problematizzano ciò che finora abbiamo dato per scontato, ponendosi come passi rilevanti nel cammino di emancipazione.
Offuscare i contenuti, osservare la cornice: l’analisi di interfaccia
Come si può cogliere la voce di questo demone? Il segreto è mettere a fuoco la cornice e lasciare in secondo piano i contenuti. In genere ci concentriamo su quanto è riconducibile all’azione degli utenti, umani o bot che siano (un testo, un foto, un video…), senza prestare attenzione cosciente a tutto ciò che vi sta intorno, ovvero la struttura e l’infrastruttura che sono in capo a coloro che hanno progettato, disegnato e programmato la piattaforma (quali elementi sono presenti, come sono organizzati, quale funzione hanno…). Il gioco che proponiamo è di fare esattamente il contrario, un’attività di pedagogia hacker che chiamiamo analisi di interfaccia.
L’interfaccia, lo dice la parola stessa, è la faccia che sta tra, in un certo senso la maschera che la macchina utilizza per relazionarsi con l’utente. Analizzandone l’aspetto possiamo cogliere come si pone nei nostri confronti, quali dinamiche relazionali, meccaniche, prassi, vissuti emotivi spinge a creare. Esplicitare queste caratteristiche, che nella pratica quotidiana rimangono invisibili, è fondamentale per porsi in maniera consapevole nei confronti della tecnologia. Diamo loro un nome.
La consegna per attivarci, con sapore di rito ancestrale, può essere: «Dimentica ciò che ritieni di sapere: guarda con occhi nuovi, pulisci la mente, poi scruta, nota i dettagli e condividili con i tuoi compagni di ricerca». Abbiamo di recente messo a punto anche una formula per entrare in questa modalità; come tutte le incantagioni, magie gentili per renderci più potenti insieme, ha un ritmo suo («terzinato» come molti brani trap):
Svuota la mente – segui – lascia andare i pensieri / Prenditi il tempo per fare silenzio – ti voglio qui – attento / Affila lo sguardo – non è un azzardo – aguzza gli occhi come fari / Chiunque già sa – che’l demone sta – nascosto nei particolari / Sfoca ogni contenuto – cancella ogni testo – ogni foto / Cosa rimane lì – in quella cornice – qui c’è il segreto del gioco / Dimmi che vedi – in che disposizione – non gli hai mai fatto attenzione / Prenditi nota – scopri che vento spira – nell’applicazione.
Dopo aver svolto con disciplina questo rituale, attraverso alcuni passaggi potremo capire cosa è importante per quel particolare software; quali sono i suoi valori, e quindi in che direzione il suo subdolo vento, ingannevole perché non esplicito, ci vuole spingere.
Per quanto possa sembrare semplice, non è affatto così. Guardare con occhi nuovi, come se fosse la prima volta, dimenticando ciò che sappiamo o crediamo di sapere, non è per nulla banale. Lo sguardo si focalizza in automatico sul contenuto delle foto, sulle parole che qualcuno dei nostri «contatti» ha scritto. Lo sforzo necessario per porre in primo piano la cornice è notevole.
Oggi questo tipo di approccio ha un valore pedagogico particolare, al di là dello specifico scopo per cui lo stiamo utilizzando. In un mondo in cui tutto si muove molto veloce e l’attenzione si perde in un sovraccarico di stimoli, ci imponiamo un rallentamento per sperimentare il valore dello stare. Per apprendere in modo significativo oggi più che mai è necessario il movimento della pausa e del notare come ci ricorda Reggio in Il quarto sapere. Perché senza fermarci e notare, la realtà ci scivola addosso.
Alla ricerca del demone di WhatsApp
Possiamo cimentarci con WhatsApp, applicazione di proprietà del gruppo Meta (insieme a Facebook e Instagram), molto diffusa tra persone di tutte le età, a cui in buona parte del mondo si affidano le quotidiane interazioni a distanza (oltre due miliardi di utenti registrati nel 2024).
Come abbiamo già imparato dagli adolescenti che ne sottolineavano «la violenza delle notifiche», ci inoltriamo in un territorio minato, in ogni momento può arrivare una notizia che genera sbalzi emotivi, notifiche continue attirano la nostra attenzione sulle cose più disparate: la mamma che ci ricorda qualcosa e ci fa arrabbiare, l’amico caduto in motorino, il pusher che chiede i soldi, il ragazzo con cui è in corso un litigio, e così via. In ogni momento può comparire un messaggio che ci destabilizza, ci cambia l’umore, o semplicemente ci distrae da ciò che stiamo facendo nel mondo fisico, contribuendo a generare scatti nervosi, tensione, stanchezza. Ancora una volta, quello che spesso gli adulti ritengono piacevole per i più giovani può in realtà essere uno spazio di vissuti ambivalenti. Le mamme che incontriamo si lamentano dei loro figli che non si sanno limitare, sono nervosi; i ragazzi avvertono di essere entrati in qualcosa di più grande di loro, ma fanno fatica a dar voce a questa sensazione.
Proviamo allora a evocare questo demone, guardiamolo in faccia per capirne qualcosa in più.
«Aprite WhatsApp! Cominciamo la nostra analisi di interfaccia. Cosa vediamo?».
«Un cursore che lampeggia».
«Meno cognitivo. Chi ti ha detto che è un cursore? Che forma ha, e colore?».
«Uno stretto rettangolo verde chiaro verticale che pulsa».
«La doppia spunta».
«Meno cognitivo. Chi ti ha detto che è una spunta, se è la prima volta che la vedi? Che forma ha, e colore?».
«Una doppia ‘v’ più lunga verso destra, azzurra».
«Una barra per scrivere un messaggio».
«Meno cognitivo. Facciamo che non sai leggere… come fai a sapere che serve per i messaggi? Che forma ha, e colore?».
«Un rettangolo orizzontale allungato, con gli angoli fortemente smussati, stondati, più chiaro rispetto allo sfondo».
Cominciamo ad allenarci così, un passo alla volta, in un modo che può sembrare goffo e artificioso, a smontare automatismi di attribuzione di significati e funzioni. Piano piano niente appare più scontato, forme, colori, suoni. Nel corso dell’incantagione scopriamo l’esistenza di numeri, lettere articolate fino a formare parole, buffe forme multicolori; poi iniziamo a ri-attribuire senso a questi elementi: sono orari, faccine che danno una coloritura emotiva al messaggio… sono icone che rappresentano oggetti.
Nell’interfaccia di WhatsApp, tra altre cose, osserviamo: l’orario in cui è stato scritto il messaggio; l’orario dell’ultima connessione; una faccina a sinistra di dove vengono scritti i messaggi; un’icona verde chiaro che spicca sulla destra con un microfono stilizzato bianco; il nome della persona con cui si entra in comunicazione; un’immagine simbolo della persona con cui si sta comunicando; nuvole a forma di fumetti di colore diverso in cui sono inseriti i messaggi di testo.
Spesso i gruppi evidenziano qualcosa che a noi era sfuggito; col passare degli anni ci vengono fatti notare elementi introdotti attraverso diversi aggiornamenti dell’applicazione.
Evocare la voce dell’app
Una volta che abbiamo osservato con attenzione gli elementi possiamo estrapolare i valori di cui il demone è servitore, a cosa è particolarmente incline la macchina con cui ci stiamo relazionando:
– Cursore che lampeggia: per l’app scrivere il prima possibile è la cosa più importante.
– Presenza dell’orario in cui è stato postato un messaggio: ci ricorda che non bisogna far passare tempo tra una interazione e l’altra (in una chat, gli orari sono come dei «punteggi», se manca un messaggio troppo a lungo si percepisce un vuoto).
– Messaggi in cornici a forma di fumetto: la comunicazione è giusta quando è un «botta e risposta», le comunicazioni asincrone non sono gradite.
– Ultima connessione e spunta: è importante sapere sempre cosa fa l’interlocutore (legge, risponde, ecc.).
– Invito a usare emoticon: dobbiamo sforzarci di risultare brillanti, simpatici, dobbiamo mostrare di esserci.
– Il microfono: dobbiamo comunicare a ogni costo, se non è possibile con il messaggio di testo vengono messe a disposizione altre risorse, come il messaggio vocale.
A questo punto è facile intuire che cosa vuole il sistema da noi, in che direzione ci spinge gentilmente, senza bisogno di esplicitarlo attraverso ordini o lunghi apprendistati su ponderosi manuali per le istruzioni.
Dobbiamo comunicare il più spesso possibile, la comunicazione che pare sincrona (il botta e risposta) è preferibile a quella con evidente distanza temporale tra messaggio e risposta. Se comunichiamo poco o lasciando passare troppo tempo stiamo quindi usando «male» l’app. Il valore della persona e della relazione è dato dal numero di interazioni. Per WhatsApp l’esercizio di un certo controllo nei riguardi dell’altro non è assolutamente un male, anzi, viene valorizzato il fatto di tenere sott’occhio quando si connette e quando no, sollecitando risposte quando non arrivano. Quando i nostri ragazzi si dicono infastiditi dalla continua richiesta di interazione da parte di genitori o amici è bene che sappiano che questi ultimi non stanno usando male la piattaforma, al contrario, la impiegano proprio come il demone insinua gentilmente.
Come passaggio conclusivo possiamo dare voce a quanto abbiamo intuito attraverso una forma maggiormente evocativa, può essere un disegno, una poesia, un fumetto; in questo caso vi presentiamo un rap, cantato direttamente dal demone che abita la più celebre applicazione di messaggistica:
Ciao non mi conosci sono il demone di WhatsApp / con me sempre in contatto si starà – tutti / non rifiutare i gruppi / non mancare mai ai mille mondi che attraversi / non resta che ti butti / il cursore è pronto già – presto scrivi! / C’è qualcosa che non va? – Perché non rispondi? / Leggi son passati sei minuti – fai presto! / Ti minaccio non esisti – se non c’è anche il tuo testo / e mi raccomando sii simpatico – brillante / ci vuole l’emoticon giusto – e la battuta più divertente / sempre sull’attenti non sai quando il messaggio giunge / sempre pronto per lo scatto alla notifica che punge.
Amplificando la voce del demone del dispositivo possiamo vedere chiaramente la tensione e il potere che esercita in noi, la sua spinta gentile, la sua gomitata (nudge) spesso poco percettibile, ma non per questo meno pericolosa, anzi, fortemente manipolatoria. La teoria del nudge, legata all’economia comportamentale, sostiene che la riconfigurazione dello spazio cognitivo del soggetto per ottenere un determinato comportamento è più efficace della coercizione, della minaccia di una punizione, della moral suasion, del richiamo a imperativi morali. Insieme ai meccanismi di gamificazione, che approfondiremo più avanti, è una componente teorica implementata in molti dispositivi che popolano il mondo dell’informatica industriale. Solo riconoscendo queste spinte, solo cogliendo la silenziosa manipolazione che si concretizza negli automatismi indotti è possibile decidere se e come resistere, per aprire spazi di libertà.
Se conosciamo il demone possiamo prendere posizione
Nel momento in cui abbiamo inquadrato la tensione generata dall’applicazione saremo più consapevoli e liberi di decidere cosa fare. Possiamo scegliere di non utilizzare più l’applicazione, provare ad abbassare la tossicità, a moderare l’esposizione, possiamo provare a escogitare degli hack, cioè trucchi e sentieri nostri.
Ad Anno Unico, la «scuola per chi non va a scuola», durante il lockdown del 2020 si pose la questione comune a tutti gli altri servizi educativi e formativi: come rimanere in contatto con i ragazzi? Fu necessario interrogarsi a proposito degli strumenti adeguati a un compito così importante e delicato in quel momento (per un resoconto approfondito, si veda Formare a distanza, a cura di circe, https://fad.circex.org).
Molti servizi avevano deciso di utilizzare la funzione «gruppi» di WhatsApp; l’équipe di Anno Unico, decise di fare diversamente, proprio alla luce dell’evocazione della voce del demone.
A nostro parere il gruppo WhatsApp, pressante nella richiesta di intervenire, si sarebbe rivelato eccessivamente ansiogeno per molti dei nostri adolescenti, alcuni provenienti anche da esperienze di ritiro sociale. Il livello prestazionale richiesto avrebbe scoraggiato alcuni di loro a partecipare e in ogni caso, avrebbe fatto vivere con disagio uno spazio pensato per incontrarsi. Ancora, il gruppo WhatsApp, sempre in virtù di questa spinta al continuo manifestarsi, avrebbe prodotto eccessivo rumore, troppe notifiche, troppi stimoli in un momento in cui il carico era già estremo; evitare l’utilizzo del gruppo WhatsApp significava quindi anche fare una scelta di ecologia informazionale in linea con la ricerca di un setting di serenità e cura che caratterizza quel servizio.
Consapevoli di tutto questo decidemmo di utilizzare WhatsApp, perché era comunque lo strumento privilegiato di interazione a distanza per gli alunni, ma di evitare la funzione gruppi. Optammo quindi per la funzione broadcast, per cui gli educatori mandavano messaggi ai ragazzi in modo che ognuno li ricevesse (e potesse rispondere) personalmente, limitando al massimo gli stimoli. Contemporaneamente attivammo altri canali di comunicazione, come periodiche chiamate con il «giurassico» telefono.
Uno strumento non è giusto o sbagliato in assoluto, ma appropriato o meno alla luce del particolare momento che si sta vivendo, tenendo conto del demone dell’applicazione ma anche di quello delle persone coinvolte; anche ognuno di noi ha (almeno) un daimon personale, si tratta della sua singolarità, dei suoi tropismi: il carattere, le attitudini, i vissuti, che nei gruppi formano miscele differenti.
Dobbiamo ricordare che non reagiamo nello stesso modo con tutti gli interlocutori: il loro carattere, sguardo, tono, modalità di porsi hanno un effetto su di noi, spesso al di là degli specifici contenuti; così le applicazioni, le piattaforme non sono tutte uguali, si crea una speciale chimica tra le macchine e gli umani, che sono altrettanto diversi fra loro. Non formuliamo regole assolute, valutiamo invece caso per caso le scelte migliori da intraprendere.
[esercizio] Invitiamo chi legge a scegliere l’applicazione con cui ha il rapporto più ambivalente. Prova a fare l’analisi di interfaccia, a osservarne la cornice. Cosa vedi? Quali messaggi del demone sono sottesi alla sua architettura? Cosa ti sta sussurrando nell’orecchio? Se ritieni questo messaggio nocivo per te, quali hack puoi mettere in atto per creare un’interazione meno tossica?
A caccia di demoni
Negli anni, con i gruppi ma anche nelle nostre équipe, abbiamo provato a «evocare» demoni di applicazioni differenti. Per curiosità, per necessità di capire come interagire con loro. È anche un modo per noi per rimanere aggiornati sulle app più recenti e più utilizzate. Nei laboratori capita che i gruppi decidano di giocare con applicazioni che non avevamo intercettato.
Nella pagina web di approfondimento dedicata al libro
capitolo sesto
Giocare o essere giocati?
Gamificazione e dintorni
Cazzeggiando sulle app sono intrappolato / Da questo algoritmo sono stato fregato / Perdo sempre tempo nella rete / Mentre di verità dovrei aver sete.
Anonimo, Anno Unico
Il furto del tempo
La colonizzazione del tempo, la percezione che i dispositivi siano sempre più invasivi riducendo il tempo di vita è percezione comune. Resoconti di ab-uso social abbondano a prescindere dall’età, dalla lingua, dalla posizione sociale, dal social in questione o da qualsiasi altra discriminante psico-socio-economica. Ogni attimo è assorbito dallo smartphone, tanto che le ore di sonno si riducono, anche drasticamente, surclassate dalle chat, dai videogiochi online, dal binge watching, l’abbuffarsi di video, al neverending scrolling, lo scrollare con il dito centinaia di post sui social.
Abbiamo raccolto esperienze di persone adulte che hanno consultato Facebook in maniera compulsiva per anni, specialmente agli inizi del suo successo mondiale, fra il 2007 e il 2010. Molto comune trascorrere una frazione consistente del periodo giornaliero di veglia a scorrere il «muro» (wall) di fb, dal computer fisso, ben prima dell’esistenza o quantomeno della diffusione globale degli smartphone. Attacchi d’ansia correlati ai comportamenti e alle reazioni delle altre persone virtuali non sono rari.
Facebook è stato il primo social davvero di massa. In seguito sono venuti Twitter (ora x), Instagram, Snapchat, TikTok; quest’ultimo è oggi, nel 2024, quello maggiormente divora-tempo, stando alle esperienze riferite dagli adolescenti. Gli effetti da abuso sono stati descritti abbondantemente dalla letteratura e non è questa la sede per esaminare le differenze fra le varie piattaforme. Le esperienze differiscono, vi sono gradi più o meno ampi di usi divergenti possibili, così come diversi profili di utenti (professionali, occasionali, ecc.). Al di là delle varianti, gli ab-usi social presentano però uno schema comune: sensazioni di malessere dovute all’eccesso in termini quantitativi, percepito e riferito dalle persone.
L’umore delle persone diventa fortemente dipendente dai contenuti incontrati nello scorrimento potenzialmente infinito dei feed di Facebook così come di Twitter, Instagram, TikTok e YouTube. Il timore di non cogliere dei contenuti importanti, di rimanere tagliati fuori dal mondo (fomo) è spesso una potente calamita che impedisce di tagliare i cordoni con i social.
Tutti i numeri delle app
L’analisi di interfaccia di WhatsApp sperimentata nel capitolo precedente ci ha aiutato a capire come un’applicazione può generare coinvolgimento (engagement); un ruolo chiave è giocato dai numeri: l’ora di ricezione, l’ora di ultima connessione sollecitano un controllo compulsivo quando non una spinta all’interazione immediata.
Ogni sessione del gioco del demone sui social rivela una presenza dei numeri ancora più pressante: cifre che indicano i like, i follower, i cuoricini, le view, il numero dei commenti che l’account in questione o il singolo post ha totalizzato. Metriche note a chiunque e parte integrante dell’esperienza social. Gli utenti prestano grande attenzione a questi dettagli, soprattutto quando sono creatori del contenuto pubblicato.
Tanti ragazzi e adulti durante i laboratori e in situazioni informali affermano: «Ma io non li guardo». Per qualcuno potrebbe anche essere vero, ma si tratta di informazioni capaci di insinuarsi sottopelle, senza passare per la dimensione consapevole; sebbene non per tutti nello stesso modo, di certo agiscono sui nostri comportamenti, sul modo di vederci, di relazionarci con il mondo. Lo sanno bene le squadre di accorti ingegneri, designer di interfacce e psicologi che progettano e realizzano queste architetture digitali.
Raramente si porta la riflessione su questa quantificazione, nonostante il ruolo cruciale delle cifre nelle meccaniche di fruizione della piattaforma nell’influenzare i comportamenti; tutt’al più, come rivela il classico commento «pensa solo ai like!», si fa riferimento alla quantificazione in modo superficiale o colpevolizzante nei confronti dell’utente. Concentriamoci dunque su questo aspetto, non per giudicare ma per indagare.
Nei laboratori proponiamo un’ipotesi: e se quei numeri fossero punteggi? E se i social media fossero dei (video)giochi mascherati? Giochi competitivi, mossi da demoni che ci pungolano a partecipare? Abbiamo approfondito questa intuizione insieme ai partecipanti; anche grazie alle loro competenze, sono emersi numerosi parallelismi tra social e ambienti videoludici, molti più di quanti ne avessimo colti noi inizialmente.
Non è solo un’interessante coincidenza. Il termine gamificazione, italianizzazione dell’inglese gamification, è letteralmente il far diventare gioco, la trasformazione in gioco di un’attività. Indica l’inserimento di elementi tipici degli schemi di gioco competitivi in contesti non ludici. Il risultato non è un gioco qualsiasi, ma una tipologia ben precisa di attività. Per riprendere la distinzione della lingua inglese, non conta l’attività o l’esperienza del gioco (play), bensì il dispositivo tecnico e cognitivo abilitato a generarla (game), ovvero la cornice, il quadro definito in maniera precisa che delimita uno spazio monitorato e controllato.
Impiegate esplicitamente a partire dagli anni 2010 per aumentare il coinvolgimento in ambito videoludico, le tecniche di gamificazione sono state in seguito applicate in moltissimi campi diversi per promuovere comportamenti predeterminati, presentando i compiti da eseguire sotto forma di azioni di gioco da reiterare. Promuovere consapevolezza rispetto a queste dinamiche è fondamentale per leggere i processi oppressivi nel mondo contemporaneo, per aprire spazi di libertà e di scelta.
Giocare per svelare il gioco
Il nostro contributo è il laboratorio Giocare o essere giocati, proposto innumerevoli volte fin dalla prima formulazione nel 2015, spesso in contesti molto diversi tra di loro: dalle scuole elementari alle scuole superiori occupate, dai gruppi di genitori agli studenti universitari, dagli hackmeeting ai progetti di partecipazione europei. Il laboratorio è estremamente malleabile e adattabile. Chi non ama una bella sessione videoludica? Per chi è meno avvezzo o molto giovane diventa anche un buon momento scoprire con una carrellata l’evoluzione dei videogiochi.
L’esperienza consiste nel ripercorrere in modo attivo la storia del gaming, sperimentandosi con alcuni tra i giochi più iconici fino agli anni Novanta del xx secolo, e rievocando lo spirito del tempo in cui stono stati concepiti e resi pubblici. L’obiettivo è cogliere gli elementi che nelle diverse architetture ludiche generano maggiore ingaggio, termine che traduce in maniera scorretta engagement ma allude correttamente alla dimensione militaresca, di obbedienza a regole di gioco non scelte e permette di cogliere le meccaniche manipolatorie dei contesti gamificati.
L’approccio è sempre quello dello sguardo strabico: un occhio rivolto allo schermo e uno al proprio corpo. Cosa mi succede mentre gioco? In corrispondenza di quali eventi? Cosa succede quando sono particolarmente ingaggiato, quando mi dimeno, quando sussulto? Aggiungiamo un terzo occhio: ci sono altri umani a giocare insieme a noi, osserviamo anche le loro reazioni.
Per entrare nello spazio di gioco, conviene enunciare di nuovo le regole del gioco del demone:
Dimentica ciò che sai: guarda con occhi nuovi / pulisci la mente / nota i dettagli / condividili con i tuoi compagni di ricerca.
«Dimentica ciò che sai» vuol dire che non dobbiamo dare nulla per scontato, immaginiamo di essere alieni appena scesi sulla Terra: per la prima volta vediamo uno schermo e un’interfaccia digitale. «Puliamo la mente», per non farci distrarre da nozioni pregresse o da pensieri ricorrenti. «Notiamo i dettagli»: spesso lì si nascondono le informazioni più preziose. «Prendiamo appunti», per non scordare ciò che osserviamo e per poterlo analizzare dopo. «Condividiamo» con gli altri membri del gruppo le nostre scoperte perché collaborare è il modo migliore per costruire nuova conoscenza. Proprio come abbiamo imparato negli hacklab!
Chiarite le regole del nostro gioco, entriamo tutti insieme consapevolmente nella zona del gioco. Le regole sono un segnale che l’ambiente in cui stiamo entrando non è gamificato.
Si parte! A turno una o due volontarie mettono mano alla consolle e diventano gamers; un altro volontario si occupa di prendere appunti alla lavagna, mentre il resto del gruppo ha il compito di osservare quello che succede sullo schermo e quello che succede ai giocatori/giocatrici. Nella pagina web di approfondimento dedicata al libro
I social sono videogiochi!
Una volta conclusa la sessione videoludica, chiediamo a chi partecipa di stilare una rapida classifica dei social che rubano più tempo e proponiamo al gruppo di confrontarli con gli elementi emersi fino a ora, provando paragonarne le dinamiche di ingaggio.
Apriamo una schermata di uno dei social in testa alla classifica (va bene anche uno screenshot) e conduciamo un’analisi d’interfaccia. Incrociamo gli elementi che abbiamo individuato nell’analisi dei videogiochi facendo ricorso agli appunti presi sulla lavagna; fra stupori, incredulità e sicumere, ci accorgiamo che sono presenti anche nell’interfaccia dei social: numeri, punteggi, colori, suoni, personaggi, storie… ritroviamo ogni cosa. Rivediamo i principali nel dettaglio.
I punteggi. Sia nei social che nei videogiochi ci sono i punteggi da tenere d’occhio, si tratta dei like, dei cuoricini, delle view, ma anche del numero di follower, di commenti, di condivisioni. Se il numero è basso o stagnante siamo scoraggiati, appena inizia a salire una scossa elettrica ci attraversa.
I livelli. Ragioniamo sul fatto che anche i social hanno i livelli. La scoperta è avvenuta con i ragazzi, noi non ci avevamo pensato prima. Avere cento follower (o like, o view) o mille (arrivare a «1k» è uno status) non è la stessa cosa; diverso è averne 100k o 1M, perché si appartiene a categorie differenti, proprio come nei livelli dei giochi più diffusi. Il mercato ha anche codificato il livello a cui si può ambire in base al numero di follower: «nano-influencer» 1k-10k, «micro-influencer» 10k-50k, «mid-term influencer» 50k-500k, «macro-influencer» 500k-1M, «mega-influencer» oltre 1M.
I suoni e la musica. I suoni dei videogiochi, che mantengono sempre viva l’attenzione, sono paragonabili al suono delle notifiche; accompagnano la nostra vita con un tempo destrutturato e destrutturante ma fortemente ingaggiante. Notiamo anche che l’impostazione predefinita di avvio automatico dei video con musica (finché non decidiamo di togliere questa opzione) serve a catturare l’attenzione.
L’attivazione di tattiche e strategie. Man mano che «giochiamo» il gioco del social, come nei videogiochi, scopriamo quali sono i trucchi per raggiungere l’obiettivo di capitalizzare più like o follower. Impariamo quali contenuti, foto, tipo di comunicazione funzionano e quali no. Le conseguenze sono rivelanti: le approfondiremo nel prossimo capitolo.
Il mistero dello scorrimento infinito. L’infinite scrolling è simile. Come nei videogiochi più si avanza con il proprio avatar e più si scoprono spazi ed elementi nuovi, così nei social più ci si muove sulla timeline (scrolling) più si rivelano nuovi contenuti, in una ricerca senza fine. Siamo sempre in tensione verso quello che scopriremo. Impossibile staccare: e se il post che davvero mi interessa mi aspetta poco più avanti? Accidenti, no, non c’è… allora forse arriva adesso… ancora uno, ancora uno…
La forte immedesimazione nel personaggio. Quando si gestisce il proprio profilo si è sempre immedesimati in un unico personaggio: noi stessi! È quello il punto di vista assoluto da cui vediamo il mondo, lo scopo è mostrarci sempre all’altezza di quanto accade nel mondo virtuale. Emerge però anche un altro aspetto: molti influencer sono percepiti come persone normali (o comunque nella normalità della loro quotidianità), poiché ne vediamo l’intimità, le emozioni e i pensieri che ritroviamo anche in noi li sentiamo molto più vicini, senz’altro più dei personaggi dello star system televisivo.
Il sentirsi parte di una storia. Le stories sono onnipresenti nei laboratori. Certo, ma in realtà curare la propria pagina social significa continuamente scrivere e riscrivere la propria storia e mentre la raccontiamo seguiamo le storie degli altri. Come davanti al fuoco, dall’inizio dei tempi umani, la narrazione ci ingaggia.
Appurato che i social hanno mutuato le meccaniche di ingaggio dei videogiochi, sorge una domanda ovvia: cosa comporta per l’utente trovarsi continuamente in un videogioco? Come influenza i suoi comportamenti, magari inconsciamente? Cosa succede in particolare per i più giovani?
A questo punto proviamo a ragionare insieme ai partecipanti su quali altri contesti della nostra vita sono gamificati, e scopriamo che sono moltissimi: dai punti fragola dell’Esselunga, alle app attraverso cui i rider ricevono le istruzioni per le consegne, a certe attività scolastiche, fino ai tanti contest proposti in ambiti formativi ed educativi per invogliarci a partecipare a determinate attività.
Una prosecuzione possibile è il gioco già visto del what if? Proviamo a immaginare come sarebbe una società futura in cui tutto sarà governato attraverso attività che si presentano come giochi. Cosa vediamo? Possiamo immaginare una società in cui ci sarà la gara a chi pulisce meglio la strada sotto casa, a chi è più produttivo nel lavoro, a chi si comporta in modo più consono alla moralità pubblica. Il tutto ovviamente ricompensato con premi, status e bonus, che è poi possibile perdere nel momento in cui non si sarà più prestanti. Un’utopia che a pensarci bene è una distopia, un panorama che, a pensarci ancora meglio, rintracciamo già nel presente. Due esempi estremi di questo futuro scenario ipotetico si trovano nella serie Black Mirror, in particolare nell’episodio «Caduta libera» e in «15 Milioni di celebrità». Estratti di questi episodi da visionare durante i laboratori possono essere di aiuto, anche se preferiamo sempre attivare l’immaginazione, ottimo antidoto al totalitarismo. Una rielaborazione narrativa di questo gioco è il racconto «Giocare o essere giocati» in Internet, Mon Amour (https://ima.circex.org/storie/2-relazioni/h-gamificazione.html).
Giochi senza via d’uscita
La pedagogia hacker ci invita a guardare dietro quel che accade, a osservare ciò che sta attorno e ciò che si muove dentro di noi, pensieri ed emozioni. Per capire come funzioniamo in quanto umani insieme ai (video)giochi social e, più in generale, cosa accade nelle interazioni con il digitale di massa, dobbiamo scavare un po’ nelle nostre esperienze, rimuovere un po’ di strati e andare a vedere cosa c’è sotto. Ricordiamo che siamo tutti sulla stessa barca: perciò è importante informarsi da chi ha già ragionato su questi temi.
Per conoscere le dinamiche oppressive del presente non possiamo sottrarci dal fare anche un po’ di lezione, nel senso di portare l’attenzione su alcuni termini che hanno un valore sempre più importante nella relazione con la tecnologia: gamificazione, dopamina, zona della macchina.
Come abbiamo visto la gamificazione è l’inserimento di schemi di gioco competitivi in sistemi che non si presentano esplicitamente come giochi. Questo insieme di tecniche di manipolazione dell’interazione umano-macchina tende a produrre giochi coatti da cui è molto faticoso uscire, perché, attraverso la sollecitazione del circuito dopaminergico, gli esseri umani sono trattenuti nei cicli d’interazione. La dopamina è il neurotrasmettitore alla base della motivazione e degli stimoli riconosciuti come piacevoli. Il meccanismo del condizionamento operante è fondamentale: gli stimoli gamificati agiscono come rinforzi positivi che portano a reiterare un determinato comportamento.
In uno spazio gamificato la ripetizione di un’azione ritenuta corretta viene stimolata attraverso premi, crediti, accesso a un livello gerarchico superiore, pubblicazione di classifiche.
La struttura dei social produce un effetto di ingaggio che forza al controllo compulsivo del dispositivo, ancora e ancora: quale notifica sarà arrivata? Cosa scoprirò ora? Quante persone mi hanno messo like? E ora, dopo cinque minuti, di quanto saranno aumentati?
Raramente si tratta di domande esplicite che l’individuo si pone consapevolmente. Siamo quasi sempre di fronte ad automatismi che in qualche modo agiscono l’individuo. Prova ne sono tutte le volte che al suono di una notifica ci ritroviamo la mano in tasca senza aver preso una decisione a livello conscio, oppure quando afferriamo il telefono per guardare l’ora e ci ritroviamo a controllare le notifiche di Instagram; e ancora, quando apriamo la nostra timeline per dedicare qualche minuto a scorrere i social e invece passa mezz’ora (o molto di più) senza che ce ne accorgiamo.
Queste e altre esperienze analoghe molto comuni segnalano la nostra entrata nella zona della macchina, un luogo in cui è facile entrare ma da cui è molto difficile uscire. Questa definizione evocativa è dell’antropologa Natasha Dow Schüll ed è mutuata dai giocatori d’azzardo di Las Vegas alle prese con le slot-machine. Sono stati loro i primi a definire «zona della macchina» quello spazio-tempo in cui si immergono per giornate intere prosciugando tutti i loro risparmi, del tutto assorbiti dall’interazione tossica, al punto da diventare indifferenti ai bisogni primari più urgenti come semplicemente andare a urinare.
La sensazione che provano è quella di trovarsi in uno spazio assolutizzante, dove il desiderio (è) di restare nella zona, dove nient’altro ha importanza. Uno spazio magico dove entrare nello schermo e perdersi. Una sorta di ipnosi, di magnetismo, una trance in cui ci si sente sospesi, dove l’obiettivo non è più vincere ma continuare, rimanere.
[esercizio] Quante volte ci è successo di continuare a guardare l’ennesimo video suggerito da YouTube, o di continuare a scorrere la timeline di un social in attesa di qualcosa? La domanda è: perché continuiamo anche se ormai abbiamo la nausea, abbiamo sono, sete, fame? Cosa aspettiamo?
L’essere umano vuole restare nella zona della macchina perché è immerso in uno stato di flusso: emoticon, gattini, foto di vacanze, notizie, balletti… non importa quale sia il contenuto del flusso, quello che conta è che, mentre ci stiamo dentro, nel nostro cervello si scatenano scariche che producono l’ormone endogeno della dopamina. Un ormone legato appunto alla motivazione e al piacere che produce una fugace sensazione di piacere e appagamento. Quando avremo la prossima scarica di dopamina, la prossima sensazione di piacere? Non lo sappiamo ma sappiamo che continuando a stare nella zona della macchina, sicuramente presto o tardi proveremo di nuovo quella sensazione di piacere e appagamento. La notifica di un like, un video di quel gattino davvero coccoloso, tre simboli uguali sulla slot in fila… la dopamina arriverà. La webserie Dopamina prodotta dalla tv franco-tedesca arte è un valido supporto per illustrare questo meccanismo: in due stagioni copre qualsiasi piattaforma e social (https://www.arte.tv/it/videos/RC-017841/dopamina/).
Non è questione di essere stupidi
Ora che abbiamo osservato quel che accade dietro le quinte, possiamo formulare un giudizio più accorto. I ragazzi e le ragazze che stanno ore davanti a uno schermo non sono affatto stupidi. Infatti dimostrano di aver compreso come procurarsi motivazione e piacere con il minimo sforzo. Perché dovrebbero uscire a giocare, fare la fatica di trovare compagni di gioco per una partita di pallone, correre, sudare per ottenere in definitiva un poco di gratificazione quando è così facile attivare i circuiti dopaminergici stando semplicemente stesi sul proprio letto con un dispositivo digitale tra le mani?
Anche se l’esperienza di un giocatore ludopatico alle prese con una slot-machine e l’autoabuso legato ai social media o ai videogiochi sono cose tra loro molto differenti, è importante ricordare che videogiochi, social e slot-machine scatenano dinamiche neurocognitive simili e hanno tutte come elemento di base la stimolazione e lo sfruttamento del circuito dopaminergico.
I social commerciali sfruttano il circuito dopaminergico per attivare il condizionamento operante, una procedura generale di modifica del comportamento funzionante su piccioni, topi, altri mammiferi e anche sugli esseri umani; una modalità attraverso cui l’organismo apprende, ma anche un modo per condizionare la volontà.
Nulla di nuovo, visto che la scoperta risale alle ricerche sul comportamentismo dello psicologo Burrhus F. Skinner negli anni Trenta del xx secolo; ma negli ambienti sintetici è possibile ottenere rapidamente ritmi d’interazione straordinari.
I ragazzi di oggi non sono peggiori di quelli delle generazioni precedenti. Il rinforzo positivo gamificato li cattura, ma ci cattura anche da adulti. Sono e siamo vittime di vulnerabilità umane, comuni e condivise, sfruttate a nostro discapito. Perciò se ti capita per ore e ore di scrollare sul tuo telefonino, per poi chiederti come è stato possibile passare tutto quel tempo così, è importante non colpevolizzarsi e ricordare che (non) dipende solo da te!
Lo squilibrio del sonno, lo squilibrio del furto del vuoto, sempre riempito dalle interazioni con i dispositivi, sono causati da comportamenti autoabusanti che possono determinare vere e proprie dipendenze. Come affrontare la situazione ora che sappiamo che siamo tutti sulla stessa barca, adulti, adolescenti, bambini e anziani?
Riflettere su questi temi da un punto di vista pedagogico vuol dire cambiare prospettiva, non porsi in modo tragico, ma porsi le domande giuste. Se dalla zona della macchina si esce faticosamente e se non è una questione di forza di volontà, perché caderci dipende da meccanismi in larga parte estranei al controllo cosciente dell’individuo, quali altre strategie si possono utilizzare?
Come nelle pratiche di utilizzo consapevole delle sostanze psicoattive, si possono escogitare modalità, personali e collettive, per entrare e uscire nella zona. Vogliamo osservare le dipendenze e riconoscerle per imparare ad allontanarci dallo schema di piacere automatizzato.
Gamificazione a scuola
Nel digitale è forse più semplice farlo, ma elementi di gamificazione possono essere applicati ovunque.
è ad esempio sempre più diffusa la pratica di applicarli in contesti scolastici. Chi propone di gamificare le attività per ingaggiare meglio i ragazzi spesso ostenta una certa coolness. L’esempio più noto è probabilmente l’esperienza della scuola newyorkese Quest to learn in cui l’intera l’esperienza di apprendimento è stata organizzata come se fosse un videogioco, con punteggi, ricompense, livelli, raggiungimento di status, missioni, come racconta l’entusiasta Jane McGonigal nel suo La realtà in gioco (2011).
Sebbene in passato ci sia capitato di sperimentare qualcosa del genere, e consapevoli che in alcuni limitate situazioni questo approccio può mostrare una sua utilità, in particolare quando ci interessa semplicemente addestrarci a un compito che di per sé contiene una dimensione performativa (da allacciare le scarpe a guidare un aereo), in generale non riteniamo sia un approccio idoneo per un apprendimento di contenuti accompagnato da una costruzione di senso.
Chi è ingaggiato nello studio della geografia perché in gara con la sua squadra contro gli avversari, si focalizzerà più sui punteggi che sull’esplorazione dei contenuti, la sua dimensione emotiva sarà quella dettata dall’andamento della gara invece che dalle emozioni che potranno emergere dalla risonanza con ciò che sta apprendendo. Quando si gareggia si impara principalmente una cosa: a gareggiare. Questo significa che finita la gara, data la risposta (consegnato il compito), calata la scossa dopaminica, facilmente scivola via con la stessa velocità anche ciò che si è imparato.
L’introduzione di schemi di gioco premiali presenta la tecnologia come un piacevole surrogato, di gran lunga preferibile alla fatica di organizzare libere scelte in un mondo complesso, così esposte alla frustrazione e al fallimento. Ripetere una procedura gamificata gratifica l’umano in maniera immediata e potente. Queste tecniche promuovono attivamente l’inconsapevolezza da parte dell’agente umano rispetto al sistema, nascondendone gli obiettivi reali tramite la ristrutturazione cognitiva dell’ambiente circostante. Sono quindi tecniche incompatibili con l’idea di apprendimento come stratificazione di esperienze significative, nonché nocive per la crescita dell’autonomia decisionale delle persone. Sono in contrasto persino con l’ideale di democrazia intesa come gestione della cosa pubblica da parte di cittadini liberi da oppressioni, pressioni esterne indebite, adeguatamente informati e in grado di perseguire i propri interessi collettivi nel rispetto reciproco.
Ciò non significa affatto che non ci si possa divertire apprendendo, anzi! In apertura l’abbiamo detto: è proprio quello che fanno gli hacker. Tuttavia, costruire un’attività di gioco (ludificazione) non significa necessariamente gamificarla. Un conto è organizzare un contest a punti su quante informazioni ricordiamo a proposito dell’impero romano, un altro è allestire realmente un accampamento, vestirci da antichi latini, creare una scena teatrale in cui recitiamo i discorsi più famosi dei grandi oratori romani. In questo caso l’ingaggio e il piacere del gioco non è dato dalla brama di ricevere punti ma dall’immersione negli stessi contenuti di apprendimento, si tratta di una ricompensa intrinseca piuttosto che estrinseca. Alcune attivazioni coniugano il ludificare e il gamificare, la ricompensa intrinseca e quella estrinseca. Ci chiediamo: quale pesa di più? Quanto è totalizzante la dimensione dopaminica?
capitolo settimo
La fatica di essere profilo
Uno spazio ansiogeno e depressivo
I social funzionano come videogiochi. Ma allora come si fa a vincere? Come si ottengono tanti punti? Le risposte dei nostri adolescenti-giocatori sono quasi scontate: «Devi far vedere che sei bello, che fai tante cose!». Sembra di sentire quell’imperativo al «devi godere!» in cui Žižek, seguendo Lacan, riconosce la voce del super-io contemporaneo (Žižek, 2004); perversione dell’imperativo kantiano, per cui devi in quanto puoi, alla base di una cultura in cui ognuno è promotore di se stesso, e deve vendersi sempre al meglio, sempre di più. Cosa piacerà al (mio) pubblico? Questa domanda sottintesa rende difficile porsi come spettatori perché, in competizione con tutti oltre che con se stessi, si ha la percezione che gli altri facciano cose sempre più belle e più interessanti di noi.
La piattaforma ci restituisce continuamente una valutazione, indica quanto i nostri contenuti sono stati apprezzati, se sono piaciuti più o meno di quelli di altre persone, quante persone hanno speso del tempo a interagire con noi. Ci aggiorna più in generale anche su quante persone sono interessate a seguire le nostre vicende di vita, ovviamente ponendole in paragone con gli altri, cioè in competizione.
Questa continua dimensione prestazionale è un aspetto problematico a cui prestare attenzione, spesso sottovalutata ma causa di forti sofferenze, specialmente fra gli adolescenti.
Si tratta di un gioco davvero impegnativo, oltremodo stressante e in più senza fine né vittoria possibile. Ne derivano spesso sintomi di ansia e depressione, anche di una certa gravità (Twenge, 2018). Aumenta il sentimento di inadeguatezza: tutti sono felici, hanno tanti amici… invidia costante, necessità di ritoccare la propria immagine ancora e ancora. La salute psicofisica è a rischio, perché nessuno sforzo è eccessivo in questi giochi social. Emerge quindi per diversi adolescenti la correlazione (sebbene non univoca) tra la forte sofferenza generata da questi ambienti e agiti autolesionisti/suicidari; o atteggiamenti aggressivi, violenti nei confronti di pari oggetto di forte invidia (Maggiolini, 2023).
Uno specchio distorto di sé: il sé frittella
Giocando si impara a giocare, si diventa sempre più bravi, e giocando al gioco dei social impariamo quali argomenti privilegiare per i nostri post. Man mano che si gioca ci si rende conto di quali sono quelli che raccolgono più «punti» e, in modo più o meno studiato, più o meno strategico, iniziamo a reiterare quei comportamenti. La foto in cui mostro i muscoli funziona? E se mi faccio una canna? Ottengo tanti like? Se la risposta è affermativa, replicherò pose analoghe in diversi contenuti. Costruiamo così, a prescindere dalle intenzioni, un personaggio con un’identità che riteniamo adeguata al nostro gruppo di riferimento. Alcuni aspetti della nostra vita saranno evidenziati, altri messi in secondo piano, altri completamente esclusi. Dipende da quanti punti prendono al gioco dei social.
La piattaforma digitale esige che l’individuo modifichi continuamente il proprio esoscheletro, la corazza esterna che si presenta in pubblico, per adattarsi alle richieste dell’esterno, atrofizzando l’endoscheletro, cioè la propria storia profonda, le contraddizioni, la complessità, le radici. Si promuove quello che Miguel Benasayag e Angélique del Rey hanno definito, prendendo in prestito il famoso titolo di Robert Musil, un uomo senza qualità, riferendosi all’improbabile convinzione contemporanea che ognuno può essere chi vuole raggiungere qualunque obiettivo, basta che lo voglia (Benasayag, del Rey, 2016). L’umano diventa un crogiolo di risorse umane a cui attingere senza sosta, diventa un profilo, un insieme di dati su di sé che gli vengono restituiti dalla macchina rinunciando a qualunque tipo di integrazione e costruzione di senso (Benasayag, Cany, 2022). La persona che siamo si adatta alle interazioni gamificate, spesso abituandosi a mettere in opera forme di squilibrio dell’identità. Viene favorito lo sviluppo di una versione ipersemplificata e ipercoerente di sé stessi, come abbiamo raccontato nel capitolo «Metamorfosi» di Anime elettriche (Ippolita, 2016).
Il social diventa allora uno specchio distorto dell’identità adolescente, che andrà a rafforzare alcuni elementi della persona riducendone altri, limitando la libertà di pensarsi e di agire oltre determinati confini tracciati dall’algoritmo. Si generano così dei sé frittella, come temeva Richard Foreman nel suo spettacolo teatrale The gods are pounding my head (2005); le pancake people sono schiacciate, senza profondità né contraddizioni, offrono una immagine impoverita di sé.
Ognuno dichiara di avere il controllo perfetto della propria immagine; ma tutti portano online solo un personaggio, anche perché lo specchio social, continuando a riflettere un’immagine sempre più ritoccata a fini di rendiconto in termini di punteggio, la riverbera sull’identità personale.
A questo proposito abbiamo assistito a una scena molto forte anni fa a Roma, conducendo un laboratorio con i membri di una compagnia teatrale; il gruppo stava indagando i temi legati agli effetti oppressivi del digitale, al fine di integrarli nel proprio lavoro artistico. Essendo un gruppo naturalmente a proprio agio con il lavoro corporeo abbiamo deciso di lavorare con una metodologia dalla forte piega psicodrammatica. Nell’attività, uno dei componenti del gruppo, un attore che gode di un certo successo nazionale anche nel cinema, mette in scena un dialogo. Con l’aiuto di alcuni colleghi inscena quello che rappresentava nelle sue intenzioni il proprio sé più autentico, privato, e la propria «maschera social», il personaggio di sé che emergeva dalle piattaforme digitali, focalizzate a promuovere la sua attività artistica. Lo stesso attore definiva quest’ultimo come una sorta di sagoma sempre «in vetrina», che vuole mostrarsi artista brillante e profondo, utile per il marketing, ma anche come un sé ingombrante. Con tale maschera, ci teneva a precisare, aveva un rapporto solo funzionale e stava attento a prenderne le distanze.
Dopo una serie di interazioni, il sé autentico, rappresentato in scena da un collega che ripeteva il copione affidatogli prima dal nostro attore, recita: «Tu non sei me, sei solo una parte, sei solo uno strumento, recito il tuo ruolo con il pubblico per difendermi, per conservare per me le mie parti più intime, più preziose, che altrimenti ho paura di perdere!». Al che, il sé-maschera-social, interpretato da un altro collega, replica improvvisando: «Sì! Io non sono vero! Io sono solo il tuo scudo, ti servo a gestire la tua immagine pubblica, a sopportarne la fatica, non ti preoccupare, io ti difenderò, ti proteggerò…!»; quindi lo stesso sé-maschera-social si lancia ad abbracciare il sé autentico, un abbraccio avvolgente, che per più persone tra il pubblico risulterà fusionale, soffocante.
Quella scena forse ci stava comunicando qualcosa di importante. I personaggi che ci costruiamo in rete, per quanto siamo consapevoli siano solo una piccola parte di noi, quando ce ne serviamo per gestire il nostro personaggio pubblico rischiano di divenire totalizzanti e soffocare altre parti di noi. Ci ritroviamo continuamente a immedesimarci in quegli stessi e perdiamo altre sfumature.
Succede ai personaggi pubblici, ma anche a chiunque altro. Durante i laboratori Davide spesso racconta del fatto che sebbene la sua attività social sia ridotta e limitata alla dimensione lavorativa, questo non lo rende immune dall’effetto frittella. Rivedersi continuamente al lavoro, a una conferenza, a promuovere corsi, a ragionare su temi pedagogici, raccontando come tutto questo sia interessante, degno di attenzione, non può che schiacciare la sua immagine di sé a «colui che fa quel lavoro», con il rischio che quella parte della sua vita diventi sempre più totalizzante.
Consideriamo ora la fase adolescenziale, in cui la costruzione dell’identità personale e del «sé sociale» ha un importanza cruciale, un processo fra i più importanti per lo sviluppo dell’individuo, e in cui l’approvazione dei pari è un bisogno delicato e imprescindibile. Il rischio è che nel momento in cui si coglie qual è l’immagine pubblica che «funziona» meglio nel gioco dei social, quella prenderà il sopravvento, a prescindere dal fatto che sia generativa o autentica. Emerge allora il mostrarsi in centomila pose con la canna in mano, mostrarsi in serate al limite, spingere al massimo e in continuazione un’immagine sexy, persino ostentare armi diventa funzionale, vale tutto, come abbiamo visto tante volte ripetersi, specialmente in situazioni di marginalità. Continuiamo a ribaltare i luoghi comuni: non si filmano atti di vandalismo o violenza per ottenere maggiore fama, ma si compiono atti di vandalismo e violenza per filmarli. Il gioco lo esige!
La filter bubble
A questo si aggiunge la cosiddetta filter bubble, la bolla di filtraggio. È ben noto anche alle persone meno esperte di tecnologie digitali che i sistemi di raccomandazione sono programmati per gratificare l’individuo confermando i suoi preconcetti, attraverso la proposizione di contenuti in linea con quanto già presentato. Si riducono così ulteriormente le possibilità immaginative e le traiettorie inedite.
Il problema non è tanto che si rimandano messaggi d’odio, quanto che l’odio richiama e conferma l’odio, e tende a cementare un’identità basata sull’odio. Su questo fronte è paradigmatico il caso dei giovanissimi reclutati da organizzazioni terroristiche di matrice islamica o riconducibili al suprematismo bianco. Ricordiamo che negli Stati Uniti secondo l’fbi il terrorismo di destra è stato responsabile di oltre il settanta percento delle violenze ideologicamente motivate nel decennio 2008-2018 e negli ultimi anni la tendenza è ulteriormente peggiorata. La radicalizzazione è spesso correlata agli ambienti social frequentati. La violenza e l’estremismo fanno più audience della pace e del ragionamento pacato: per questo, a seconda della nostra identità manifestata a livello di profilazione, dei nostri comportamenti online, gli algoritmi possono indifferentemente restituire post inneggianti al jihad o alla minaccia della sostituzione etnica da parte di masse islamiche (Roy, 2017). In ogni caso, contribuiscono a promuovere le più deliranti cospirazioni o fantasie di complotto.
Siamo tutti esposti a questi effetti, che sono però più intensi per gli adolescenti e in generale per i più giovani, per i quali la costruzione dell’identità è un elemento particolarmente delicato e difficoltoso, fra ricerca di stima del gruppo e carattere in formazione.
Trucchi per andare a punti in TikTok
In molti videogiochi si fa un salto di qualità nelle proprie prestazioni quando si scoprono dei trucchi, dei trick attraverso i quali si riescono a ottenere punteggi più elevati, a superare livelli, a sfruttare passaggi nascosti, oggetti che rinvigoriscono e così via. Anche per giocare ai social media esistono trucchi di questo tipo. Non vengono quasi mai esplicitati, neppure a se stessi, però ci sono.
Ad esempio, se vogliamo raccogliere like su Instagram, la foto in cui siamo particolarmente belli e sexy è sicuramente un elemento utile. Anche postare contenuti che strappano una risata consente di ottenere molti like: i meme più divertenti hanno più condivisioni. Dipende molto dai contesti sociali, dalle «bolle» in cui ci si trova collocati, che peraltro possono premiare comportamenti divergenti o francamente opposti fra loro. Sul profilo LinkedIn, dove presentiamo il nostro lato lavorativo, è opportuno evidenziare serietà e competenza, non prodursi in battute ridicole.
TikTok è un caso particolarmente interessante da analizzare. Unico social di massa di rilevanza globale di proprietà cinese, nella Repubblica Popolare Cinese è noto come Douyin (la versione cinese è leggermente diversa da quella disponibile in altri paesi). TikTok è una piattaforma di video sharing attiva dalla fine del 2016, inizialmente nota come «musical.ly». Su di essa si possono condividere brevi video, da pochi secondi fino a un massimo di dieci minuti, tempo limite introdotto nel 2023.
Grazie all’analisi di interfaccia, durante un laboratorio abbiamo evidenziato come questa piattaforma, al pari di altri social, vuole che competiamo tra di noi per avere attenzione (l’app ci mostra di continuo il punteggio di quanto siamo visti e apprezzati: le view, i like) e come per Instagram il valore dell’immagine è centrale, infatti il video riempie praticamente l’intero spazio disponibile, per l’app non siamo niente se non ciò che appare.
La particolarità di TikTok è la centralità del video e l’imposizione di postarne di molto brevi. Questo significa che il demone ci spinge a trovare soluzioni per attirare questa attenzione in pochissimo tempo, dobbiamo «colpire» il più in fretta possibile.
A partire da queste osservazioni è ragionevole supporre che saremo portati a escogitare e mettere in opera, sempre con lo zampino del demone, trucchetti per avere successo in questa competizione, per posizionarci bene in questo gioco. Con i più giovani abbiamo provato a esplicitare quali sono i trick che ci consentono di avere più like, andando a indagare sulle timeline dei loro stessi dispositivi. Siamo arrivati alla seguente top tre: 1. mostrarsi belli, sexy, provocanti; 2. fare ridere oppure essere ridicoli; 3. fare qualcosa di assurdo, estremo, pericoloso. In generale è importante stuzzicare eccitazione e attenzione morbosa.
Se il demone di TikTok fosse un rapper, forse nell’orecchio ci canterebbe qualcosa del genere:
Get up don’t stop – qui la voce di TikTok / consigli top darò – per non fare flop / tieni d’occhio i cuoricini – collezionane tanti / impara a misurarti – sarai tra i più importanti / ti mostro chi ha successo – così presto capirai / come essere apprezzato e sai – lo status alzerai / trucco uno: mostra ammicca – sarà mica un dramma / aggiungi doppi sensi – poi spamma / trucco due: sii simpatico – fino al ridicolo / in più un consiglio pratico – gioca col pericolo / svelato il trucco tre: beh amico sii estremo / più attiri l’attenzione – più con-divideremo.
Certo è possibile sforzarsi di non ascoltare il demone, e si può anche usare TikTok in altri modi, ma si dovrà senz’altro impiegare più energia, sforzarsi di più e in definitiva si rischia concretamente la condanna all’irrilevanza. Quando il pubblico non arriva, presto ci si stanca. Invece ci si sente coinvolti quando si sta alle sue regole, quando si gioca sul filo del rasoio. Il piano è sempre inclinato nella direzione in cui il demone ci spinge.
In Italia si è molto discusso della storia tragica di una bambina che ha perso la vita a causa di una sfida su TikTok. Analoghe tragedie sono purtroppo accadute ovunque.
La prima reazione, non solo nel Belpaese, è stata cercare chi propone questo tipo di gioco. Un approccio molto razionale, una narrazione in cui si ritiene implicitamente che c’è un cattivo, una persona malvagia che travia i minori. Però spesso sono i ragazzi stessi a proporre sfide pericolose: il gioco è un gioco, e a questo si gioca.
Molti commentatori hanno sostenuto che i ragazzi non sanno usare questi strumenti e che per evitare che accadano questi episodi dobbiamo insegnare loro a usarli bene. In realtà quello che stiamo scoprendo è che li sanno usare benissimo. I ragazzi pensano che per farsi vedere devono ricorrere a un gesto eclatante, a un comportamento che non può passare inosservato. Non sono sufficientemente bella? Non posso far leva sulla bellezza. Non sono abbastanza simpatica? Non posso ricorrere alla simpatia. Allora, mi butto sull’estremo!
Disgraziatamente, invece di analizzare le dinamiche psicosociali, quasi sempre gli adulti preferiscono farla facile e chiedersi: chi ha incontrato quell’innocente, quale mostro l’ha spinta a fare quelle cose? Chi è l’adescatore? Finché la domanda rimane: chi ha incontrato, chi l’ha traviata, adescata? Rimaniamo prigionieri dello schema di gioco della prestazione e dello stress depressivo. Diverso è ipotizzare che si debbano sviluppare le capacità necessarie per resistere al demone di TikTok.
Sembra una differenza da niente, ma è enorme. TikTok non si può usare bene, ma si può imparare a riconoscere come le sue caratteristiche interagiscono con noi o con le persone di cui abbiamo responsabilità di cura, e attivarci di conseguenza.
«Ma allora…», dicono i ragazzi, «non è un caso se tutte le persone che vanno su TikTok si spingono fino al ridicolo, o provocano! E forse non è un caso neppure che quella ragazza ha fatto qualcosa di davvero rischioso e la cosa è andata a finire male… Forse qualcosa era già nel probabile dell’app… ha un certo potere… e conosce bene le nostre vulnerabilità…».
Quando gli adolescenti si lasciano sorprendere da intuizioni del genere si apre uno spazio di movimento e di pensiero nuovo, sorge il desiderio di andare fino in fondo, di capire «come funziona», ci si chiede se e come è possibile aprire spazi di resistenza e di libertà.
Un gioco per disalienarsi
La mia immagine pubblica… e quello che manca è un gioco per disalienarsi. La proposta è di decentrarsi e cercare informazioni su di sé accostandosene come se non ci conoscessimo. Le nostre foto pubblicate sulle bacheche pubbliche delle multinazionali private, i social di massa appunto, rivelano alcuni aspetti di noi e non altri. Tendono a offrire rappresentazioni semplificate, maschere che ci aiutano a districarci nella complessità. Sono il ricercatore sociale in una foto postata sul profilo dell’università durante una conferenza; sono il rapper in una foto che esibisco sulla mia pagina; sono il militante in una foto in piazza e così via.
[esercizio] Cosa si scopre di noi online, qual è il nostro profilo pubblico? Ci piace? E soprattutto, cosa manca? Ci sono aspetti che non appaiono? Cosa emerge? Scopri qualcosa che non avevi considerato o su cui non avevi mai posto l’accento.
La domanda a questo punto può diventare: in che modo possiamo prenderci cura degli elementi della nostra identità che non compaiono in rete? Disponiamo di uno spazio simbolico altrettanto potente, per quanto in penombra, che ci permette di prendercene cura? Alcune persone citano il proprio diario segreto, le foto che scattano ma che non rendono pubbliche (ci ritorneremo), una propria attività artistica o poetica. Sono tutti strumenti per dare valore alla nostra molteplicità, alla pratica del métissage (Laplantine, 2004), per non essere schiacciati dalla spinta all’ipercoerenza.
Dossieraggio Selvaggio e My Wastebook Friends sono altri due giochi di disalienazione che trovate nella pagina web di approfondimento dedicata al libro
capitolo ottavo
Le nostre vulnerabilità
Nella relazione con i sistemi tecnici abbiamo analizzato ed evidenziato strategie di gioco e demoni delle applicazioni. Vedremo ora come si possono articolare in vere e proprie manipolazioni comportamentali. Sono tutti elementi che hanno a che fare con le nostre vulnerabilità umane. «Vulnerabilità» deriva da vulnus, termine utilizzato anche in ambito giuridico, che in latino significa «ferita»; è un termine sia passivo sia attivo, perché rimanda sia alla possibilità di ricevere una ferita, che alla possibilità di provocare una ferita. Eroi e supereroi sembrano invulnerabili, ma come Achille è vulnerabile al tallone, così Superman è vulnerabile alla cryptonite. Conoscere le vulnerabilità altrui ci consente di poter ferire gli altri, ovvero di proteggerli. Intendiamo quindi le vulnerabilità come caratteristiche da conoscere per potercene prendere cura, insieme alle persone e alle tecnologie in cui scegliamo di riporre la nostra fiducia. Non vogliamo eliminarle o nasconderle, perché sono proprio queste vulnerabilità a renderci individui unici che con le proprie differenze possono creare collettivi sempre più forti, capaci di prosperare anche nelle turbolenze. La varietà, in un contesto di mutuo aiuto, fa la forza (Trocchi, Milani 2025).
Non è stato immediato né scontato rendersi conto che le vulnerabilità sono tesori preziosi. Una decina d’anni fa eravamo a Granara, un ecovillaggio sull’appennino parmense, per condurre un laboratorio di pedagogia hacker con un gruppo eterogeneo di adulti e adolescenti (si era intrufolato anche qualche bambino). Tutto avveniva durante l’annuale festival di teatro, una settimana un po’ magica tra spettacoli, laboratori e momenti di convivialità. In particolare quella mattina volevamo indagare come i social sfruttano il bisogno di riconoscimento sociale tipicamente umano per tenerci ingaggiati. Instagram era ancora poco diffuso, TikTok non esisteva nemmeno, perciò ci siamo concentrati su Facebook, che allora era di fatto l’unico social di massa.
Per cominciare l’attività avevamo deciso di proiettare alcune foto «acchiappalike» screenshottate dalle pagine social di alcuni adolescenti. L’idea era di riflettere sul nostro narcisismo, sull’esibizionismo e quindi più in generale sulle nostre vulnerabilità a partire da alcune immagini evocative. Nelle immagini era presente tutto l’inventario che ben conosciamo: il ragazzino a torso nudo che mostra muscoli ben scolpiti accompagnato da una citazione esistenziale-poetica, un’altra immagine simile stile «fotomodello sexy» che invece aveva come didascalia una confidenza personale «pian piano mi riprendo», una ragazzina sulla spiaggia con un bikini succinto in posa provocante e sotto le parole «finalmente al mare!».
Questi casi paradigmatici erano molto comuni, così avevamo detto ai partecipanti; anche se forse li percepivano lontani dalla loro «bolla» e anzi ai limiti del cringe, cioè imbarazzanti, come spiega l’Accademia della Crusca: «Scene e comportamenti altrui che suscitano imbarazzo e disagio in chi le osserva». Tanto comuni che ogni persona con un profilo social prima o poi aveva subito la stessa pressione a rincorrere il consenso, pressione a cui anche gli adulti non erano immuni.
Avevamo quindi chiesto di aprire il loro social preferito e cercare nel proprio profilo l’immagine più «acchiappalike» che avevano postato, raccontando quali fossero gli elementi attrattivi per i propri follower. L’intento era portare uno sguardo umoristico, di distacco, capace di ridere insieme di sé in quel contesto comunitario, in una cornice conviviale e giocosa. L’obiettivo era riconoscere che ci trovavamo tutti sulla stessa barca, per poi approfondire le dinamiche tecniche e psicologiche, fino a proporre tattiche di autodifesa.
Raramente fu data consegna più sbagliata! «Anni e anni di lavoro con gli adolescenti e non ho imparato niente», ha pensato Davide. I più giovani alzarono immediatamente un muro, prendendo le distanze da quei comportamenti e dalle immagini che avevamo mostrato: «Noi non siamo mica così!», ripeterono più volte, facendo commenti sarcastici sui quegli ignari coetanei. Gli adolescenti presenti al laboratorio erano in molti casi il prototipo del giovane «impegnato e consapevole» cresciuti tra ecovillaggio, scout, volontariato, attivismo, respirando l’impegno sociale e politico dei genitori, stimolati da mille esperienze interessanti. Perciò era difficile immaginare un’offesa maggiore che paragonarli, anche lontanamente, a quei «maranza» (sic!).
E ora che si fa? Se boicottano, se non si attivano, come proseguiamo? Certo, possiamo fargli una bella tirata teorica (in particolare Carlo non avrebbe problemi), o peggio moralistica, ma non è assolutamente quell’approccio esperienziale e incarnato che cerchiamo nei nostri laboratori.
Viene allora un’idea, un po’ azzardata, ma visto il vicolo cieco in cui ci siamo ficcati tanto vale provare. «Cambiamo gioco!», Davide apre la propria pagina Facebook: «Misuriamo il livello di ricerca di consenso delle mie foto! Vi mostrerò alcuni post e dovrete dare un voto da 0 a 10 giudicando la quantità di narcisismo (nel senso di autocompiacimento nel vedersi in certe pose) ed esibizionismo (nel senso di compiacimento per lo sguardo altrui) che secondo voi mi si è attivata nel postarla. Ecco la prima: c’è un cestino della spazzatura in una spiaggia, con un piccolo graffito a spray disegnato sopra; qui quanto sono stato narcisista/esibizionista?». I ragazzi, un po’ interdetti: «Boh, niente…», rispondono. La foto apparentemente non aveva nulla a che spartire con quelle mostrate prima.
«Guardate meglio… leggete anche quali parole ho messo per accompagnare il post». Ci focalizziamo allora sulla scritta in piccolo e leggiamo: «Venice Beach, la». «Non ero in una spiaggia qualunque, ma in una della più famose spiagge di Los Angeles, immortalata in tanti film, patria di Jim Morrison e location del telefilm Baywatch (per chi ha una certa età, e location in cui sono girate alcune scene di Barbie, per tutti gli altri). Sono stato strategico, non ho scelto di postare una classica inquadratura da cartolina di quel luogo: niente gente in rollerblade, breakdancer o le tipiche casette sopraelevate dei bagnini più famosi del mondo. Ho invece postato un semplice cestino della spazzatura. Come a dire: sto in questo posto mega-cool, ma per essere ancora più cool mostro qualcosa che non è cool, così vedete quanto sono alternativo». Inoltre lo scarabocchio sul cestino non era una tag qualunque, ma una a cerchiata (con una piccola l per giocare sul senso di Los Angeles-Anarchia). «Quanto sono avanti? Quanto sono rivoluzionario? Forse di tutte queste cose voi non vi siete accorti, ma chi fa parte della mia bolla di certo sì. Sono loro il mio pubblico». Un’altra foto dallo stesso viaggio ritrae Davide tra montagnette di sabbia e roccia. Anche qui la didascalia è la chiave di lettura: «Zabriskie Point, per voi non vuol dire niente, ma qui Antonioni ha ambientato le scene iconiche dell’omonimo film», spiega.
E così via, le foto si susseguivano e i partecipanti cominciano a prenderci gusto, ponendo domande e restituendo giudizi ben poco lusinghieri. Il personal branding di Davide funzionava esattamente come quello dei ragazzini spregiativamente definiti «maranza» delle prime foto, ma con un altro target (fra l’altro, ottenendo ben meno like di loro).
A un certo punto, in modo molto naturale, senza richieste esplicite da parte nostra, i più giovani fra i partecipanti tornano sui propri profili social e cominciano a scorrere le foto con più like, affibbiandosi vicendevolmente voti di narcisismo/esibizionismo, ridendo e ingaggiandosi insieme. Si era sbloccato qualcosa, c’era stato un salto che aveva cambiato la luce sulle cose: metterci in discussione aveva dato la licenza di farlo anche a loro. Mettere in scena le nostre vulnerabilità, in un contesto protetto di fiducia, legittima i partecipanti a portare un sguardo sulle proprie vulnerabilità.
La scena di Cecilia
Dopo una breve pausa abbiamo chiesto ai partecipanti di dividersi in piccoli gruppi con il compito di creare semplici scene teatrali in cui si rappresentasse qualcosa dei vissuti della mattina che aveva risuonato in loro. Potevano scegliere la location e utilizzare come oggetti di scena qualsiasi cosa, ovviamente anche dispositivi digitali. Fra tutte le creazioni ci teniamo a raccontarne una in particolare, una rappresentazione scenica di grande potenza comunicativa, in cui un gruppetto di soli adolescenti ci ha stupito con una raffinata idea registica.
Al centro della scena c’era Cecilia, quattordici anni, rannicchiata su un tavolo; davanti a lei un muro dove era proiettata la sua pagina Facebook. Lei era posizionata tra il proiettore e il muro, in modo che la sua ombra si proiettasse sullo schermo tra i contenuti della bacheca digitale.
Ai lati c’erano due amici che, smartphone alla mano, una volta avviata la rappresentazione, hanno cominciato metterle realmente like e commenti positivi. Man mano che Cecilia li vedeva comparire nella proiezione si alzava sempre di più; lentamente dalla posizione rannicchiata arriva a trovarsi in piedi con le braccia aperte, letteralmente gonfiata dai feedback positivi. Al termine, la sua immagine impressa sulla pagina Facebook era potentissima, lo specchio di ciò che non si vede, sia l’ego alimentato artificialmente, sia la precarietà e l’inconsistenza di tutto ciò.
La nostra vulnerabilità come risorsa
Tutto si è sbloccato quando ci siamo messi in gioco. Non basta affermare che «ci siamo dentro tutti» ed «è importante conoscersi, con le proprie inclinazioni, i propri bias». L’unico passo che può davvero attivare una riflessione su se stessi è che noi adulti per primi, noi «saputi», ci permettiamo di mostrarci vulnerabili. Ogni volta che ciò avviene in un contesto protetto possono aprirsi spazi di dialogo, di condivisione, di liberazione.
Ci è accaduto anche in una scuola elementare milanese. Un gruppo organizzato di genitori, preoccupato per l’utilizzo dei dispositivi elettronici da parte dei figli, ci aveva invitato per tenere un percorso in orario extrascolastico in cui avrebbero potuto partecipare insieme ai loro pargoli. Il clima fin da subito è stato di grande apertura, voglia di attivarsi e riflettere insieme. Anche in questo caso decidiamo di lavorare con scene teatrali per dare forma a intuizioni, riflessioni, apprendimenti, per «ricodificare» come direbbe Paulo Freire, e aprire a nuovi percorsi di significato.
Ecco la scena: il terzetto di autori-attori è composto da un bambino, una bambina e un adulto (padre della bambina). La bambina utilizza i social, si logga e cerca informazioni su Google, passa tantissimo tempo sul dispositivo. Nel frattempo l’adulto tiene sopra di lei un foglio con disegnato un occhio in un triangolo, da dio controllore, che si muove scrutando e memorizzando tutto quello che vede.
La notte, quando la ragazzina dorme, il padre si impossessa del suo dispositivo digitale per leggere i suoi messaggi: scopre le confidenze con un’amica, i suoi amori, i suoi litigi. Passano i giorni e la figlia si accorge di essere controllata dal padre; allora escogita delle modalità per proteggersi, modifica le password, inventa nuovi espedienti hacker per sottrarsi agli sguardi indiscreti. Il padre, frustrato, più che altro perché non riesce più a soddisfare la sua curiosità da gossip, non tanto perché non è di aiuto alla figlia, si rivolge all’Akaro, un hacker espertissimo, interpretato dall’altro bambino del gruppo, che cercherà di aiutarlo nel suo intento. La scena prosegue così, in un continuo rilancio tra le due parti (ad esempio il padre cerca di corrompere l’Akaro e questo chiede più soldi!), la bambina sempre più inseparabile dallo strumento digitale, poco propensa a fare altro; il padre sempre più ossessionato dal voler sapere ogni dettaglio della vita della ragazzina.
Tra le risate di noi pubblico e di loro in scena, è successo qualcosa di speciale. Tutte le parti si sono messe in gioco ponendosi in modo autoironico, anzi di umorismo solidale rispetto alle proprie fragilità, dichiarandole e facendole dialogare. Il fatto che in scena ci fossero padre e figlia reali ha reso tutto ancora più generativo e intenso. In seguito abbiamo continuato a confrontarci in cerchio, a ragionare su buone pratiche, a metterci in discussione, gli adulti per primi. Abbiamo problematizzato questioni tecniche, psicologiche, relazionali; si è parlato di tecnologia, ma anche di emozioni e sentimenti. La pratica teatrale può essere un alleato prezioso.
Una resa che apre a nuove opportunità
Siamo convinti che sia necessaria una resa, in cui si dica che la forza di volontà del singolo non basta, anzi, forse non è nemmeno la strada auspicabile. Esplicitiamo il fatto che questi strumenti sono troppo potenti, la tecnopsicologia ha raggiunto livelli altissimi di potenza di fuoco manipolatoria. È una resa rispetto all’idea che basta impegnarsi, che ognuno è in grado di fare da solo. È diserzione di fronte al volontarismo individualistico e alla colpevolizzazione del singolo; non è però una resa al cambiamento. Se vogliamo uscirne dobbiamo creare legami, «sortirne insieme» come sosteneva anche don Lorenzo Milani; dobbiamo allearci, fra umani affini e tecnologie scelte, selezionate con cura, inventando nuovi bioritmi a partire dai nostri gruppi di riferimento, aiutandoci a vicenda, affrontando insieme tutti i piani di cui questa vicenda si compone, incluso quello sociale, politico, economico. Coltivare semi di mutuo appoggio.
Lavorare sui bias cognitivi
Ci sono dei bias cognitivi tipici degli esseri umani. Di tutti, non solo degli adolescenti: nella pagina web di approfondimento dedicata al libro
Fra i più sfruttati sui social troviamo il bias di gruppo, il bias di conferma, l’ancoraggio, l’avversione alla perdita, l’effetto gregge.
Limitiamoci a titolo esemplificativo al bias di gruppo, un’inclinazione cognitiva che induce a fidarsi maggiormente del gruppo sociale a cui si appartiene, o si ritiene di appartenere. La ragione evolutiva più evidente di un tale comportamento è che gli individui appartenenti alla propria cerchia sociale, le persone note, sono ragionevolmente più «dalla nostra parte» rispetto a persone sconosciute. Più che un pre-giudizio è un post-giudizio, che però può condurre a sopravvalutare le capacità e il valore del nostro gruppo sociale, o a considerare i successi del nostro gruppo come risultato della qualità del gruppo stesso.
Per converso, si tende a non fidarsi delle opinioni di persone considerate parte di gruppi sociali diversi dal nostro, fino ad attribuire i successi di un gruppo estraneo a fattori esterni (caso, fortuna, congiunture favorevoli, ecc.) e non insiti nelle qualità delle persone che lo compongono. D’altra parte, il gruppo di cui ci si fida «automaticamente» può essere una forzatura veicolata da comportamenti gregari e non rispondente a una realtà fattuale al di là dei social media, come accade per il gruppo dei follower di un certo marchio o persona famosa.
Possiamo grossolanamente distinguere bias e pregiudizi ricordando che mentre un bias può avere una valenza positiva, appunto perché l’euristica su cui si basa può giocare un ruolo positivo nell’effettuare una decisione in maniera rapida, un pregiudizio è associato a un errore di valutazione e quindi ha una valenza negativa.
Ci sono però anche bias, inclinazioni, che sono particolarità personali. Ognuno ha i suoi. Non sono necessariamente i nostri difetti, anzi in genere sono le cose a cui teniamo di più, quelle più importanti per noi, per questo siamo vulnerabili. Per questo abbiamo bisogno di socializzare le nostre caratteristiche.
Giochi di (anti)manipolazione
Il tema dei bias e in generale della vulnerabilità ha a che fare con la pratica di raccolta dei dati finalizzata alla manipolazione, un tema che si è imposto nel discorso pubblico con la vicenda di Cambridge Analytica, una società britannica che ha avuto un ruolo centrale nell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti (2016) e nel referendum a favore della Brexit (2018). Era specializzata nel raccogliere dati sugli utenti dei social, ad esempio quando scrivono commenti di preferenza, il luogo da cui condividono i loro contenuti, oltre naturalmente ai «mi piace» e via condividendo. Elaborano poi queste informazioni attraverso degli algoritmi per creare profili di ogni singolo utente. È un approccio simile alla psicometria, una branca della psicologia che misura le caratteristiche della personalità umana. Non è stata fatta piena luce su Cambridge Analytica e probabilmente tutto rimarrà oscuro; di certo sappiamo che bastano pochissimi dati estratti dai social per effettuare predizioni straordinariamente accurate sulla personalità degli esseri umani.
L’idea di prevedere i punteggi della personalità in base ai dati dei social viene da David Stillwell, professore di scienze sociali computazionali alla University of Cambridge, e Michał Kosiński, ora professore associato alla Stanford University. I due idearono il sistema <https://mypersonality.org> nell’ormai lontano 2007, progetto rimasto attivo fino al 2018 quando hanno deciso di chiuderlo, sfiancati dalle cause legali. Potete ancora scoprire cosa rivelano le vostre impronte digitali sul vostro profilo psicologico attraverso il progetto psicometrico della University of Cambridge caricando i vostri dati social (https://applymagicsauce.com).
Gioco 1: Chi mi conosce lo sa
Una semplice attivazione che utilizziamo durante le formazioni per ragionare su questi temi è Chi mi conosce lo sa. Di solito cominciamo con l’affermare che più abbiamo informazioni su una persona e più siamo in grado di manipolarla, di spingerla a fare qualcosa che è nel nostro interesse anche se non è il suo.
Poniamo poi una domanda: è mai successo che, conoscendo bene qualcuno, abbiate utilizzato queste informazioni a vostro vantaggio? Quando?
Ecco alcune risposte che ci è capitato di sentire: «Un giorno volevo andare a ballare, il mio amico no. Allora mi sono ricordato che gli piaceva una ragazza e che probabilmente (ma non sicuramente) avremmo potuto incontrarla al club. Punto allora tutto su quello: ‘Dai vieni! Ho saputo che c’è Laura!’. Se non avessi saputo che a lui piaceva Laura, e soprattutto che non aveva tante occasioni per vederla, non avrei potuto usare quella carta a mio favore».
Un altro esempio in cui il protagonista (o vittima…) è proprio Davide. Un suo studente ad Anno Unico gli dice: «Noi sappiamo che ti piace tanto il rap, quindi quando non abbiamo voglia di fare le attività che ci proponi basta che ti facciamo una domanda su qualche rapper e tu inizi a parlare e non la smetti più, e l’ora è andata!».
Non fa una grinza: conoscere elementi personali di un proprio insegnante può essere molto utile per manipolarne il comportamento.
Gioco 2: Le parole che mi triggherano
È prezioso conoscere non solo «cosa ci piace», affermiamo, ma anche «cosa ci fa arrabbiare». Ad esempio può essere l’ingiustizia. Chi lo sa è consapevole di questa nostra vulnerabilità e quindi può sfruttarla per arrecarci una ferita, attaccarci, perché i nostri punti di forza sono anche i nostri punti di debolezza. Può prevedere cosa faremo perché probabilmente reagiremo di fronte a un’ingiustizia.
[esercizio] Anche la conoscenza si può giocare: se vuoi fare incazzare un amico che conosci davvero cosa gli dici? Se qualcuno vuole fare incazzare te, quali sono le parole che ti triggherano maggiormente, agendo come grilletti (trigger) e facendoti reagire in maniera automatica? Quando ti hanno convinto con una notizia falsa?
Il lavoro consiste nell’imparare a riconoscere quando ci sale quel sentimento di rabbia. Decentrare il punto di vista, osservarci mentre agiamo. Essere consapevoli di quello che ci colpisce, ferisce, smuove.
Sara dice: «Sbarello quando mi dicono che sono bassa. Mi arrabbio tantissimo. Mi sale qualcosa. Non sono completamente razionale, già adesso che ci sto solo pensando, mentre lo racconto, già mi annebbio. Potrei trovare un improbabile post che riferisce di una ricerca dell’università di Boston secondo cui il cinquanta percento delle persone basse sono più intelligenti e lo condivido al volo sui social!»
Quando ci arrabbiamo si ottenebra lo sguardo, la lucidità ci abbandona, diventiamo innanzitutto prede di noi stessi, perché cadiamo in uno stato di minorità in cui è più facile manipolarci.
Maggiore è la quantità di dati che viene raccolta su una persona, maggiore sarà la possibilità di prevedere il suo comportamento, quindi di indirizzarlo, blandirlo, manipolarlo. Muovendo da questa consapevolezza possiamo renderci conto di come funziona la profilazione, perché raccogliere i nostri dati è così importante, perché venderli a chi ci vuole manipolare è così redditizio. La tecnologia è sempre politica in quanto azione nello spazio pubblico.
capitolo nono
Resistere sul filo del rasoio
Ad Anno Unico abbiamo chiesto di ipotizzare possibili soluzioni agli effetti nocivi degli strumenti digitali. I ragazzi dovevano scrivere un racconto di fiction in cui si ipotizzassero risposte virtuose, in particolare al problema della dipendenza.
Dovevano scrivere lo script di un film. Specialmente per gli adolescenti può essere più facile immaginare una narrazione di un film o di una serie tv; le soluzioni potevano essere anche fantastiche, era permesso osare senza censure. Volevamo provare a superare l’immaginario distopico tipico di narrazioni in stile Black Mirror e sfidare l’impotenza che questi racconti suscitano permettendoci anche soluzioni assurde e non necessariamente politicamente corrette.
Di seguito il testo creato da un gruppo di sei ragazzi refrattari alla scuola ma molto svegli, senza nessun intervento adulto:
Un ragazzo nella sua famiglia. È il figlio più piccolo. Si rende conto che si sente solo perché i genitori non parlano: non parlano tra di loro, non parlano con lui. Studia allora un metodo per staccare i genitori dal telefono.
Fa diversi tentativi: prima stacca il wi-fi; poi rompe i telefoni ai genitori (glieli rompe di notte, nei pochi momenti che non li hanno in mano); infine stacca le sim dai telefoni e le butta via. Questi metodi però non funzionano.
Cerca allora di far sentire i genitori in colpa perché non fanno il loro dovere. Denuncia l’azienda dei telefoni, cerca delle prove che la colpa per cui i genitori non si parlano è dell’azienda dei telefoni.
Chiama un amico, gli chiede come va, lui gli dice che la situazione a casa sua è simile, allora insieme decidono di creare un gruppo. Si danno un appuntamento in un posto segreto, vanno all’azienda che produce i telefoni, si presentano nell’ufficio del proprietario dell’azienda. Gli dicono: «Guarda, i nostri genitori non pensano più a noi», poi lo mandano affanculo e lo menano. Menano il signore dei telefoni.
Poi se ne vanno e fanno scattare la seconda parte del loro piano. Tolgono l’elettricità a tutta la città. La gente rimane al buio ed è costretta a utilizzare le candele. Le persone senza luce con il passare dei giorni vanno in depressione, iniziano a esserci diversi suicidi, la gente inizia a protestare, c’è una rivolta perché i cittadini rivogliono l’elettricità. I ragazzi allora propongono un patto: se vi ridiamo l’elettricità tutti i telefoni devono sparire.
Sebbene si tratti di un testo che a molti colleghi potrebbe far storcere il naso, scritto da ragazzi piuttosto allergici alla scrittura (e alla lettura, e ai contesti scolastici), contiene alcune intuizioni per ipotizzare «come fare» di fronte a tutto quello che abbiamo visto fino a qui.
Ecco alcune riflessioni che possiamo trarre da queste intuizioni: noi adulti, in quanto utenti, siamo dipendenti come e forse più dei ragazzi. Se vogliamo chiedere loro di mettere in discussione l’utilizzo che fanno dei dispositivi digitali, dobbiamo farlo noi per primi.
Non ci sono strumenti semplici, per difendersi c’è bisogno di qualcosa di radicale, di forte, la resistenza non può essere che sgangherata, però è sempre resistenza.
E poi c’è una questione economica e politica. Molte delle piattaforme digitali a cui facciamo ricorso quotidianamente sono progettate da team di ingegneri e psicologi per generare dipendenza. C’è un ruolo, rimosso, dell’economia e del conflitto. La dimensione economica, il neoliberismo ha un ruolo importante in questa partita, anche se molti media educators evitano o marginalizzano la questione; non lo dicono esplicitamente, ma lo fanno intendere: «è colpa vostra che utilizzate male lo strumento». Invece il racconto ci spiega, con linguaggio colorito, che se si desidera il cambiamento bisogna mettere in conto anche un importante livello di conflitto; non basteranno i ravvedimenti interiori.
Se ne esce insieme. La dipendenza da strumenti digitali ha una dimensione sociale e politica, perciò non può essere affrontata dall’individuo da solo. Bisogna allearsi, come i ragazzi nella storia.
Resistenze al limite
Quindi, come fare? Ci siamo detti che non esistono persone al riparo dalla fatica del digitale, che siamo vulnerabili e che non dipende (solo) da noi. Non è una questione di età, di furbizia, di intelligenza. Non è facile combattere contro i demoni, anzitutto perché non si vedono se non ci si allena a vederli; bisogna sviluppare le competenze di shadowboxin’ dei guerrieri Shaolin, saper combattere contro le ombre.
Incontrandoli nei laboratori, o ad Anno Unico, ci rendiamo conto sempre di più che i ragazzi non sono affatto vittime passive e immobili. Non di rado cercano di essere attivi, di fare resistenza, anche se spesso si manifesta in azioni che non vengono riconosciute nel loro valore emancipatorio. Sono comportamenti difficilmente de-codificabili da parte degli adulti, anche perché talvolta si concretizzano in agiti istintivi e radicali.
Ricapitolare alcuni di queste modalità può essere utile a coglierne la complessità per avvicinarsi ai vissuti delle nuove generazioni e al loro desiderio, nonostante tutto, di r-esistere, sebbene si tratti spesso di una resistenza spuria, sgangherata, al limite, sul filo del rasoio:
Ghosting
Quando un ragazzo sparisce dai radar delle piattaforme digitali, quando non risponde più ai messaggi e al telefono la preoccupazione degli adulti è sempre molto alta. Dal nostro osservatorio appare una modalità molto diffusa e in aumento. La risposta in genere è quella del giudizio senza appello, talvolta caricata da un ricatto affettivo: «Mi hai fatto stare male. Non sai quanto mi sono preoccupato». Porsi in ascolto delle cause che portano a questi comportamenti di sparizione, definite appunto ghosting, può cambiare il nostro sguardo. Ci troviamo di fronte a generazioni di bambini e adolescenti cresciuti sotto il peso di un controllo mai sperimentato finora, e allo stesso tempo, lo si è già visto nei capitoli precedenti, maggiormente sottoposta a stimoli mediatici, verso i quali l’attenzione è sollecitata all’estremo. In un contesto simile non esistono spazi di silenzio, di quiete: questa condizione può generare forti sofferenze. Il ghosting può manifestarsi come possibilità (limite) di resistenza a una realtà invivibile, paradossalmente risponde a una urgenza di aria, di autonomia, di sottrarsi a un Grande Fratello che richiede continuamente la loro presenza attiva, e di esplorare il mondo per espletare gli irrinunciabili compiti evolutivi, si tratta di «fare il morto» (Euli, 2016) ma solo nel mondo digitale per poter continuare a vivere in quello reale.
Recentemente una ragazza di Anno Unico ha fatto perdere le sue tracce per tre giorni, gli ultimi a vederla sono stati insegnanti e compagni all’uscita da scuola. Tre giorni di sofferenza per i genitori, ma anche per i compagni e il personale scolastico. Poi un primo messaggio a un’amica: «Sto bene»; infine il rientro a casa.
Al ritorno racconta che semplicemente «aveva il telefono scarico» e ci ha messo un po’ a trovare un modo di ricaricarlo, dice che non si era accorta di tutto quello che stava accadendo, fino a che su Instagram non si è imbattuta in un articolo della stampa locale condiviso da un’amica in cui si parlava della sua scomparsa e delle ricerche delle forze dell’ordine. Era andata a trovare amici che vivono insieme in un città universitaria e insieme erano stati a un rave. Riferisce che in quei giorni è stata molto bene, accolta da un gruppo di coetanei con cui «si è sentita a proprio agio come raramente le era accaduto», aveva scoperto parti di sé che non erano mai emerse.
A Davide e ai suoi colleghi la storia del telefono scarico non tornava per nulla. Resta il fatto che emergeva un desiderio di sperimentarsi, di essere vivi al di fuori del controllo famigliare, di sparire per essere protagonista di se stessa. Successivamente il lavoro educativo con lei è stato da una parte quello di rielaborare quanto appreso durante quei giorni, dargli valore, approfondirlo e condividerlo; dall’altra lavorare sulla consapevolezza che ghostare in questo modo può provocare grandi sofferenze in chi ci vuole più bene, quindi provare a mettersi nei loro panni è stato molto utile: ma se ne era accorta anche da sola.
Agli adulti spetta il pungolo più acuminato. Questa vicenda ci ricorda ancora una volta l’importanza per gli adolescenti di vivere spazi di autonomia e sperimentazione, sottolineando come questo richieda l’accettazione anche della dose di rischio che tutto questo può comportare, un rischio sempre più difficilmente tollerato da chi ha responsabilità educative. Sul fronte dell’utilizzo dello strumento digitale emerge la necessità di capire come creare un patto intergenerazionale per porre dei limiti al cordone ombelicale digitale che troppo spesso diviene soffocante per i più giovani. Vanno contrattate insieme modalità di comunicazione più sostenibili: un conto è pretendere un messaggio per dire «tutto ok», un altro la continua ricerca di interazione – «Dimmi! Raccontami! Come va? Stai Bene? Sei sicura?…» – che in reazione può portare al blocco della comunicazione.
Al di là della relazione con i genitori è inoltre interessante notare come tra gli adolescenti il ghosting sia una pratica diffusa anche nei contesti amicali. Il dispositivo richiede di essere sempre all’erta, pronti a rispondere, reattivi e a volte, anche con i pari, disconnettersi senza troppe spiegazioni diventa l’unico modo per concedersi un piccolo spazio di respiro.
Utilizzare canali di comunicazione più protetti
Un altro elemento di r-esistenza che emerge è la creazione di relazioni online tra affini al riparo dalla performatività sociale, utilizzando strumenti di comunicazione più protetti rispetto ai social.
Molti adolescenti adottano come spazi di relazione e per tenersi in contatto altri spazi digitali che ritengono più conviviali; è il caso delle chat dei videogiochi online (mmorpg). Lì l’algoritmo della performance a quanto pare non arriva (ancora?), e nemmeno lo sguardo curioso di qualche adulto o di qualche pari non ben accetto. Mentre sul monitor si è impegnati sferrare colpi mortali o preparare assalti, in parallelo si sta comunicando, e spesso si parla di sé, si portano parti autentiche e delicate della propria esperienza, lontani dal palcoscenico e dai dispositivi social.
È un luogo comune che i dispositivi digitali siano la causa dell’inaridirsi delle relazioni faccia-a-faccia, fino alla reclusione sociale e al fenomeno degli hikikomori. Uno sguardo più attento, confermato dalla letteratura più recente, ci presenta però una realtà diversa.
In aula Christopher ci racconta che nei videogiochi online ha conosciuto molti amici; quando gli facciamo notare, come molti adulti direbbero, che quelli che lui chiama amici non possono essere davvero persone con cui intrattiene un significativo rapporto di amicizia, lui replica con un discorso che stupisce per la sua lucidità. Afferma che probabilmente per lui sono più amici quelli online che quelli della compagnia con cui esce di solito, perché con i primi riesce ad aprirsi di più e parlare di argomenti più personali. Riflette ad alta voce sul fatto che forse è perché spesso nel digitale quando si comunica non si vede in volto l’interlocutore, si sente solo la sua voce o, in chat, si leggono le parole, e per questo ci si sente più sereni nel confidarsi. Nella compagnia o con gli amici dal vivo, invece, Christopher ci dice che non si possono fare discorsi seri, o essere di cattivo umore: «Insieme si ride e si fa gli scemi… è così! Bisogna essere felici… se parli di quelle cose [personali] sei uno sfigato».
Lo smartphone può quindi rivelarsi l’ultimo strumento che rimane per comunicare con l’esterno, al riparo dagli ambiti prestazionali dai quali sono fuggiti. Questa dinamica è riscontrabile anche nelle persone che continuano ad avere una vita sociale «normale», come Chris.
Nelle relazioni amicali dei nuovi adolescenti in cui la compagnia è palcoscenico narcisistico ed esibizionistico in cui bisogna performare, talvolta il digitale ritaglia una zona protetta dove poter tornare a parlare di sé. In particolare questi strumenti sono utili per i ragazzi meno popolari per trovare dei simili, persone con gli stessi interessi, magari non diffusissimi tra i pari con cui quotidianamente vengono in contatto.
Queste riflessioni non solo ci portano a guardare con un occhio diverso il rapporto tra l’utilizzo degli strumenti digitali e le relazioni sociali, ma consentono di formulare suggerimenti preziosi su quali sono gli ambienti maggiormente generativi non solo per i più giovani, ma per tutti. Abbiamo bisogno di territori in penombra dove non essere giudicati, dove è possibile risuonare insieme, dove poter entrare in contatto anche attraverso le vulnerabilità. Si tratta forse dell’indicazione operativa più preziosa per chi si occupa di lavoro educativo ma può essere allargato a chiunque voglia r-esistere al contesto tossico attuale. Approfondiremo nel prossimo capitolo.
Messaggi in codice: la steganografia sociale
Spesso si ripete agli adolescenti che «esporre la propria vita sui social» ha dei rischi. Spesso i profili vengono lasciati pubblici, consultabili da chiunque, così come, anche nel caso possano accedervi solo «amici» o «follower autorizzati», la varietà di questi ultimi può essere tale da creare comunque un problema: non è detto che quello che vogliamo far sapere ai nostri amici sia destinato anche all’anziana mamma o al datore di lavoro.
Abbiamo sperimentato attività ad hoc sul tema, chiedendo di dividere i componenti della propria bolla in gruppi e di analizzare come persone provenienti da contesti anche molto lontani avrebbero potuto reagire allo stesso messaggio. Il rischio di un «collasso dei contesti» dalle innegabili conseguenze negative sulla propria vita sociale è palese; a tal proposito, è importante riconoscere che le nuove generazioni hanno già sviluppato strumenti di resistenza anche su questo fronte.
Un approccio molto diffuso è quello che la ricercatrice danah boyd (2018) ha definito steganografia sociale. Si tratta di una pratica, molto usata dai più giovani (ma non solo), per sottrarsi all’occhio indiscreto dell’algoritmo e di una parte dei propri contatti, ad esempio inserendo una frase in un contesto social pubblico che può capire solo una certa persona. È una tecnica per comunicare in segreto nell’arena pubblica dei social: come la steganografia classica, consiste nel nascondere il messaggio reale all’interno di un altro messaggio. Soltanto le persone che conoscono bene l’autore del messaggio sanno decodificare qual è il significato che si voleva trasmettere, mentre le altre colgono solo il significato palese. Ad esempio, i miei amici potrebbero essere informati del fatto che se commento un video con tre cuori seguiti da un punto esclamativo si tratta di un segnale: ho bisogno del loro aiuto.
Più semplicemente e più frequentemente però la chiave condivisa è semplicemente il fatto di essere in possesso di informazioni sulla vita privata di chi scrive: un ragazzo può postare il link a una canzone accompagnata dal commento «oggi sono davvero felice»; gli amici intimi, sapendo che quella canzone è legata a un ricordo spiacevole per chi l’ha postata (era la canzone associata a una storia d’amore finita male…), sapranno decifrare che ciò che si voleva comunicare era esattamente il contrario, e comprendere il vero significato della comunicazione.
Abbiamo imparato cose molto interessanti facendoci raccontare esempi, aneddoti, trucchi.
Per inciso, la steganografia è una tecnica impiegata dagli attivisti che operano in paesi autoritari per nascondere in bella vista il vero significato delle loro comunicazioni, così come da complottisti dei più vari orientamenti per sfuggire alla censura automatica, in una gara senza fine con i moderatori umani e gli algoritmi di moderazione dei contenuti.
Uscire dai social: il «tacchino freddo»
Le modalità più semplici per sottrarsi a queste criticità sono limitare fortemente o abbandonare del tutto la propria attività social, oppure non aprire un profilo. Sempre più ragazzi stanno scegliendo di starne fuori: paradossalmente, qualche adulto arriva a preoccuparsi, si chiede che problemi ha quel giovane che rimane fuori. Non è molto sociale, si rispondono, oppure è all'antica, non ama la tecnologia. Come se essere tecnologici o giovani coincidesse con lo stare sui social. Al contrario: potrebbe voler dire avvalersi di contesti digitali che si gestiscono meglio per costruire relazioni migliori.
Molto noto è il cosiddetto trattamento del «tacchino freddo» (cold turkey), cioè l’interruzione repentina e completa di ogni interazione social senza alcuna supervisione esterna. L’origine dell’espressione è controversa, di certo viene impiegata da circa un secolo per indicare la disintossicazione da oppiacei da parte di persone dipendenti che decidono volontariamente di smettere senza richiedere assistenza medica. Cold turkey è anche canzone di John Lennon del 1969 che si riferisce alla sua esperienza di astinenza dall’eroina, con la pelle fredda e accapponata. Oggi l’espressione viene utilizzata come generico riferimento alle dipendenze.
L’astinenza preventiva, cioè evitare a priori di entrare nelle interazioni social, è un approccio sempre funzionale, ma non sempre praticabile, perché possono esserci molti motivi che richiedono di entrarci. Il più comune si verifica quando una rete sociale (social network) a cui si appartiene, professionale o personale che sia, individua un certo sistema come proprio strumento d’elezione: rifiutare di esserci implicherebbe subire una vera e propria esclusione sociale.
La modalità di resistenza «tacchino freddo» ha una propria dimensione traumatica, a livello psico-socio-fisico; richiede un’enorme forza di volontà, con il concreto rischio di fallimento (quindi di ricaduta) e/o di passare da una «sostanza» all’altra. Tuttavia, quando le persone si sentono determinate e in grado di andare fino in fondo, possiamo testimoniarne l’efficacia.
Distruggere lo smartphone (o passare a un dumbphone)
Un rapido accenno a una delle pratiche più estreme di resistenza all’oppressione delle piattaforme digitali commerciali: distruggere il telefono. Chi lavora con i più giovani facilmente avrà constatato agiti di questo tipo.
Che problemi ha un adolescente che lancia con violenza a terra il proprio smartphone? Un gesto istintivo, violento, che talvolta è seguito da un pentimento repentino: e ora cosa faccio? E dal richiamo dell’adulto: e ora chi te ne paga un altro?
Un gesto che però può essere letto anche come luddismo contemporaneo, richiamando alla memoria quel momento storico della rivoluzione industriale in cui il lavoratore percepiva l’oppressione ma non aveva una lettura chiara della situazione, né una comunità di riferimento con cui costruire una lotta di resistenza, e si lanciava in atti di violenza contro le macchine, percepite come portatrici di oppressione. Attenzione: il luddismo storico è stato violenza contro le macchine del padrone, non contro le macchine tout court. Contro i telai meccanici che incatenavano l’essere umano all’automazione nascente, non contro le tecniche di tessitura tradizionali. Forse nella società contemporanea stiamo vivendo qualcosa di simile. Leggere anche questa modalità come resistenza, come un’urgenza di emancipazione può esserci utile. Ci aiuta a ricordare ancora una volta il vissuto di ambivalenza che l’esperienza del digitale porta con se, a problematizzare, a porci domande insieme.
Notevole, nel quadro nella spinta a liberarsi dallo smartphone, la pratica di equipaggiarsi di dumbphones (telefoni stupidi, in opposizione agli smartphones, telefoni furbi/intelligenti), ovvero di flip-phones, i tipici cellulari «a conchiglia» diffusi a cavallo del millennio. Riguarda soprattutto persone molto giovani, appartenenti alla generazione z e alla successiva Alpha. Si tratta di fenomeno al momento di nicchia ma che inizia ad avere una certa eco anche sulla stampa mainstream, in particolare negli usa. Non siamo interessati tanto a indagare se si tratta di una tendenza destinata a espandersi, quanto di indicarla come ennesima testimonianza delle pratiche che si stanno mettendo in campo per riconquistare spazi di vita.
Ubriacarsi di digitale
In ultimo, sempre ascrivibile a nostro avviso alla voce resistenza, per quanto di segno totalmente opposto rispetto a quanto detto finora, citiamo la pratica dell’ubriacatura consapevole di digitale. Possiamo essere consapevoli del demone, di tutti gli effetti stordenti degli ambienti gamificati, ma nel momento in cui, anche o proprio alla luce di questo effetto, l’abuso è una scelta, non ci sono molti margini per sbloccare la situazione, quantomeno se il tema rimane il rapporto con i dispositivi. Diversi adolescenti ci raccontano che per loro l’utilizzo smodato del digitale è un tentativo, seppur estremo, seppur con alti gradi di tossicità, di allontanare il dolore dei vissuti depressivi, espediente per contrastare la mancanza di senso. Si tratta di ricercare l’abbuffata, il binge in inglese, alla ricerca di quello che l’antropologo e sociologo David Le Breton definisce stato di biancore (Le Breton, 2016), un anestetizzante in grado di tenere a bada la paura di confrontarsi, di fallire, in una società sempre più competitiva, individualista e quindi patogena. Non è quindi un modo semplicemente per farsi male ma strumento di resistenza al male di vivere, per qualcuno unica possibilità per evitare agiti autolesionistici più gravi e in alcuni casi mortali.
È importante che gli adulti siano in grado di riconoscere quando la sofferenza verte su questo fronte, e in tali casi accantonare i percorsi di «consapevolezza digitale» e aprire uno sguardo di attenzione e cura che vada ben oltre l’abuso del cellulare. Spesso in questi casi diviene fondamentale creare per i ragazzi spazi di respiro sottratti dal peso della competizione, luoghi di ascolto e di costruzione di senso, di sperimentazione di esperienze vitali per ritrovare, un passo alla volta, il desiderio (e lentamente anche l’utilizzo smodato dello smartphone si ridurrà).
Trick di sottrazione e diserzione
Spesso i partecipanti ai laboratori ci portano piccoli trick tecnici nell’ottica di programmare una somministrazione a scalare della sostanza-digitale, con accorgimenti per limitare i danni. Noi le definiamo strategie tecnosoluzioniste, non ne siamo entusiasti nel momento in cui, come spesso accade, vengono dipinte come le pratiche elettive su cui concentrarsi per affrontare (e risolvere!) la questione del rapporto tossico con la tecnologia dei padroni. Rimane il fatto che in un momento in cui c’è sete di resistenza anche queste possono avere un loro valore per uscire dalla zona della macchina, purché non ci si accontenti a questo. Riportiamo alcune tra quelle più diffuse:
– Decidi che il luogo di ricarica notturna del telefono sia lontano dalla camera da letto, in modo che non sia la prima e l’ultima cosa che guardi prima di dormire (e non ti venga voglia di consultarlo la notte).
– Per la ragione precedente, non usare lo smartphone come sveglia, compratene una, come ai vecchi tempi.
– Dedica del tempo a disattivare tutte le notifiche.
– Poniti delle regole, dei confini all’utilizzo dello smartphone. Decidi di non utilizzare il telefono prima e dopo una certa ora.
– Rimuovi le app dei social dallo smartphone, accedi ai tuoi profili in modo meno automatico attraverso il browser o addirittura dal computer, in momenti specifici della giornata.
– Periodicamente decidi dei giorni in cui non sarai reperibile da nessuno.
– Segui anche pagine di chi non è d’accordo con te, in questo modo scardinerai la filter bubble, avrai uno sguardo più ampio e prenderai un po’ in giro gli algoritmi di profilazione.
– Quando devi concentrarti al computer stacca la spina dal router: disconnettiti dalla rete.
Molti di questi consigli arrivano dal gruppo Humanetech.com, che noi scherzosamente chiamiamo i «Pentiti della Silicon Valley», che mette a disposizione sul proprio sito una lista di app progettate per disinnescare i dispositivi della gamificazione.
Sono persone che, spesso in buona fede, hanno lavorato per le grandi aziende tecnologiche che ora avversano: hanno inventato lo scroll infinito, il bottone «mi piace», e ora, constatando con orrore gli effetti delle loro invenzioni, ci spiegano perché ciò è male. Hanno prodotto il lungometraggio The Social Dilemma, che presenta diversi passaggi sicuramente utilizzabili anche in contesti formativi, sebbene il messaggio conclusivo ci precipiti abbastanza nella disperazione: e la disperazione non si addice all’attitudine hacker che piace a noi. In merito a questo tipo di approccio non si può non citare anche l’attività del guru tecnologico Alex Soojung-Kim Pang che nel suo libro Dipendenza digitale. Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia (2015) propone, tra altre riflessioni, un ampio armamentario di zenware, software e applicazioni tese a ridurre la distrazione mentre si utilizzano i dispositivi digitali.
In rete, spesso sotto il cappello di digital detox, potete trovare tanti suggerimenti su questa linea.
Autodifesa creativa hacker
Nella nostra ricerca continuiamo a constatare l’efficacia della sottrazione come tattica di resistenza alla tossicità ambientale, compresa quella social. Le microtecniche da poter mettere in opera sono molteplici: si può applicare il blocco, ad esempio bloccando le storie o qualsiasi altro contenuto che la piattaforma consenta di bloccare in maniera selettiva. In questo modo si impara a discriminare, cioè a instaurare relazioni di fiducia a geometria variabile, differenziate in base alle persone. Non tutti possono vedere tutto, fermo restando che la piattaforma, in ogni caso, vede ogni cosa. Il blocco può anche essere applicato a un particolare utente che ci mette a disagio.
Questo tipo di microtecniche di autodifesa rischiano di ridursi a elenchi prescrittivi di cose da fare per ridurre le nocività del digitale. Nei laboratori il salto di qualità avviene quando le persone si attivano in prima persona per elaborare le proprie tecniche. Si tratta ancora di fare gli hacker, analizzare un problema nella propria vita reale e giocare a sperimentare soluzioni. Nei laboratori dedichiamo del tempo a queste pratiche, evidenziando i problemi che ci toccano maggiormente, ragionando e ipotizzando soluzioni inedite insieme: i partecipanti portano le proprie sensibilità e criticità, esperienze e competenze tecniche, noi facciamo lo stesso.
YouTube è una spina nel fianco per molte persone che evidenziano i grandi fastidi dati dalla pubblicità e dal suggerimento automatico di nuovi video (autoplay), che favorisce l’abuso. Abbiamo cercato insieme un hack che facesse al caso nostro. Fra i diversi sistemi che bloccano le pubblicità e l’autoplay c’è il client NewPipe, un software libero (per Android); per la navigazione via browser, specie su computer, ci piace invidious.io, un front-end verso YouTube.
Suggeriamo anche di far ricorso a motori di ricerca non tracciata e non profilata come DuckDuckGo, meta-motori come Searx; navigare nel web con tor Browser è più lento, ma anonimo; abbandonare WhatsApp e scegliere altre piattaforme per alcuni contatti a cui teniamo; creare email temporanee per loggarsi su servizi a cui ricorriamo una sola volta; impiegare il meno possibile il proprio nome anagrafico. Per confondere la profilazione possiamo postare sui social foto di città diverse da quella in cui ci troviamo; un gioco divertente è manipolare il contenuto con tag scorretti, far ricorso al ritocco fotografico, fino al deepfake, tecnica di sintesi di immagini per combinare immagini e video.
Imparare a tenere e a farsi tenere: Ulisse e le sirene
Una volta che abbiamo imparato a riconoscere alcune nostre vulnerabilità possiamo decidere su quali fronti resistere e come. L’aiuto può venire dai trick tecnici di cui sopra, ma anche da ritualità e sostegno reciproco umano.
In un laboratorio è emersa l’immagine di Ulisse e le sirene. L’ingegnoso eroe acheo non voleva negarsi la possibilità di ascoltare il canto inebriante (e manipolatorio) di quei mitologici esseri metà donna metà pesce, era incuriosito dalla bellezza al di là del rischio. Aveva così deciso di non tapparsi le orecchie con la cera come il resto della ciurma, ma aveva chiesto ai compagni legarlo all’albero maestro per poter ascoltare il canto delle sirene e allo stesso tempo evitare di gettarsi in mare come era accaduto a tanti marinai prima di lui.
Qualche partecipante si è chiesto se fosse possibile abitare le piattaforme digitali dal forte connotato dopaminico con le precauzioni adottate da Ulisse. Se non vogliamo privarci degli elementi di piacere o di utilità presenti in questi ambienti, ma siamo consapevoli dei forti rischi che corriamo, potremmo delegare una persona di nostra fiducia e chiedere: «Quando serve, tienimi!». È un patto da stringere con qualcuno quando siamo in un stato di lucidità, chiedendo di aiutarci a tirarci fuori quando abbiamo raggiunto dei limiti che concordiamo insieme.
Questa riflessione, emersa spontaneamente è un approccio che sentiamo affine (e analoga a quanto proposto dall’iniziativa Patti Digitali, Per un’educazione di comunità all’uso della tecnologia, https://pattidigitali.it) perché da una parte assume la vulnerabilità dell’essere umano e dall’altra gli riconosce la libertà di scelta. Con i giusti accorgimenti da valutare caso per caso, ci sembra anche che possa essere una strada preferenziale nel lavoro con gli adolescenti. Valutare insieme le vulnerabilità, gli obiettivi personali (ad Anno Unico lo si fa anche alla luce del percorso di pedagogia hacker) e poi decidere insieme. A quel punto la legittimazione del tienimi arriva dal ragazzo e l’argine dell’altro è più accettabile.
È cruciale decidere qualcosa di sostenibile, ragionevole, in maniera davvero concordata piuttosto che spingere verso l’ideale, strappare un accordo inverosimile per poi sconfermarlo a ogni occasione, frustrandosi reciprocamente e facendo saltare la già in principio delicata alleanza.
È quindi importante sviluppare competenze anche per chi svolge il ruolo di argine. Queste persone devono sapere come funzionano i dispositivi e come funzioniamo in relazione a essi. Ne abbiamo parlato a lungo con un gruppo genitori spaventato dalle reazioni aggressive dei figli nel momento in cui cercavano di allontanarli dalla Playstation. Ragionando insieme ci siamo inventati una sorta di protocollo su come farlo nella maniera meno traumatica possibile, più sintonizzata con i bioritmi di chi sta giocando. Abbiamo ricordato che il flusso dopaminico è alimentato dalla connessione diretta occhi-cervello, cioè funziona principalmente attraverso stimoli visivi. Spegnere bruscamente il monitor, togliere la corrente, come qualcuno aveva provato, interrompe violentemente questo flusso generando nell’organismo scompensi neurochimici che logicamente possono produrre reazioni anche molto aggressive.
Da hacker abbiamo allora ipotizzato alcuni trick, stratagemmi che rappresentano degli esercizi creativi prima ancora che un metodo infallibile:
– Aumentare gradualmente il volume audio della richiesta di interruzione (stimolo uditivo), mettere una musica, abbassare fino a spegnere le casse che diffondono suoni e musica del gioco, sostituirla con altre canzoni.
– Sedersi di fianco alla persona catturata dal flusso e toccarla, fargli massaggi a invadenza crescente (stimolo tattile). Fastidioso ma meno che togliere lo stimolo visivo.
– Diminuire gradualmente la luminosità dello schermo invece di spegnerlo di colpo.
– Cucinare una torta e richiamare attraverso il suo profumo (stimolo olfattivo).
Insomma si tratta di creare degli appigli sensoriali, materiali, non cognitivi, fuori dalla zona della macchina per offrirli alla persona che vogliamo aiutare; ognuno saprà valutare cosa è meglio in quella situazione se conosce come funziona il sistema organismo-macchina.
Se è importante la conoscenza bio-tecnica, è importante anche conoscere la persona che si sta tenendo e il momento che sta vivendo. Ci sono momenti in cui si può lasciare che si trasgrediscano o riparametrino i patti, tollerare l’intensificarsi dell’utilizzo dello strumento digitale, come rifugio, strumento di comunicazione o spazio per rimanere in contatto con il mondo. Se siamo all’inizio di una storia d’amore, se è successo qualcosa che ci ha tolto molti riferimenti, se viviamo un momento di isolamento, di tutto questo va tenuto conto: dobbiamo accostarci con delicatezza.
Nel lavoro con i ragazzi in dispersione scolastica si è deciso che nel periodo in cui ci si sta conoscendo e si sta costruendo fiducia reciproca (un processo che può durare mesi) si è maggiormente tolleranti anche per quanto riguarda l’uso di questi strumenti. Quando poi si è costruita sintonia, è possibile stringere patti di utilizzo più rigorosi, che comprendono anche l’affidamento del telefono all’adulto nel momento in cui c’è bisogno di particolare concentrazione. Se si è costruito un legame sufficientemente saldo (tra esseri umani, prima che tra operatore e utente) alla fine, dopo i brontolii, potranno almeno per un po’ affidarci il loro amato-e-odiato prezioso oggetto.
capitolo decimo
Ci si libera solo insieme
Non è solo compito dell’individuo
Uno degli elementi che emerge durante i laboratori è la tensione tra scelta individuale e questione collettiva. Certo, individualmente ci si può rifiutare, possiamo sottrarci alla pressione tecnologica. Ma se la norma diffusa è il ricorso a una determinata modalità comunicativa (come accadeva nei diversi pianeti della conferenza intergalattica) il personale rifiuto del singolo si scontra con le consuetudini sociali. All’opposto, ma in maniera del tutto analoga, individualmente posso adottare le tecnologie più innovative, ma se nel luogo in cui lavoro, nella mia cerchia amicale e personale c’è riluttanza e diffidenza nei confronti di quelle che per me sono innovazioni e per gli altri attentati alla loro tranquillità… ancora una volta, il mio personale intento si scontra con le consuetudini.
La tensione tra scelta individuale e dimensione collettiva riporta direttamente alla questione più squisitamente politica. Che società desideriamo? Come vogliamo organizzarci come comunità, rispetto alle tecnologie e non solo?
Le strategie di autodifesa viste nel capitolo precedente sono principalmente individuali, mettono poco in discussione l’ambiente di interazione allargata in cui ci troviamo, la dimensione comunitaria e sociale; sono funzionali al sottinteso che questo è il presente e così sarà il nostro futuro, non c’è altro da fare che difenderci individualmente.
Invece siamo convinti che la dimensione sociale debba tornare tema centrale nella riflessione sulle tecnologie, ce lo hanno ripetuto anche i ragazzi nel racconto fantastico senza compromessi che apriva il capitolo precedente. Le proposte formative di consapevolezza digitale in genere dedicano poco tempo all’aspetto sociale, politico; tendono a limitarsi all’individuo: cosa devo fare per vivere singolarmente in modo sano il rapporto con la tecnologia? Al centro c’è sempre l’io, un io che deve essere forte (anzi, resiliente), ovvero ancora una volta performante.
Utilizzare insieme la tecnologia in modo diverso
Percepiamo qualcosa di malsano e perverso nelle modalità di interazione imposte dalle piattaforme digitali commerciali, dai loro demoni, che abbiamo imparato a evocare. Con un certo disagio abitiamo questi luoghi che ci richiedono continua attenzione, esposizione di sé e prestazione. Allo stesso tempo facciamo fatica a uscirne perché attraverso quegli strumenti esperiamo una parte importante della nostra socialità: teniamo i contatti con gli amici, con le persone con cui si condividono progetti, militanza, attivismo, lavoro, passioni. Il pensiero è spesso: vorrei uscirne ma non posso, mi isolerei da tutto e non voglio.
Di fronte a questo scenario l’unica vera modalità sostenibile è uscirne insieme. Non si sceglie di uscire unilateralmente da uno strumento o da modalità di comunicazione, pena l’interruzione della comunicazione stessa. Se invece insieme al mio interlocutore decido di cambiare strumento o il modo in cui noi lo utilizziamo forse può avviarsi un cambiamento che è possibile consolidare nel tempo.
Ricordiamo l’esempio dell’utilizzo dei gruppi di WhatsApp in un contesto educativo come Anno Unico durante la pandemia: essendo consapevoli, conoscendone il demone, l’équipe decise niente gruppi, solo broadcast, affiancando altri strumenti e ritualità comunicative come la telefonata settimanale, la chat individuale, il podcast in cui si riassumevano i pensieri e le riflessioni di tutto il gruppo durante la settimana.
In questo esempio è la decisione dell’adulto, responsabile della relazione educativa, che ha avuto un peso particolare nella modifica delle modalità comunicative. Quello che importa ai fini del nostro discorso è che insieme si è condivisa la modifica delle regole di comunicazione, siamo divenuti custodi di nuove procedure interattive che hanno migliorato i nostri vissuti rispetto la comunicazione a distanza.
Qualcosa di simile può succedere sul fronte del lavoro, laddove una certa distribuzione del potere ci permette di prendere decisione condivise. Ad esempio, possiamo stabilire che la nostra cerchia non fa ricorso al gruppo WhatsApp il sabato e la domenica, o dopo una certa ora; o, ancora, non lo utilizza affatto e opta per modalità alternative, ritenute più consone alle esigenze comunicative e alla salute dei corpi: sono quelle che abbiamo chiamato tecnologie appropriate. Quali messaggi nel gruppo e quali individuali? Quali su WhatsApp e quali via email? Forse esiste un’applicazione di messaggistica più adatta per le nostre esigenze? Più etica? Il ragionamento vale per i contesti lavorativi come per le associazioni, per gruppi formali e informali. Possiamo decidere di abbandonare Google come piattaforma-cloud per i documenti condivisi del nostro lavoro e optare per un sistema maggiormente conviviale (Milani, 2022).
L’importante è comunque sempre metterci d’accordo, cospirare insieme. I quotidiani tempo addietro riportavano la notizia che un gruppo di adolescenti newyorkesi aveva deciso di dire addio al cellulare per darsi appuntamento tutti i giorni alla stessa ora nello stesso angolo di Central Park. «Come si è sempre fatto», diranno i non-più-giovani; «bei Giurassici!», diranno gli altri. Al di là del merito della scelta, del fatto che sia durata nel tempo o no, è stata resa possibile perché una piccola comunità si è autorganizzata. L’attitudine hacker che ci piace pratica l’organizzazione autonoma, cioè riprende pratiche del ricco bagaglio autogestionario per attivare il cambiamento.
Hackerare i setting di vita
Quando ci viene chiesto consiglio a proposito degli strumenti privilegiati per contrastare nei contesti educativi e di vita la tossicità degli ambienti digitali, una delle risposte a cui teniamo molto spesso lascia un po’ interdetti: iniziate a lavorare sull’allestire spazi disintossicanti nel mondo materiale, hackerate anzitutto i vostri setting!
Se vogliamo creare delle alternative a dinamiche performative, narcisistiche, individualiste, dobbiamo gettare qui e ora, in pratica, i semi per modalità comunitarie differenti, per creare territori liberati anzitutto nella dimensione analogica, nel mondo materiale.
La competitività senza quartiere, così come l’individualismo esasperato e il narcisismo diffuso non si trovano certo solo nei social, qualcuno converge nel definire quella attuale una società della prestazione (Han, 2020). Il mondo del lavoro, la scuola, talvolta anche i contesti educativi e i luoghi dell’attivismo non sono estranei alle dinamiche tipiche del digitale più oppressivo; non basta quindi disconnettersi per affrancarsene.
Proponiamo quindi di hackerare i setting di vita; agire per modificare le modalità relazionali negli spazi della nostra quotidianità, modificare i rituali sociali, nella consapevolezza che stiamo remando controcorrente, perché non si tratta di imparare a usare bene determinati strumenti, ma di cambiare prospettiva per spezzare automatismi e modificare abitudini sociali che diamo per scontate. Lungi dal pensare che la rivoluzione sia alle porte, possiamo iniziare da piccole comunità in grado di crescere e contagiare.
Per procedere concretamente possiamo individuare gli elementi tossici degli ambienti digitali, quelli che sfruttano le nostre vulnerabilità, ci mettono in competizione, ci provocano ansia, per andare a ribaltarli negli ambienti che vogliamo vivere con le persone nelle nostre realtà sociali. Con il potere acquisito giocando a modo nostro, potremo quindi formalizzare ritualità per tutelare la messa in pratica e la tenuta di queste nuove procedure. Ad esempio, lavorando per contrappasso: se nei social vale dal regola del «tanto», tanti follower, tanti amici, tante condivisioni, sarà necessario riabilitare il valore del «poco», poche persone, cura nella costruzione di poche relazioni, poche parole e immagini significative.
Se mostrarsi sotto i riflettori è d’obbligo sui social, per hackerare gli spazi di vita dobbiamo imparare a creare setting notturni, in penombra (Fant, 2020), dove è possibile dare legittimità, se lo si desidera, a tutte le sfumature della propria identità, giocare con le proprie maschere, anche quelle più ingombranti da portare; in questi spazi safe ci possiamo sentire sicuri non perché protetti da una tecnologia superiore gestita da qualcun altro, ma perché le nostre vulnerabilità possono essere accolte, l’assillo dell’ipercoerenza può trovare sollievo, legittimando l’essere molteplici, meticci, frammentati, vulnerabili. Se le piattaforme digitali misurano in continuo le nostre prestazioni, amplificano il giudizio reciproco, dobbiamo allestire spazi liberi da tutto ciò, spazi non giudicanti, senza contest, like, cuoricini e stellette, in cui non tutto per forza deve essere alla luce del sole per essere valutato, dove non è obbligatorio dire tutto, dove il secretum è rispettato. L’oscurità e il buio sono fertili spazi dove la creatività si rigenera (Rigotti, 2020) proprio perché lì essa può attingere a energie altrimenti bruciate sull’altare della trasparenza radicale, dell’imperante illuminazione artificiale e artificiosa.
I setting di pedagogia hacker si propongono come rifugi ri-generativi, in cui trovare sollievo, in cui la dimensione relazionale non è motivo di ansia e preda di automatismi tossici. Insomma, spazi safe in senso femminista, nel senso che combattono, rifiutano e disertano tutti quegli elementi di abuso e oppressione che ostacolano i processi di liberazione, prima di tutto interiore. Riecheggiano anche le Zone Temporaneamente Autonome (taz), nel solco di Hakim Bey (2020), ovvero luoghi di sperimentazione di futuri possibili, laboratori di incubazione di pratiche non allineati e divergenti, di relazione diversa con le macchine, per immaginare mutamenti sociali a partire da mutamenti personali che si fanno collettivi.
Tutto questo non può succedere per caso, non è possibile affidarsi alla buona volontà dei singoli. Ci vogliono regole condivise. Di seguito alcune suggestioni, sicuramente più facili da sperimentare all’interno di setting strutturati in cui ci sia qualcuno che ricopre un ruolo di conduzione/facilitazione (un contesto educativo, la riunione di un collettivo, il meeting di ricerca), anche se i principi cardine possono applicarsi in qualunque situazione di gruppo, persino a una cena tra amici, a un convivio, a un simposio.
Il valore del piccolo
Rivalutiamo i piccoli gruppi. I social sono il territorio del «tanto», per cui nella dimensione dell’esibizionismo narcisistico più il pubblico è vasto, meglio è. Lavorare in piccoli gruppi diviene allora una proposta contro-culturale, sono spazi relazionali in cui ci si può prendere cura del benessere di ognuno. I piccoli gruppi in cui si privilegia la qualità e l’intensità delle relazioni piuttosto che la quantità possono diventare gruppi di affinità, in cui non è un algoritmo che definisce i match ma le vibrazioni, le risonanze che si instaurano tra le persone. I piccoli gruppi poi a loro volta possono allearsi con altri per affinità, o essere comunque parte di qualcosa di più grande, non sono condanne all’irrilevanza, ma riconoscimento delle limitate capacità cognitive e relazionali degli esseri umani. Nonostante la nostra luccicante tecnologia attuale, non siamo diversi dai nostri antenati paleolitici: centocinquanta individui è il numero di Dunbar, che indica il numero massimo di individui di cui è possibile mantenere una traccia affettiva.
Vogliamo essere «sognatori di rifugi» (Bachelard, 2024); gruppi che si trovano in spazi magari non ampi, ma senz’altro accoglienti come soffitte e solai, cascine e baite, dove creare nostri codici per comunicare, decidere quali sono i nostri strumenti, le nostre ritualità; dove se c’è un segreto viene rispettato, dove ci si capisce anche senza parlare.
Scoraggiare il dibattito
Il sistema dei commenti nei social è progettato per alimentare il dibattito, anzi il confronto senza ascolto. Se si trasforma in uno scontro infuocato tra opinioni, la cosiddetta flame war, tanto meglio per la piattaforma: più interazioni significa più introiti. Anche quando non si arriva all’insulto la tensione punta alla polarizzazione, non solo e non tanto fra due fazioni, quanto all’estremizzazione di ogni posizione; certo la faziosità genera ingaggio, ma anche l’iper-razionale, la sfida argomentativa, apparentemente estranea, fa il gioco del sistema. Queste dinamiche le ritroviamo anche nei contesti di lavoro o attivismo sociale, nelle riunioni di associazioni, cooperative, collettivi.
Nel dibattito difficilmente si accoglie l’altro. Spesso si irrigidiscono le posizioni in copioni; le dinamiche trasformative e di contaminazione faticano a trovare spazio. Si verifica senz’altro di frequente nelle dinamiche social quello che Moreno definisce interdipendenza, ovvero la tendenza nei gruppi umani a contrapporsi al diverso oppure ad assoggettarsi.
Per creare un nostro setting alternativo dovremo quindi porre attenzione nell’arginare il «botta e risposta» per assecondare invece il più possibile dinamiche di circolarità e simmetria. Meno interventi liberi e più giro di tavolo (o di cerchio), attenzione a dare voce a chi non ha portato ancora il proprio contributo, insieme all’introduzione della regola della «sospensione della risposta»: non è consentito reagire immediatamente a un messaggio, a un commento, a un intervento, se non attraverso domande che aiutino a sintonizzarsi meglio su quanto espresso dal messaggio stesso. Questo tempo-cuscinetto eviterà reazioni impulsive e i crescendo disfunzionali, per concentrare l’attenzione, con serenità, sulle verità situate di chi si esprime.
Grazie a questi accorgimenti di conduzione si facilita l’interiorizzazione di posture di ascolto, di non giudizio, e anche di una certa sobrietà verbale, completamente antitetici rispetto alle dinamiche dei social.
Liberare il gioco
Come abbiamo constatato, i social sono gamificati, cioè presentano schemi di gioco competitivo nascondendo il fatto di essere giochi. La nostra proposta non è di non giocare, di interagire in contesti seriosi ma di riconquistare il gioco, di sottrarlo all’oppressione della manipolazione per restituirgli il valore emancipante.
Molto inchiostro è stato versato per definire cosa sia un gioco e ancor di più per comprendere come accade l’esperienza del giocare. Non è questo il luogo per una disamina approfondita, ma non nuoceranno alcuni riferimenti teorici per inquadrare la questione. Lo storico e filosofo olandese Johan Huizinga, nel suo classico Homo ludens (1938), considera il gioco come sistema culturale complesso, individuando nell’attitudine ludica una caratteristica saliente e universale delle culture umane. La distinzione dello psicologo russo Lev Vygotskij fra la creazione radicale che plasma la «realtà del gioco» e la «realtà reale» non è affatto ovvia. L’accordo fra i giocatori sembra la chiave di volta. Per questa ragione Gregory Bateson sostiene che il gioco è un metalinguaggio. I giochi «non sono ciò che sembrano»; perciò in un’attività ludica ogni giocatore, consapevole del carattere fittizio dell’azione di gioco, deve poter affermare che «questo è un gioco», metacomunicando così la finzione.
Disalienare il gioco consente di mettere in discussione i ruoli standardizzati, stereotipati, aprendo possibilità creative. Pone le condizioni per esplorare il proprio punto di vista e di costruire relazioni interpersonali significative. Può diventare uno spazio transizionale (Winnicott, 2019), fra l’interiorità e il mondo esteriore, in cui i propri contenuti personali possono essere rappresentati in forma protetta eppure condivisi. Nei nostri gruppi informali, lavorativi, associativi, politici, riscoprire il gioco libero perché liberato può aprire a nuovi linguaggi, al pensiero poetico, non verbale, all’immaginazione; allena all’ascolto dei corpi, al contatto degli occhi, alla comunicazione sensibile.
capitolo undicesimo
Far respirare i contenuti preziosi
Apprendere dall’esperienza
La quantità di stimoli, parole, immagini, rumore di fondo a cui le persone sono sottoposte è incomparabilmente superiore oggi di quanto non lo sia mai stata dalla comparsa della specie homo sapiens. Questo sovraccarico riguarda tutti e ciascuno, gli adulti come i più giovani: siamo bulimici di informazioni, sferzati da flussi di dati che ci attraversano in quantità comunque molto maggiore alle nostre capacità di rielaborazione.
Questa sovraesposizione riduce la possibilità di produrre senso, e quindi di fare esperienza, perché i vissuti quotidiani si coagulano in frammenti che attraversano l’individuo senza sosta, aumentandone la dispersione (Reggio, 2010).
In una situazione del genere diventa cruciale supportare gli individui a rallentare il flusso degli stimoli e facilitare una consapevolezza più profonda rispetto agli stessi contenuti, in particolare attraverso le pratiche educative, ma anche più in generale nella comunicazione quotidiana, dall’ambito lavorativo a quello personale. Si sostiene così l’approfondimento significante di ciò che ha già un valore, ma che è a volte solo intuito; di ciò che nella frenesia quotidiana non c’è tempo di approfondire, connettere, tematizzare. In questo modo è possibile pensarsi, creare senso, prendersi cura di sé, ri-definire la direzione del proprio agire.
Selezionare
Il primo passo, nel vortice degli stimoli, è quello di selezionare, attivare una forte azione di scelta. Cosa è davvero significativo per noi? Fra tutto quello che custodiamo o che fruiamo attraverso il nostro smartphone, ad esempio, possiamo domandarci: quali sono le tre fotografie più importanti tra quelle che si trovano nel mio telefono? Qual è la canzone con il testo per me più importante tra quelle nella mia playlist? Qual è il messaggio che ho ricevuto/inviato che ha una rilevanza particolare? Si tratta di domande semplici, ma che attivano uno spazio riflessivo molto forte. Ci invitano a «fare pulizia», a ritagliare dal rumore di fondo ciò che riconosciamo risuonare in noi, pulsare in modo particolare, avere senso e ci diciamo: questo per me ha un valore.
Condividere
Possiamo quindi formare piccoli gruppi per rendere gli altri partecipi di quello che abbiamo scelto, o ciò che abbiamo voglia di condividere tra ciò che abbiamo scelto. è fondamentale che ci si senta pienamente liberi, dato che non tutti i contenuti personali debbono per forza essere presentati: la riservatezza rimane un caposaldo anche all’interno di un gruppo di affinità, di lavoro, di formazione. Uno alla volta, con circolarità e simmetria, ognuno uno spazio, ognuno lo stesso spazio, il gruppo si prende il proprio tempo per dare voce al proprio frammento digitale significativo, di cui si può raccontare quel che si vuole: il suo valore per noi, la sua storia e come si intreccia con la nostra.
Tessere una narrazione, anche solo oralmente, è già costruire senso, obbliga a rimettere in ordine, costruire un discorso, ricomporre ciò che è frammentato. La regola è che chi ascolta non può commentare, può solo fare domande per capire meglio. Lo abbiamo visto nel capitolo precedente, si tratta di una modalità relazionale volutamente contraria a quella dei social media, dove i diversi «demoni della piattaforma» condividono una spinta a commentare, giudicare, dibattere, scontrarsi. Si tratta creare legami, complicità, comunità in penombra, in opposizione all’esibizionismo e alla pornografia emotiva.
Andare più a fondo, esplorare nuovi percorsi di senso
Possiamo a questo punto facilitare l’indagine della foto, della canzone, del frammento mediatico significativo che abbiamo scelto attraverso ulteriori consegne: in corrispondenza di quale particolare avverto un picco di intensità emotiva? Quale elemento dell’immagine/canzone/video è più significativo per me ora? Quali passaggi dell’opera mi colpiscono, mi smuovono, risuonano particolarmente? A cosa ricollego ciò nella mia esperienza, nelle mie conoscenze, nel mio immaginario? Quali domande mi suscita? Domande simili spingono a porsi nuovi interrogativi, a intrecciare collegamenti, evocare visioni e intuizioni. Nei laboratori sono emersi percorsi di senso inediti che hanno stupito gli stessi partecipanti.
Remixare
Ancora, da questo materiale si possono ricombinare o modificare i file di immagini, musica, video per creare qualcosa di nuovo, nuove narrazioni, creazione di opere inedite. Anche rimanendo sullo smartphone, ci sono diverse app che consentono di editare con facilità il nostro materiale. Molte sono commerciali, ma ci sono anche alcune possibilità di software libero. Alcune suggestioni: effettuare screenshot a fotogrammi significativi di un video e aggiungere fumetti, un titolo; creare storie con le foto della nostra galleria; comporre poesie con le parole dei testi nelle nostre playlist di Spotify o di qualsiasi altro servizio musicale. Sono attività che spesso risultano anche piuttosto divertenti e non di rado sviluppano competenze tecniche utili; ma vorremmo che fossero più di questo, cioè che diventassero occasioni di riflessione e apprendimento significativo su se stessi e sul proprio contesto.
Musica e adolescenti
Abbiamo detto che una delle risposte più ricorrenti alla domanda «cosa ti piace dei dispositivi digitali?» è «la possibilità di ascoltare musica». In particolare i più giovani sottolineano il valore della musica ascoltata in cuffia, spesso criticata dagli adulti perché tende a isolare. Sebbene riscontriamo ci siano comunque molti momenti significativi in cui la musica è fruita in compagnia, in cui si ascolta ad alto volume sulle casse bluetooth qualche pezzo che «carica», i ragazzi ci raccontano che i brani più significativi si ascoltano in intimità, nello spazio protetto dei propri auricolari. Ci si può immergere così nei testi più profondi, ci si può emozionare, si fanno «viaggi», si può scegliere una selezione al riparo dal giudizio degli altri: pezzi più intimi, fuori moda ma che per il singolo mantengono un valore, magari nella lingua del paese d’origine, ricostruendo un’identità meticcia e fluida. Gli adolescenti ci rivelano che la musica è un ingrediente fondamentale per affrontare la giornata; anzi, è una «medicina» per rilassarsi e abbassare l’ansia. In una società sempre più accelerata, che esige prestazioni sempre più spinte, la musica riesce a creare un «liquido amniotico sonico» che isola dalla frenesia del mondo, un luogo in cui tutto rallenta e si può trovare pace. Avere il controllo della colonna sonora della propria giornata vuol dire provare a gestire il proprio umore, imporre il proprio colore emotivo ai diversi momenti senza essere sopraffatti dal disturbo dei mille stimoli esterni.
Dal binge listening alla comunità di ascolto
La possibilità di fruire di tutta la musica che si desidera attraverso le piattaforme di streaming conferisce un grande vantaggio agli adolescenti attuali rispetto al passato; il rovescio della medaglia di tutto ciò è che essere immersi in un flusso sonoro inarrestabile diminuisce gli spazi riflessivi, l’attenzione ai dettagli. Un conto è avere pochi lp, sceglierseli con cura perché le risorse economiche sono limitate, contemplare la copertina, leggere i testi inseriti nel packaging ben curato; duplicarsi una cassetta alla volta dagli amici, decorando con attenzione il cartoncino interno; masterizzare cd con alcune tracce predilette: questo accadeva fino alla fine degli anni zero. Un altro conto è scaricare quantità smodate di musica ogni giorno, delegare algoritmi a decidere quale musica ascoltare a seconda di come siamo stati profilati. Non significa rimpiangere i bei tempi andati, siamo contenti di poter ascoltare i dischi il giorno che escono, poter scoprire in rete chicche che si sarebbero trovate solo attraverso dispendiose ricerche (o non si sarebbero mai trovate). Si tratta solo di essere consapevoli che in una situazione del genere il rischio binge, l’abbuffata senza scelta, è sempre in agguato; possiamo invece attivare modalità per godere meglio della nostra musica preferita.
Si possono condividere i pezzi preferiti e creare insieme playlist. In un gruppo di giovanissimi (ma non solo) chiedere a ognuno di portare una canzone che ha un significato particolare, raccontarla, condividerla. Creare una playlist del gruppo, bypassando gli algoritmi che ci impongono percorsi di ascolto, diventa allora motore di socialità. Si possono creare con un gruppo educativo o una classe, ma anche con un gruppo di lavoro, playlist diverse divise per categorie: canzoni per rilassarsi, canzoni per pensare, canzoni per darsi energia. Sempre importante la circolarità e la simmetria: ognuno porta lo stesso numero di brani, a ognuno è garantito lo stesso spazio per esprimersi. A differenza delle playlist create dagli algoritmi si tratta di brani che hanno una loro «tridimensionalità» data dall’esperienza, sono incarnati, si tratta percorsi sonori in cui si metterà in connessione il vissuto dei singoli tessendo comunità.
Un approccio riflessivo ai testi
Un lavoro particolare con la musica riguarda l’approfondimento riflessivo dei testi. La consegna deve essere molto chiara: «Qual è una canzone che ha un testo particolarmente interessante, che dice qualcosa di significativo sul mio vissuto o quello della mia generazione?». Se si lavora con gli adolescenti è importante mantenere la consegna il più possibile aperta; infatti, chiedere un testo «che mi rappresenta» può essere limitativo in particolare per chi sente maggiormente la minaccia del giudizio.
A questo punto, seguendo la modalità di lavoro esperienziale già presentata, possiamo, uno alla volta o chi vuole, esplorare i testi. La consegna in questa logica sarà quindi: «Quale passaggio, verso, parola risuona di più in te?».
È stato stupefacente notare che molto spesso non è il ritornello, e nemmeno le parole che si ricordano con più facilità a un ascolto superficiale, e che nella maggior parte dei casi non sono quelle che hanno colpito noi adulti (magari negativamente): sono passaggi che talvolta si nascondono, ma aprono a tematiche importanti.
Come ci ricordano Marangi e Masengo (2021), in questo modo è possibile creare uno spazio di incontro autentico con i più giovani e il loro vissuti. Significa entrare nei loro dispositivi, nelle loro cuffiette in punta di piedi, senza la presunzione di avere risposte in tasca sempre valide.
Trovate alcuni esempi nella pagina web di approfondimento dedicata al libro
Lavorare con i video
Dalla musica alle immagini dei video, l’approccio è analogo, come abbiamo già raccontato in altre occasioni (Fant, 2022a). È sempre più raro che le canzoni vengano affiancate da video in cui c’è una ricerca visiva o un percorso di storytelling particolare, per via dell’urgenza produttiva delle piattaforme: è necessario quindi risparmiare sui costi. Capita però che emergano prodotti particolarmente evocativi dal punto di vista visuale: in questi casi, le immagini video diventano risorse preziose.
Si tratta di porre un freno all’abbuffata di stimoli visivi che ogni giorno ci attraversano nel mondo digitale rallentandoli, addirittura fermando singole immagini significative e lavorando su quelle. In questo caso la consegna potrebbe essere: quali emozioni, pensieri, evocazioni mi attraversano mentre ascolto la canzone, in corrispondenza di quali determinate immagini? Qual è il fotogramma che mi tocca maggiormente?
La postura è sempre quella dello «sguardo strabico», in cui si pone l’attenzione sia su ciò che avviene sullo schermo sia su cosa accade nel mio mondo interiore, un processo riassumibile come «guardare me stesso che guarda», sempre sulla pagina web di approfondimento dedicata al libro potete trovare alcuni esempi
Durante l’attività è possibile dare un titolo alle immagini, immaginare fumetti in corrispondenza dei personaggi; si può farlo oralmente, oppure utilizzando strumenti digitali, dalle app commerciali sui dispositivi mobili fino al software libero, su smartphone o su computer. In questo caso si opera un lavoro di «remix», si attiva una dinamica giocosa di appropriazione (Jenkins, 2019) che ha un ulteriore valore di apprendimento oltre che estetico. Si può registrare e montare un podcast che contiene le riflessioni emerse, o inventare, a partire dalle stesse immagini, nuovi racconti che esplorino ulteriormente la tematica.
Questo tipo di lavoro con le immagini può essere replicato e adattato a partire da personaggi di film, anime, serie tv, come abbiamo descritto altrove (Fant, 2022b).
Lavorare con le foto
Le foto sono un archivio stabile nel cambiamento continuo. Servono a tenere con me parti di me. Infatti alla domanda «cosa ti fa stare bene nel digitale?» i ragazzi ci hanno detto: «Il telefono ti serve per non perdere parti di te! Perché se poi si cambia c’è una traccia di quello che si è stati. Così evitiamo di dimenticarci le cose e le possiamo comunicare. Possiamo rivivere le esperienze belle del passato!».
Il valore che tanti adolescenti assegnano ai dispositivi digitali come archivio, memoria esterna, ci ha stupito. Ci raccontano che in un mondo digitale in cui i contenuti continuano ad accumularsi, dai post sui social alle foto, dalle canzoni ai messaggi, si vive in un eterno presente in cui quello di cui si è fruito ieri oggi è già obsoleto.
Ci sono però contenuti preziosi che è importante che rimangano. Sono alcune foto, messaggi, post, alcune canzoni verso i quali c’è un legame affettivo più forte. Se la maggior parte dei file contenuti nel telefono vengono eliminati rapidamente per far posto nella memoria a nuove aggiunte, quelli è importante che rimangano e ci si impegna a non cancellarli. Anche se la custodia di queste memorie rimane molto vulnerabile: basta ad esempio che il telefono si rompa accidentalmente e la perdita che ne può conseguire viene avvertita come molto grave.
Si tratta di fragili tentativi di mantenere tracce della propria storia, di definire un’identità in trasformazione al riparo dagli algoritmi e dalle pressioni esterne. Dopo i contenuti musicali dedichiamoci quindi alle foto, universo significante che archiviamo nei nostri smartphone e che, in una prospettiva di pedagogia hacker e apprendimento esperienziale, può essere un ulteriore spazio di riflessione e condivisione.
Voglio una cornice!
L’attività che segue mira a liberare le immagini dai nostri dispositivi e dai social. Farle respirare, dargli voce, renderle spazio di incontro autentico. Anni fa ci trovavamo alla naba, la Nuova accademia di belle arti di Milano. Nel corso di Teoria delle arti multimediali il nostro compito era stimolare negli studenti uno sguardo critico sulle tecnologie digitali, in particolare quelle che utilizzano o avrebbero utilizzato nella loro percorso di professionale.
Approfittando delle loro competenze, Avevamo chiesto di produrre dei disegni o semplici prodotti multimediali per restituirci le loro risonanze agli stimoli che avevamo portato. Fra i tanti lavori interessanti, uno studente, Marco, ci consegna un’immagine che, come ci spiega in fase di restituzione, raffigura la sua passione per la fotografia, e le potenzialità di questo strumento per indagare il mondo e generare sguardi alternativi.
Al termine della sua riflessione aggiunge un elemento di criticità che ci colpisce molto: Marco riporta la sua frustrazione nell’utilizzo dei social media per presentare al mondo le proprie opere. Ci racconta con dovizia di particolari che dietro a ogni foto che pubblica c’è un lungo lavoro: la ricerca del soggetto, la prospettiva, la luce… Ci spiega che magari fa cento tentativi sulla stessa posa prima di trovare la forza comunicativa che cerca. Il problema è che però, quando arriva a caricare le sue opere migliori su Instagram o Flickr, l’attenzione che il pubblico dedica a ognuno di questi lavori non è che di pochi secondi (nella migliore delle ipotesi…), dopodiché ricomincerà lo scroll frenetico, e mille immagini successive ne cancelleranno la memoria.
«Che la mia foto riceva o no un like non cambia, anche il like si consuma in un centesimo di secondo, il problema è che se non ci si ferma di fronte all’immagine, se ne perde tutto il valore!», ci dice.
Quando una fotografia parla per davvero? Sentivamo che sarebbe stato interessante approfondire ulteriormente la questione. Ci aveva colpito il modo in cui Marco parlava delle suo fotografie, c’era fierezza e affetto, sembrava che parlasse di creature animate.
Gli proponiamo di sottoporsi a un esperimento. Davide gli chiede di impersonificare, come un attore, una sua foto, per esplorare ulteriormente gli stimoli che ci aveva portato. Si tratta della tecnica psicodrammatica dell’inversione di ruolo che abbiamo già visto in precedenza, rischiata un po’ incautamente, a freddo: non conoscevamo a fondo la persona che avevamo davanti, non sapevamo se sarebbe stata al gioco, se fosse nella condizione adatta per immedesimarsi e lasciarsi andare alla spontaneità e creatività. Dai quei pochi elementi in nostro possesso si intuiva che avrebbe potuto funzionare; a ogni modo Davide era pronto a fare un passo indietro se fosse emersa qualche resistenza.
Con molto coraggio, curioso e un po’ perplesso, Marco viene alla cattedra, di fronte a un’aula molto affollata. Il conduttore gli chiede di fare tre giri su se stesso (la cosa per lui si fa ancora più imbarazzante, ma sta al gioco…) sapendo che quando si fermerà si sarà trasformato nella sua foto in modo che da poter essere intervistato.
Dopo i tre giri l’intervista ha inizio. Eccone alcuni passaggi significativi:
Conduttore: Buongiorno foto. Piacere di incontrarti. Anzitutto puoi raccontarci cosa raffiguri?
Foto: Sono la foto di una falesia, la parete di una montagna, con una luce molto particolare, guarda come sono rosa, che da un’idea di serenità e di mistero…
c: Come è stato il momento in cui sei nata, lo ricordi?
f: Si, lungo, quasi estenuante, però Marco si è preso molta cura di me; lui è un perfezionista sai… guarda come sono venuta bene, devo proprio ringraziarlo!
c: Senti Foto, io però so che c’è qualcosa che non ti lascia serena, me lo diceva Marco prima. Vuoi parlarcene un po’?
f: Certo… Io vengo mostrata al mondo attraverso i social. Questi mi permettono di arrivare a tante persone. Ho anche molti like sai? Mica come le foto di un tempo che rimanevano chiuse negli album, che le vedevano poche persone e poi le dimenticavano. Però mi rendo conto che mi guardano tutti con superficialità, un’occhiata e via, distratti da tanti altri stimoli che ci sono nel mondo digitale, e io mi sento persa in mezzo a mille contenuti buttati li tanto per dire «esisto».
c: Ma quindi cosa vorresti?
f: Ti confesso che sono molto invidiosa delle foto nelle mostre, dei quadri nei musei, dove le persone dedicano loro del tempo, le commentano, ci riflettono. Beate loro, io invece sono costretta in questo frullatore…
c.: Senti vuoi riassumere tutto quello che mi hai detto in un messaggio da mandare al mondo?
f: Sì, (Marco-Foto ci pensa un po’)… voglio una cornice!
Quest’idea della cornice ci ha colpito molto e ha ispirato l’attività omonima. Nasce nei percorsi educativi con preadolescenti o adolescenti, ma sicuramente è proponibile anche in un contesto di adulti.
Chiediamo ai partecipanti di cercare sul proprio telefono una foto, o in generale un’immagine che hanno prodotto, che sia già stata condivisa sui social (o anche no), che ritengono meriti attenzione perché per loro particolarmente significativa, che dice qualcosa di importante di loro, o del loro sguardo sul mondo.
Non devono per forza essere opere d’arte (o sedicenti tali) come nel caso raccontato prima; vale qualsiasi immagine o foto che abbia un significato per chi la conserva nel proprio telefono, e che rischia di perdersi nel mondo sovraccarico del digitale odierno.
Non è scontato individuare l’immagine giusta per il gruppo giusto. Per prepararsi a un lavoro del genere è fondamentale prima proporre un’attività di riscaldamento che possa fare entrare in relazione il più possibile «calda» chi partecipa.
Rimane però comunque fondamentale accompagnare i ragazzi nella scelta; probabilmente nel proprio telefono c’è un’immagine significativa adatta a qualunque gruppo o qualunque momento, a seconda del livello di fiducia e di intimità che si sente verso il resto dei partecipanti. È importante però sintonizzarsi con il contesto scegliendo l’immagine «giusta», che aggiunga un elemento comunicativo, che in qualche modo «sbilanci» la persona verso l’altro, tenendo d’occhio al tempo stesso i confini di esposizione adatti a quello specifico contesto. Si tratta di sviluppare una competenza imprescindibile, tanto più per abitare il cyberspazio.
Ancor più delicata è la creazione di un ambiente raccolto per guardare insieme le immagini. Noi in genere ad Anno Unico abbassiamo le luci e ci mettiamo in semicerchio, le proiettiamo una alla volta, prendendoci per ognuna tutto il tempo che merita. Spegnere le luci si ribalta perciò nell’accendere i riflettori su un comune punto di attenzione.
La foto viene liberata dalla gabbia del dispositivo, scompare il rumore di fondo di altri mille contenuti, scompaiono i like, viene impedita la possibilità di swipare con il gesto automatico che siamo soliti fare per passare al contenuto successivo: la magia della comunicazione autentica può avere inizio.
C’è qualcosa in questa attività che ricorda le «serate diapositive» frequenti prima dell’avvento del digitale. Le foto erano mostrate solo a una cerchia ristretta, confidenziale; si raccontava, ci si fermava su quelle che avevano un’importanza particolare. Il problema in quei casi era la prolissità, e il fatto che il proiettante era il centro della serata mentre gli altri poco più che spettatori. Con questa proposta si recupera il lato di intensità di quell’esperienza, con il valore aggiunto della circolarità delle voci, dello scambio e incontro.
La dinamica del lavoro è semplice: ciascuno a turno presenta la propria foto. Può raccontare quando l’ha scattata, quali sono i particolari che dovremmo notare, perché la ritiene significativa. I compagni possono solo fare domande (si tratta delle basi dell’ascolto attivo); non si può commentare, non si può giudicare. Volendo si possono anche introdurre tecniche di conduzione più raffinate per approfondire l’analisi riflessiva (inversioni di ruolo, fumetti, riproduzione live della foto), ma nella maggior parte dei casi è preferibile lasciare il tutto leggero, senza carichi tecnici, confidenziale. Si può al limite aggiungere la richiesta di un titolo per l’immagine al termine di ogni presentazione. Ripetiamolo: è fondamentale che gli spazi siano uguali, garantiti a tutti e ciascuno.
Estratto di una sessione
Di seguito un breve resoconto di una sessione con i ragazzi dell’Anno Unico, con poche immagini selezionate. Si tratta di un gruppo, per quanto eterogeneo, che aveva in quel momento già vissuto un importante percorso di condivisione e lavoro insieme, in cui c’era già un buon livello di fiducia reciproca e capacità di ascolto.
Molti ragazzi hanno scelto di portare foto di propri familiari. Anzitutto, la famiglia: ma mai genitori o fratelli, bensì qualcuno della cerchia allargata, rifugio e riferimento durante un periodo di crescita difficile. Pablo ha portato un montaggio di foto di alcuni suoi parenti in Perù, fatta con Photocollage, un’applicazione per smartphone: raffigura i suoi zii e i suoi cugini sorridenti. Ci racconta che a loro è molto legato, purtroppo li vede poco perché sono lontani, però sono come fratelli per lui, e non vede l’ora di rincontrarli. I compagni chiedono alcune informazioni per saperne di più, incuriositi da alcune pose o elementi nella foto.
Alex porta una foto che ritrae i suoi giovani zii: «Mi capiscono più dei miei genitori, per fortuna che ci sono loro, senza di loro non so dove sarei ora», ci dice.
L’istantanea di Laura invece ritrae lei con la sua anziana nonna: «L’ultima foto fatta insieme prima di morire. La nonna ha significato molto per me», ci confida, poi rimane in silenzio, commossa. La vita di Laura è stata molto difficile, tra comunità e ricoveri in ospedale, e a noi in quel momento ha voluto portare un pezzo importante di sé, e se lo ha fatto è perché ha ritenuto che potesse fidarsi. Come detto il valore di un lavoro come questo è che ognuno sceglie come starci, a quale livello di intimità esporsi. I compagni la guardano con sguardi pieni di vicinanza, è un silenzioso abbraccio di tutto il gruppo; Lorena, la sua amica, la abbraccia davvero.
Felipe invece ci presenta uno screenshot tratto dal suo profilo Instagram. È una sua produzione artistica, realizzata con un’app per iPad. Potremmo sintetizzare così: «La mia arte per raccontare di me». Appassionato di disegno, presenta un «autoritratto digitale», realizzato con cura, in cui il volto è diviso a metà; una metà è più serena, l’occhio è chiuso, mentre l’altra suggerisce l’idea di «essere sull’attenti», l’occhio è aperto e il volto meno rilassato. Ci racconta che in quel lavoro possiamo vedere chi è veramente, e per questo ne è molto soddisfatto. Rappresenta il suo lato sognatore, quanto sia importante per lui fantasticare, la serenità dei momenti tranquilli e creativi. Dall’altra parte c’è invece il Felipe sull’attenti in un mondo difficile, fatto di soddisfazioni, ma anche minacce e sofferenze.
Antonio, molto riservato, all’inizio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato. Quando però gli è stato detto che non era necessario portare una foto, e al limite nemmeno un’immagine originale, ha iniziato a trafficare con il suo telefono. Dopo aver navigato un po’ nel Web, invia il suo contributo. Si tratta del codice di un software in caratteri verdi, a «cristalli liquidi» come nei monitor di un tempo, su sfondo nero. La bellezza del codice è il titolo che gli dà. «Nessuno capisce quello che vuol dire…», ci dice con sguardo beffardo. Aveva trovato, con il suo stile provocatorio e protetto, un modo per contribuire al momento di condivisione; sembrava che anche la sua immagine ci stesse dicendo «per capirmi c’è bisogno di tempo, non sono così immediato».
Ci ha fatto tornare in mente quando il nostro amico Baku, uno che di codice se ne intende, durante una delle reading che organizzavamo la notte alla Cascinetta, una baita in montagna, aveva letto il Kernel di Linux in metrica, con un’espressività tale che ci era sembrato di capire quello che volevano dire quelle frasi, in cui si palesava tutta l’intensità della sua relazione con quello strano linguaggio.
Dallo scrigno all’archivio
I ragazzi ci dicono che uno dei motivi per cui tengono di più al loro smartphone è proprio il fatto che contiene, attraverso le foto, frammenti di loro, dei loro ricordi. Il problema è quando si cancellano per sbaglio, quando si cambia telefono, quando «vengono fuori» nei momenti meno opportuni.
Nei laboratori di pedagogia hacker ragioniamo insieme a loro su quali possono essere gli «scrigni digitali» per contenerle, conservarle con cura e averne il pieno controllo.
Affrontando questo argomento ci è capitato di ragionare su soluzioni tecniche per rendere questo scrigno personale un archivio, personale ma eventualmente anche condiviso e collettivo, ancora più sicuro o durevole. Meglio una memoria esterna, o uno spazio cloud costruito con software libero, su server alimentati con energia rinnovabile, sotto il nostro controllo?
Conclusioni
Come sceglieremo di nutrirci?
Rimaniamo con molte domande. Quale sguardo possiamo rivolgere al futuro? Quali diverse relazioni con le tecnologie siamo in grado di tessere? Attraverso quali passi ci arriveremo?
Non lo sappiamo, non sappiamo quali tecnologie verranno. Non per mancanza di immaginazione personale, né di immaginario condiviso, ma perché il futuro non è scritto da nessuna parte, non è ineluttabile. Non sappiamo quale sia la strada, perché la strada si fa costruendo, camminando insieme.
Abbiamo però alcune intuizioni, visioni e suggerimenti di metodo. Possono esistere macchine conviviali, create per alleviare le fatiche e per il piacere di vivere bene insieme, nella meraviglia della continua scoperta del poter fare tecnico; macchine molto diverse dalle macchine industriali, create per l’estensione del dominio, per lo sfruttamento del mondo tramite il dominio sulla materia.
Coltiviamo una visione della tecnologia ben illustrata dalla metafora-allegoria del cibo. Vi sono molte gradazioni e tipologie di intossicazioni possibili con il cibo, come anche diverse tipologie di organizzazione produttiva e distributiva. Ci sono fatti oggettivamente validi e verificabili, a prescindere dai soggetti individuali o collettivi. Cibi ricchi di zuccheri provocano l’innalzamento della glicemia, è un fatto che chiunque può verificare individualmente. A livello collettivo, la produzione e distribuzione industriale di cibo confezionato in luoghi e tempi lontani da quelli in cui quel cibo viene consumato si colloca all’estremo dell’industrialismo globalizzato. A prescindere dal prezzo di vendita, questo tipo di cibo necessita di grandi quantità di energia per essere commercializzato; implica un’organizzazione centralizzata e gerarchica, l’impiego di grandi quantità di fertilizzanti, sistemi di stoccaggio, pubblicità; tutte attività che inevitabilmente generano enormi sprechi e alimentano relazioni oppressive. La produzione locale e autogestita di cibo fresco, coltivato in maniera sostenibile, in luoghi e tempi vicini al consumo si colloca all’estremo opposto. Molte combinazioni intermedie sono possibili.
Come ci preoccupiamo del cibo che mangiamo, di chi lo coltiva, confeziona e distribuisce, così riteniamo di dover porre la stessa cura e attenzione nella scelta degli strumenti digitali a cui facciamo ricorso. I social media presentano molte analogie con il cibo perché sono sistemi che ci nutrono di immagini, di suoni, di emozioni, di automatismi comportamentali, di ricompense più o meno consapevoli a livello conscio. Tutte queste esperienze modificano il carattere e il corpo delle persone e delle società, proprio come accade con il cibo.
Come decidiamo di nutrirci nelle nostre comunità, anche a livello tecnologico? Quali approvvigionamenti tecnici vogliamo distribuire e sviluppare? In che modo?
Infine, alcuni appunti di metodo, perché i processi sono più importanti dei risultati, o meglio, per promuovere l’emancipazione e la libertà non possono essere incongruenti o non appropriati. Con una formula ripresa da un vecchio amico, possiamo dire che il fine non giustifica i mezzi ma, al contrario, i mezzi devono giustificare il fine.
Ecco allora alcune suggestioni di pedagogia hacker, non solo per educarci insieme a un nuovo rapporto con le tecnologie, ma per iniziare a immaginare altri futuri possibili.
Continuare a porre domande
Innanzitutto, alla base di ogni pedagogia emancipante sta il porsi domande, chiedersi: Perché? Come funziona? Deve essere per forza così? Un atteggiamento tipico dei bambini (e dei visionari), ma anche, come abbiamo visto, degli hacker. In questo libro abbiamo trovato poche risposte e tante domande, che però abbiamo esplorato e anche giocato. Ci siamo chiesti quali sono le nostre modalità di approcciarci alla tecnologia, cosa ci fa sentire vivi nell’utilizzo dei nostri smartphone, cosa ci fa male, cosa ne facciamo dei contenuti preziosi. Ci siamo interrogati su come funzioniamo con la macchina e su come funziona la macchina, a chi appartiene e quali esigenze e interessi esprime.
Come hacker ora sappiamo che dobbiamo esercitarci a notare i particolari, rallentare il flusso, guardare dentro e dietro lo schermo, sporcarci le mani, seguire i fili delle connessioni, capire cosa c’è e chi c’è.
Per far questo abbiamo bisogno di coltivare un’attitudine curiosa, ma anche di piccoli strumenti, riti, giochi. Abbiamo così imparato a entrare in risonanza, a fare «inversione di ruolo» con gli altri, con la macchina stessa, con le foto che postiamo; abbiamo scoperto come esercitarci nello sguardo strabico. Siamo consapevoli che risposte adeguate si possono formulare solo se manteniamo uno sguardo multidisciplinare, se ci poniamo di volta in volta (e insieme) da tecnici, filosofi, pedagogisti, artisti, se teniamo insieme il punto di vista biologico, emotivo, relazionale, economico, politico. Solo così riusciamo a costruire senso e aiutare i più giovani a costruirlo.
Coltivare il nostro essere corpo, essere vulnerabili
Alcune domande ricorrenti nel nostro percorso riguardano il nostro sentire: quali sensazioni ci dà l’interazione con una specifica tecnologia? Come sono queste sensazioni?
Anche se non conosciamo il funzionamento di una tecnologia, anche se non abbiamo chiara consapevolezza dei processi di produzione e degli stratagemmi psico-ingegneristici che generano il coinvolgimento, il nostro corpo sa già molte cose: il corpo sente quando qualcosa non va, coglie l’oppressione. Stiamo imparando a chiudere gli occhi, a sentire oltre che capire, a riscoprire una connessione corpo-mente.
Uno spazio alternativo anche per le tecnologie deve ripartire dal corpo, legittimare le sofferenze, il dolore psichico, il conflitto interiore, l’opacità, le percezioni difficili da verbalizzare, le eccitazioni fugaci, gli entusiasmi passeggeri. Deve dare dignità a qualcosa che altrimenti, se trascurato, ci porta alla conclusione che c’è qualcosa di sbagliato in noi, che non amministriamo bene la nostra impresa-vita, che non facciamo quello che andrebbe fatto. Lo strumento privilegiato per esplorare tutto questo groviglio emotivo è l’arte: la poesia, il teatro, la musica possono essere strumenti molto potenti per un lavoro di coscientizzazione nel digitale.
Porre il corpo al centro nella riflessione sulle tecnologie vuol dire contrastare le logiche delle Megamacchine, rivalutando le ambivalenze, l’imperfezione, la finitudine, il negativo. Significa arginare la spinta delle troppe macchine al servizio dell’ansia di dominio, impazienti di renderci automi automatizzati e prevedibili. Per questo è evidente che il problema con le cosiddette ia, al netto della catastrofe ambientale a cui contribuiscono ampiamente, non è che stanno diventando troppo simili all’umano, ma che stanno diffondendo modelli di interazione e comportamento su cui gli umani tendono ad appiattirsi.
Nella logica della pedagogia hacker riconoscerci imperfetti, vulnerabili, bisognosi di stipulare alleanze, affamati di condivisione non è un limite ma ci apre a nuove possibilità.
Inventare insieme
Le domande aperte sono tantissime: quanto le tecnologie che utilizzo mi portano in direzioni diverse da quelle che avevo ipotizzato? Quanto pesano nell’interconnessione con il pianeta? Quanto mi emancipano, in che misura mi liberano tempo per fare altro? Quali regole di ingaggio? Quanto mi vincolano? Sono chiuse o aperte? Si possono ispezionare i vari livelli? Il codice è disponibile? Le modalità di progettazione e di realizzazione sono esplicite, modificabili? Le materie prime da dove provengono?
L’attitudine hacker ci spinge ad assumere una posizione attiva per inventare qualcosa di nuovo fuori dagli schemi, a sperimentare, a rischiare la carta della creatività personale e collettiva. Al di fuori dalle richieste del conformismo tecnico, possiamo escogitare hack per cambiare rotta.
È possibile creare relazioni conviviali con le macchine, creare gioiose ibridazioni e meticciati impuri; bisogna però sperimentare, non ci sono ricette pronte, dobbiamo sporcarci le mani.
Possiamo trovare modalità creative per recuperare contenuti preziosi dai nostri dispositivi digitali, averne cura. Diventare hacker non è solo inventare, ma anche condividere ogni scoperta, e soprattutto inventare insieme, magari in una dimensione multigenerazionale, come abbiamo visto spesso in queste pagine.
Questo approccio alla creatività è ben diverso dalla creatività sbandierata come panacea di ogni male, non si tratta di diventare creator all’interno di cornici imposte, ma di inventare nuove cornici, tracciare i confini al di fuori da ciò che viene imposto, espandere i reciproci margini di libertà.
Creare comunità resistenti, gruppi di affinità
In ultimo, ma imprescindibile, sarà fondamentale inventare nuovi ambienti relazionali, ricordandoci che solo il fare insieme può garantire un po’ di durevolezza. Siamo chiamati a creare comunità che fanno scelte insieme, che creano nuove ritualità, anche nuovi automatismi, ma a noi più idonei e scelti consapevolmente. Gruppi di affinità che comunicano con mediazioni leggere, che entrano ed escono dagli ambienti digitali che costruiscono per sé e acquisiscono potere che diffondono come sociopotere, selezionando tecnologie appropriate, tecnologie di cui si appropriano nelle pratiche, tecnologie conviviali per disalienarsi quotidianamente. Gruppi di persone che tutelano i loro spazi di incontro, di scambio, la bellezza della penombra e del non mostrarsi, la bellezza di mostrarsi anche goffi perché tra le persone che scegliamo stiamo bene e ci fidiamo degli altri. Comunità piccole ma capaci di allearsi, federarsi su scala universale, per creare quando è il momento qualcosa di più grande, diventare massa critica perché fasci irripetibili di relazioni uniche. Solo educarci ed educare a tutto ciò potrà aprirci a futuri possibili differenti.
Condividere, contaminarsi
Questo libro ha raccontato le esperienze di questi anni di laboratori, la parte di un viaggio ancora in corso. È per noi uno strumento di condivisione in piena tradizione hacker in cui a ogni scoperta segue il dovere/piacere di condividerla: «Io ho fatto così, voi avete trovato altri strumenti? Cosa ne pensate? Migliorie? Il codice è aperto, anzi è libero, fatene quello che volete ma fateci sapere cosa avete creato voi anche grazie a questi elementi».
Questo è anche lo stesso invito che rinnoviamo a chi legge. Se alcune delle intuizioni, visioni, approcci metodologici, strumenti sono stati di ispirazione, hanno a portato a nuove riflessioni, pratiche, vi chiediamo di condividerle, anche con noi; noi faremo lo stesso per quanto riguarda i prossimi passi del cammino, contaminiamoci: in questo gioco c’è bisogno di tutti.
Ringraziamenti
Grazie a circe (https://circex.org) e a chi ha partecipato alle formazioni di pedagogia hacker che insieme abbiamo messo a punto, preziose esperienze in giro per l’Europa.
HackMeeting e chi ha riletto, suggerito, aggiustato.
Abi, Rossella, SaraG e tutta la redazione di Elèuthera che ha supportato e sopportato la laboriosa stesura di queste pagine. Gli errori rimangono a carico nostro.
Mora che mi ha fatto alzare, spegnere kaira e portato a zonzo. Grazie Vale.
Anno Unico e Alieni Crew, gli adolescenti che r-esistono, Elena e Luna
Grazie alle macchine libere senza le quali oggi non è possibile comunicare e operare.
E in ordine sparso: markdown, ssh, alekos.net/eudema.net e pedro, Nextcloud, Etherpad, Thunderbird, Vulgo-floshare e tutti gli umani che vi hanno contribuito.
Bibliografia
antonacci Francesca, Puer Ludens. Antimanuale per poeti, funamboli e guerrieri, FrancoAngeli, Milano, 2012.
bachelard Gaston, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 2024.
bartalotta Pino G., Manuale di arte terapia poetica, EduP, Roma, 2003.
benasayag Miguel, Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero, Milano, 2018.
benasayag Miguel, cany Bastien, Corpi viventi. Pensare e agire contro la catastrofe, Feltrinelli, Milano, 2022.
benasayag Miguel, del rey Angélique, Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Feltrinelli, Milano, 2016.
bey Hakim, T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome, ShaKe, Milano, 2020.
boria Giovanni, Lo psicodramma classico, FrancoAngeli, Milano, 2003.
boud David, cohen Ruth, walker David (a cura di), Using Experience for Learning, Society for Research into Higher Education & Open University Press, Buckingham, 1993.
boyd Danah, It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web, Castelvecchi, Roma, 2018.
caillois Roger, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2016.
circe (a cura di), Formare a distanza?, Ledizioni, Milano, 2020, <https://fad.circex.org>.
dallari Marco, In una notte di luna vuota. Educare pensieri metaforici, laterali, impertinenti, Erickson, Trento, 2008.
dow schüll Natasha, Architetture dell’azzardo. Progettare il gioco, costruire la dipendenza, Sossella, Roma, 2015.
euli Enrico, Fare il morto. Vecchi e nuovi giochi di renitenza, Sensibili alle foglie, Roma, 2016.
fant Davide, Pedagogia hip-hop. Gioco, esperienza, resistenza, Carocci, Roma, 2015.
fant Davide, Anno Unico. Creatività radicale per re-inventare la scuola, in Antonacci Francesca, Guerra Monica (a cura di), Una scuola possibile. Studi ed esperienze intorno al Manifesto Una scuola, FrancoAngeli, Milano, 2018.
fant Davide, Dare valore al sottrarsi degli adolescenti. Animare spazi dell’educare come rifugi trasformativi, «Animazione Sociale», n. 339, 2020.
fant Davide, Fare poesia nel lavoro con gli adolescenti. Esercizi di scrittura poetica, «Animazione Sociale», n. 343, 2021.
fant Davide, Imparare insieme da YouTube? Il lavoro riflessivo attraverso i video preferiti dai ragazzi, «Animazione Sociale», n. 351, 2022a.
fant Davide, Personaggi fantastici per urgenze reali. Partire dai personaggi più amati dagli adolescenti per interrogarsi su di sé e sul mondo, «Animazione Sociale», n. 354, 2022b.
fant Davide, R-esistere adolescenti, Strumenti per una risposta educativa alla sofferenza delle nuove generazioni, Le matite di Animazione Sociale, Torino, 2024.
foreman Richard, The gods are pounding my head, 2005, <https://www.edge.org/3rd_culture/foreman05/foreman05_index.html>.
formenti Laura, Formazione e trasformazione. Un modello complesso, Cortina, Milano, 2017.
freire Paulo, Pedagogia degli oppressi, Gruppo Abele, Torino, 2018.
han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano, 2020.
haraway Donna, Staying With the Trouble, Duke University Press, Durham, 2016 [trad. it. parziale Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2020].
huizinga Johan, Homo ludens, Einaudi, Torino, 2002 [1938].
illich Ivan, La convivialità, Red!, Cornaredo, 2014.
ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Ledizioni, Milano, 2012.
ippolita, Anime elettriche. Riti e miti social, Jaca Book, Milano, 2016.
ippolita, Tecnologie del dominio, Meltemi, Milano, 2017.
ippolita, Etica hacker e anarcocapitalismo, Milieu Edizioni, Milano, 2019.
jenkins Henry, Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il xxi secolo, Guerini, Milano, 2019.
koch Kenneth, Desideri, sogni, bugie. Un poeta insegna a scrivere poesia ai bambini, Babalibri, Milano, 2022.
laplantine François, Identità e meticciato, elèuthera, Milano, 2017.
le breton David, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Raffaello Cortina, Milano, 2016.
le guin Ursula K., I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo, sur, Roma, 2022.
levy Steven, Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica, ShaKe, Milano, 2006.
maggiolini Alfio, Pieni di rabbia. Comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti, FrancoAngeli, Milano, 2023.
marangi Michele, masengo Giuseppe, Linguaggi, in Rivoltella P. Cesare (a cura di), La scala e il tempio. Metodi e strumenti per costruire comunità con le tecnologie, FrancoAngeli, Milano, 2021.
mazza Nicholas, Poetry therapy. Teoria e pratica, Mille Gru, Monza, 2019.
mazzoneschi Maurizo, Ecologia digitale, in Enciclopedia Treccani, xi Appendice, 2025.
mcGonigal Jane, La realtà in gioco. Perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo, Apogeo, Milano, 2011.
mezirow Jack, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Cortina, Milano, 2003.
milani Carlo, Il gioco del demone, «La Ricerca», 27 maggio 2021, <https://laricerca.loescher.it/il-gioco-del-demone/>.
milani Carlo, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022.
milani Carlo, antoniadis Panayotis, Reti bio-organiche, «Mondo digitale», vol. 90, n. 15, 2021, <https://doi.org/10.5281/zenodo.5027245>.
milani Carlo, cabitza Federico, Pedagogia hacker. Una modesta proposta per evolvere con i media, in Moriggi Stefano (a cura di), Postmedialità, Raffaello Cortina, Milano, 2024.
milani Carlo, garcía Vivien, Cryptogenealogia. Primo frammento per una genealogia della crittografia (dai Cypherpunks a Wikileaks), «Mondo digitale», vol. 69, n. 2, 2017, <https://doi.org/10.5281/zenodo.5013068>.
milani Carlo, garcía Vivien, Automazione, in Guerri Maurizio (a cura di), Forme della tecnica, Einaudi, Torino, 2025.
milani Carlo, García Vivien, Gamificazione, in Guerri Maurizio (a cura di), Forme della Tecnica, Einaudi, Torino, 2025.
moreno Jacob L., Manuale di psicodramma. Il teatro come terapia, vol. 1, Astrolabio, Roma, 1985.
moreno Jacob L., Manuale di psicodramma. Tecniche di regia psicodrammatica, vol. 2, Astrolabio, Roma, 1987.
moreno Jacob L., Chi sopravviverà? Principi di sociometria, psicoterapia di gruppo e sociodramma, Di Renzo, Roma, 2007.
oddo Letizia, L’inconscio fra reale e virtuale. Dopo Jung. Visioni della comunicazione informatica, Moretti e Vitali, Bergamo, 2018.
pang Alex Soojung-Kim, Dipendenza digitale. Istruzioni per un uso equilibrato e felice della tecnologia, lswr, Milano, 2015.
reggio Piergiorgio, Il quarto sapere. Guida all’apprendimento esperienziale, Carocci, Roma, 2010.
reggio Piergiorgio, Reinventare Freire. Lavorare nel sociale con i temi generatori, FrancoAngeli, Milano, 2017.
rico Gabriele, Writing the Natural Way, Jeremy P. Tarcher, New York, 1983.
rigotti Francesca, Buio, Il Mulino, Bologna, 2020.
roy Oliver, Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2017.
sardicchio Antonia Chiara, Il sapere claudicante. Appunti per un’estetica della ricerca e della formazione, Mondadori, Milano, 2012.
simondon Gilbert, Sulla tecnica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017.
simondon Gilbert, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, Orthotes, Napoli-Salerno, 2020 [1958].
thaler Richard, sunstein Cass, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, Milano, 2024.
tisseron Serge, 3-6-9-12. Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali, Scholé, Brescia, 2024.
tomatis Mariano, Il mio libro di magia, Tlon, Roma, 2024.
trocchi Agnese, Internet, Mon Amour. Cronache prima del crollo di ieri, Ledizioni, Milano, 2019, <https://ima.circex.org>.
trocchi Agnese, Social media, Enciclopedia Treccani, xi Appendice, 2025.
trocchi Agnese, milani Carlo, Vulnerabilità tecnologica, Enciclopedia Treccani, xi Appendice, 2025.
twenge Jean M., Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, Einaudi, Torino, 2018.
wark McKenzie, Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi!, Feltrinelli, Milano, 2005.
winnicott Donald W., Gioco e realtà, Armando, Roma, 2019.
Žižek Slavoj, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma, 2004.
zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2023.
Film, video, serie tv
Black mirror, «15 Milioni di celebrità», stagione 1, episodio 2, 2012.
Black mirror, «Caduta libera», stagione 3, episodio 1, 2016.
Dopamina, quando un’app diventa droga, stagione 1 e 2, arte tv, 2019-2020, <https://www.arte.tv/it/videos/RC-017841/dopamina/>.
The Social Dilemma, docufilm di Jeff Orlowski, 2020.