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“Dentro/fuori — l’annunciazione de «l’Animale»”

Crimini in tempo di pace

Trasatti, Filippi

Cartaceo 17,10 € E-book 8,99 €
mer 01 giu 2022

 

INDICE DEL LIBRO:

Segnavia
SOGLIA Dentro/fuori: l’annunciazione de «l’Animale»
CAPITOLO PRIMO L’attimo presente, vissuto oscuramente: la discesa agli inferi della condizione animale
CAPITOLO SECONDO Il fondamento vivente delle architetture del dominio e dell’oppressione
CAPITOLO TERZO Antispecismi
CAPITOLO QUARTO Antropocentrismo e linee di confine: oltre il paradigma della specie
COMMIATO La passione di un gatto (o di una gatta?)
Riferimenti bibliografici

Sicuramente lo identifico come un gatto o una gatta, ma ancor prima di questa identificazione, il gatto mi viene incontro, come questo essere vivente insostituibile che entra un giorno nel mio spazio […]. Niente mi potrà mai togliere dalla testa la certezza che qui si tratta […] di un’esistenza mortale, perché, dal momento che possiede un nome, quel nome già gli sopravvive e firma la sua possibile scomparsa. Anche la mia – e questa scomparsa, immediatamente, fort/da, si annuncia ogni volta che […] uno di noi due lascia la stanza [Derrida, 2006, 46].

Al centro dell’Annunciazione di Lorenzo Lotto, dipinta tra il 1534 e il 1535 e conservata presso il Museo Civico di Recanati, c’è un gatto, un piccolo gatto, o forse una gatta, un soriano dal classico manto tigrato, con gli occhi che tradiscono un sentimento tra lo stupore, la paura e la tristezza, il dorso arcuato e la coda piegata verso il basso. Un gatto o una gatta che sta compiendo un balzo per lasciare la stanza in cui si trova. La posizione centrale che occupa all’interno di un dipinto che raffigura una delle scene più sacre della nostra tradizione, l’annunciazione della nascita del figlio di Dio in un corpo umano, e che sancisce, ribadendola, la separazione dell’uomo dal mondo naturale, non può che colpire e va interpretata come una componente tutt’altro che trascurabile dell’annunciazione stessa. Questo gatto, cioè, non è una sorta di simbolo artistico più o meno codificato (il demonio o il male) o la mera rappresentazione di un comune animale domestico al fine di rendere più realistica la scena.

Per capire il senso della presenza di questo enigmatico animale nel dipinto di Lotto è necessario descrivere che cosa c’è e che cosa sta accadendo intorno a lui o lei. Ci troviamo nella camera da letto di Maria. Una camera ordinata, pulita ed essenziale, con un letto a baldacchino, un leggio con un libro aperto e una mensola dentro e sopra la quale vi sono alcuni oggetti di uso quotidiano (dei libri, un candelabro, un calamaio, una cuffia da notte e un asciugamano). Sulla parete posteriore si apre un’ampia porta a volta attraverso la quale intravvediamo un loggiato e un giardino, solitario e molto tranquillo, dove spiccano un cipresso, un pino marittimo e un pergolato, a cui è facile immaginare che qualcuno attenda ogni giorno con grande cura. È una mattina luminosa, Maria si è appena svegliata e, ancora avvolta nel dolce torpore del primo risveglio, si è portata nella parte anteriore della stanza, quella più vicina a noi, si è inginocchiata sul leggio e sta pregando.

A questo punto accade il miracolo. Dall’alto, sospeso su una nube, Dio irrompe dal cielo con le sembianze di un uomo – maschio, bianco, adulto e di ceto elevato, come si evince dalla ricchezza delle sue vesti. Pur avendo un corpo, questo non sembra gettare alcuna ombra, sembra fatto di una «materia» differente da quella dei corpi comuni. Le braccia di Dio sono protese in avanti con le mani unite in un gesto che, indicando perentoriamente verso Maria, sta a metà tra l’intimazione a sottomettersi e l’allusione a una vera e propria penetrazione. Sotto di lui e a destra di Maria, in una posizione che la bidimensionalità del quadro fa apparire un po’ più elevata rispetto a quella di lei, c’è l’arcangelo Gabriele. Un altro maschio, ma più giovane e meno etereo del primo: questi, infatti, pur avendo una carnagione nivea e i capelli biondi, esibisce un corpo ben tornito che proietta un’ombra densa sul pavimento della stanza, al pari di Maria e del gatto. L’arcangelo Gabriele è appena atterrato, ha sorpreso con il suo inatteso arrivo gli abitanti della stanza – i suoi capelli sono ancora scarmigliati dal vento contro cui ha volato, le sue ali sono ancora aperte. Con il braccio destro indica le mani del Padre, in modo da non lasciar dubbi sulle intenzioni di questi; con la mano sinistra sorregge un fascio di gigli, simbolo della purezza a cui la fecondazione divina dovrebbe consegnare gli umani.

A seguito di questa irruzione, Maria si volta verso di noi – è l’unico personaggio che ci guarda, Dio e Gabriele hanno gli occhi puntati su di lei e il gatto su Gabriele – con un’espressione stupita e impaurita – come potrebbe essere altrimenti? Ha i palmi delle mani aperti e ciò, a prima vista, parrebbe indicare un segno di resa e di accettazione del comando divino, un assenso già dato a quanto dovrà necessariamente accadere. Maria, con la forza di una timidezza invincibile, sembra chiedere, ammiccante, la nostra approvazione per la sua scelta obbligata e la nostra solidarietà in questa prova che apre all’opera della salvezza che, in quanto umani a lei identici, non può che prevederci e includerci – se accettiamo anche noi di assoggettarci al e di farci soggetti del piano divino.

Con questo dipinto, Lotto ci offre un fermo-immagine cruciale che fa da suggello a una storia iniziata molto tempo prima e che è ben lungi dall’aver dispiegato appieno tutti i suoi effetti «salvifici». Una storia che, ovviamente, non comincia con il risveglio di Maria e con le sue preghiere del mattino e che, altrettanto ovviamente, non finisce con la sua presunta accettazione di una gravidanza non cercata, di una gravidanza che non è il frutto di un atto di amore. Che quanto raffigurato sia un momento – importante, certo, ma solo un momento – di una storia ben più lunga è testimoniato da alcuni dei particolari descritti in precedenza.

In primo luogo, ci troviamo in una camera da letto, uno degli spazi più privati che l’umano, ormai separatosi dalla natura, si è assegnato. Spazio privato che ha perso la caratteristica più tipica della tana animale che, come ci ricorda Michel Serres e come vedremo nel prossimo capitolo, è porosa, ricca di «fori, passaggi, porte» [2009, 58] attraverso i quali l’abitante e ciò che, nell’ambiente, lo circonda sono in continua comunicazione. La camera da letto, metonimia dei luoghi propri de «l’Umano», è invece ermeticamente chiusa all’esterno, è il luogo di un proprio che può rimanere tale solo evitando ogni contaminazione con un esterno relegato in un irrappresentabile fuori-campo. Ciò che sta fuori della stanza può intrattenere rapporti con ciò che sta dentro solo nella forma di un duplice assoggettamento: quello del dentro che si impossessa del fuori addomesticandolo a sé (il gatto e la natura sullo sfondo) e quello che instaura un nuovo ordine dove un presunto fuori, che in realtà è il vero dentro, si impossessa di un falso dentro per includerlo saldamente in sé (l’assoggettamento di Maria alla violenza di Dio e dell’arcangelo).

In secondo luogo, va considerato l’ordine che regna nella stanza, riflesso di quello della vita di Maria rinchiusa in quello che Michel Foucault chiamerebbe un dispositivo di disciplinamento. La rigida ripartizione degli spazi di questa stanza ci parla dell’altrettanto rigida scansione dei tempi della vita di chi la abita: questa routine immutabile, al pari di quanto avviene nelle altre istituzioni disciplinari, ha lo scopo di modificare le anime regolando i corpi di chi reclude, ossia di produrre corpi docili, corpi incapaci di svincolarsi da un preciso campo di rapporti di forza o pronti a consegnarsi, senza resistenza, a quello che lo sostituirà.

In terzo luogo, va sottolineata l’esclusione della natura che, come detto, si trova relegata al di fuori della stanza. La natura ha cioè perso ogni connotato di mondo-ambiente con una sua storia, le sue opportunità e le sue insidie, per diventare un mero fondale di teatro, utile palcoscenico per le imprese e le vicissitudini umane, qualcosa di addomesticato che può assumere di volta in volta i tratti dell’irrazionalità selvaggia da controllare e soggiogare, o quelli edenici di un giardino paradisiaco da ritrovare e in cui re-immergersi, o quelli rigorosi di una legge naturale a cui conformarsi senza riserve.

Quello che Lotto ha dipinto – inconsapevolmente, ma non per questo meno efficacemente – è un’architettura, che non è tanto quella della camera di Maria, dell’edificio di cui fa parte e del giardino che la circonda, quanto piuttosto un’architettura biopolitica, l’architettura dei corpi presi in un sistema complesso di relazioni di potere, di cui sono testimonianza: a) la posizione dei personaggi raffigurati, disposti lungo una rigida scala gerarchica, che va da Dio alla donna; b) le loro posture che descrivono una catena di comando che inizia con il sovrano, fondatore della legge, per arrivare fino a chi è completamente soggetto a essa, passando per il potere esecutivo di chi rappresenta il sovrano in terra; c) la differente natura dei loro corpi, che si fa sempre più spirituale o, che è lo stesso, sempre meno animale, man mano che si sale verso l’alto; d) il regime degli sguardi che hanno perso ogni forma di reciprocità.

Perché Maria sembra accettare la condizione in cui viene posta? Perché rinuncia alle sue prerogative per accettare, anima e corpo, il diktat divino? Che cosa le viene offerto come ricompensa del suo assoggettamento? E, soprattutto, quali saranno le conseguenze di questo commercio?

È qui che entra in scena il gatto e un oggetto di cui non abbiamo ancora parlato: una clessidra, dal colore scuro, coperta da un panno e posta su uno sgabello, che si trova tra la mensola e il gatto, quasi invisibile a causa dell’ombra proiettata sul pavimento dalla parete posteriore della stanza. Il valore simbolico della clessidra è evidente: essa segna l’incessante trascorrere del tempo, la finitezza di questo mondo, l’inesorabile destino della carne votata alla morte, a cui si contrappone la promessa di «salvezza» annunciata dalla luce abbagliante che penetra nella stanza insieme all’irrompere di Dio. Probabilmente, allora, il commercio che si sta realizzando è quello che prevede l’acquisto da parte di Maria dell’immortalità dell’anima grazie alla rinuncia alle componenti animali e corporee.

Maria sembra accettare di perdere il proprio corpo, di intraprendere una pratica di ascesi, che contempla quella che Jacques Derrida definisce «struttura sacrificale» [2011, 38]: sacrificio dell’improprio, di ciò che non è «propriamente» umano, progressiva depurazione dalle scorie naturali già, ma non ancora completamente, addomesticate, al fine di accedere al dentro più intimo del sacro, quello che annuncia la sacralità della (e solo della) vita umana. Maria sembra barattare la strana potenza della vita materiale, la possibilità di soffrire e di morire, la sua im-propria vulnerabilità e mortalità, che sola rende possibile l’incontro, la relazione e il rapporto con l’Altro, con un percorso di sofferenza controllata che la trasformerà in puro spirito, soggetto chiuso su se stesso e autosufficiente che, in quanto escluso dalla possibilità dell’incontro, si rende immortale. A Maria viene chiesto di compiere una duplice mossa: assoggettarsi per diventare soggetto e diventare soggetto per poter a propria volta assoggettare.

Maria sembra ammiccare verso lo spettatore che ancora sta al di fuori di questa scena-madre; sembra dirci: «Certo, sto rinunciando a qualcosa, ma per ottenere molto di più e, soprattutto, lo sto facendo anche per te». Pare insomma che Maria ci stia invitando a passare all’interno del recinto del sacro, ad annunciare anche noi la presenza di sé a se stessi, ad assoggettarci al reticolo dei poteri che lì sono in gioco per diventare soggetti del potere che, addomesticandolo, mette fuori gioco l’impotente potere della vita.

È a questo punto che il gatto esige di lasciare la stanza o, meglio, cerca disperatamente di allontanarsi da un luogo che per lui o per lei si è fatto estremamente pericoloso. Il gatto sembra comprendere perfettamente che l’annuncio dell’arcangelo, che non a caso non smette di fissare, è molteplice, che non stiamo assistendo a una annunciazione, ma a più annunciazioni tutte inestricabilmente legate tra loro: l’annunciazione della nascita dell’uomo-Dio, l’annunciazione di un Dio antropomorfizzato, l’annunciazione della nascita de «l’Animale» come irriducibile differenza da «l’Umano», a partire dal quale quest’ultimo può dare corso alle sue «magnifiche sorti e progressive». Se l’acquisto dell’immortalità e del potere sovrano si realizza attraverso una spiritualizzazione che esclude la mortalità dei corpi e l’impotenza della bestia, il gatto del dipinto non è allora né un gatto qualsiasi, né la figura di un animale così frequente nelle rappresentazioni del nostro immaginario, né un’allegoria di tutti i gatti della terra: egli o ella è un gatto reale che non intende essere catturato dentro la struttura del sacrificio per essere espulso in un fuori assoluto. In altri termini, questo gatto reale comprende che la scena in cui si trova è l’espressione di un momento chiave nella storia della domesticazione – nel pieno fiorire dell’Umanesimo e alle soglie della rivoluzione tecno-scientifica moderna – che inasprirà a dismisura l’oppressione degli animali fino a prevederne l’assoggettamento totale e l’eliminazione su scala industriale. Questo gatto reale è testimone del funzionamento di quella che Giorgio Agamben ha definito la «macchina antropologica» e del passaggio dalla sua variante premoderna a quella moderna.

La macchina antropologica è un dispositivo complesso che permette la formazione de «l’Umano» e de «l’Animale». Parafrasando Émile Benveniste, potremmo affermare che questi due concetti sono privi di referente materiale, in quanto emergono solamente nel momento in cui vengono annunciati dal lavorio della macchina antropologica. Questa produce letteralmente tali singolari collettivi, comprimendo la complessa variabilità fenomenica della vita: gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani, i feti e gli oltre-comatosi, gli umani vivi e quelli morti, gli appartenenti a etnie e culture «umane» da una parte e tutti i non umani, dalle pulci agli scimpanzé, e l’innumerevole schiera di individui e gruppi umani che agli animali sono stati o sono equiparati, dall’altra. Operazione di binarizzazione condotta con un duplice movimento:

In quanto in essa è in gioco la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, […] [la macchina antropologica] funziona necessariamente attraverso un’esclusione (che è sempre già una cattura) e un’inclusione (che è sempre già un’esclusione). Proprio perché l’umano è, infatti, ogni volta già presupposto, la macchina produce in realtà una sorta di stato di eccezione, una zona di indeterminazione in cui il fuori non è che un’esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l’inclusione di un fuori [2002, 42].

L’operazione della macchina antropologica non prevede, cioè, solo una semplice elisione del fuori quanto piuttosto una sua appropriazione sotto forma di un’esclusione. Essa ha lo scopo di mantenere distinti il dentro e il fuori dell’uomo, di definire uno spazio sacro dove, per mezzo del sacrificio appropriante del fuori de «l’Animale», si possa istituire il dentro di una legge che pretende di essere naturale, la legge dello stato di natura che, con lo stesso gesto con cui si annuncia, indica ciò che va sacrificato: la natura e i contro-natura. Se il prodotto finale della macchina antropologica non cambia, essa ha operato, però, in maniera opposta nella sua fase premoderna rispetto a quella moderna. Nella variante premoderna, in cui ha umanizzato alcuni tratti della vita animale, sono stati umani con caratteristiche ritenute animali (il barbaro, lo schiavo, i ragazzi selvaggi, ecc.) a segnare il confine tra il dentro e il fuori dell’uomo, mentre nella variante moderna, in cui ha animalizzato certi aspetti dell’umano, questo ruolo è svolto dalle «scorie» biologiche animali ancora rintracciabili all’interno dell’uomo, sia come individuo (ad esempio, l’isterica, l’omosessuale, il degenerato, in una parola, gli anormali) sia come «specie» (l’ebreo, il negro, il migrante, ecc.).

Quello che il gatto coglie, motivo per cui intende togliersi rapidamente di torno, è che questa scena conferma e ribadisce irrevocabilmente il suo stato di essere perennemente sacrificabile, sancisce il suo esser-fuori in quanto catturato nel dentro: se l’uomo è pronto a scambiare il proprio corpo con l’immortalità, per i non umani, necessariamente relegati nella categoria de «l’Animale», non c’è più scampo: dal serraglio regale e dalle favole di Esopo, dove erano catturati per celebrare con la loro somiglianza differente la grandezza dell’Uomo e del sovrano, stanno per passare con la loro somigliante differenza negli allevamenti intensivi, nei mattatoi industriali e nei laboratori di ricerca biomedica per assicurare la norma dei sacrifici di massa a favore degli uomini «normali» diventati tanti piccoli sovrani democratici.

Questo gatto, con il suo gesto di fuga, ha perfettamente compreso che esiste uno stretto legame tra le due opposizioni fondanti la nostra cultura: quella umano/animale e quella vivente/morto. Egli, con il suo balzo, sta cercando di mettere in dubbio l’idea della necessità di tracciare confini e di costruire recinti (metaforici o reali che siano). Sta cercando di sottrarsi a un destino che lo considera già-morto, sta riprendendosi la possibilità di rispondere «No» all’annunciazione della trinità Dio-Umano-Animale. Non solo, egli/ella sta anche cercando disperatamente di comunicare a Maria – che certamente, seppur di spalle, non può non accorgersi dell’inquietudine e della preoccupazione di un essere che tanto bene conosce e a cui è legata da un affetto corrisposto – che l’operazione della macchina antropologica non si è mai arrestata al confine di specie e che anche Maria e l’umanità a cui sembra rivolgersi sono carne macellabile, che la «salvezza» è sì promessa a tutti, ma solo alcuni, pochi, la possono ottenere.

Quella dipinta da Lotto è una vera e propria scena religiosa se, come ricorda Agamben,

il termine religio […] non deriva da religare (ciò che lega e unisce l’umano e il divino), ma da relegere, che indica […] l’inquieta esitazione (il «rileggere») davanti alle forme – e alle formule – per rispettare la separazione fra il sacro e il profano. Religio non è ciò che unisce uomini e dèi, ma ciò che veglia a mantenerli distinti [2005b, 85].

In questa scena si veglia affinché «l’Animale» sia mantenuto distinto da «l’Umano», il proprio dell’umano dal suo improprio, gli uomini-dèi da tutti gli altri. E il gatto, che cerca di richiamare la nostra attenzione sull’insostenibilità ontologica e politica delle linee di confine e sui disastri storici che hanno prodotto e che continueranno a produrre, ha sì a che fare con il demoniaco, ma non nel senso triviale e consunto di essere un simbolo diabolico cacciato dalla scena dall’irrompere di Dio, bensì in quello di essere un animale demoniaco, ossia secondo Gilles Deleuze e Félix Guattari, di appartenere, abitando i confini, a quel mondo di «affetti e potenze» capaci di trascinare e di trascinarci dentro il fuori del divenire [2003, 344-345].

Se il gatto o la gatta di Lotto sta davvero facendo questo, allora dovremmo riconsiderare la posizione di Maria che sembra vacillare sul limite esterno del quadro, dal quale, anche con un piccolo movimento, potrebbe cadere fuori. Forse l’atteggiamento apparentemente remissivo di Maria è solo uno stratagemma per prendere tempo, per rivolgersi a chi sta fuori del quadro con una richiesta di aiuto e solidarietà. Forse Maria non ci sta dicendo: «Che cosa potevo fare? Sono stata costretta! E, in fondo, l’ho fatto anche per voi, anche a vostro vantaggio». Forse il suo volto lievemente reclinato di lato, le sue mani con i palmi aperti e il suo sguardo interrogativo ci stanno chiedendo: «Davvero volete tutto questo? Volete davvero essere presi nella salvezza che qui si annuncia?». Domande che ne sottendono un’altra: «Non dovremmo, invece, impegnarci in un altro compito: quello di annunciare la potenza affermativa della mancanza dell’essere animali mortali, della mancanza di noi a noi stessi?». Forse, Maria sta annunciando il programma politico «della generazione che viene»: «la profanazione dell’improfanabile» per eccellenza [Agamben, 2005b, 106], ossia del luogo sacro de «l’Umano», quello del sacrificio che incessantemente reclude l’uomo al di fuori del vivente e il vivente dentro il regno del carcerario.

Forse, Maria ci sta incitando a delinquere (il cui etimo significa «rendere e lasciare vuoto») e ci sta parlando di ciò a cui ogni delinquente incarcerato anela: la libertà come liberazione, come processo che ha a che fare con un «accrescimento comune o che accomuna» [Esposito, 2008, 120]. Forse, grazie al gatto, Maria ha compreso che l’esclusione appropriante è il segno, come direbbe Herbert Marcuse, di «una società umana la cui razionalità è ancora l’irrazionale» [1999, 241]. Forse, Maria sa che è l’irrazionalità dei corpi straziabili a rendere possibile il sorgere della compassione. Forse Maria ci sta chiedendo di prendere posizione in quella che Derrida ha definito «guerra sulla pietà» [2006, 67-68], una guerra che sta raggiungendo il suo apice tra chi nega recisamente la compassione e chi la vorrebbe vedere estesa anche ai non umani. Forse Maria vorrebbe rendere la sua stanza più ospitale e porosa, vorrebbe sostituire la luce abbagliante della divinità irrazionale con la fioca luce di una ragione conscia dei propri limiti. Forse vorrebbe accendere il candelabro, posto sulla mensola, che il soffio divino ha spento, per impegnarsi in una veglia funebre che ridisegni la storia alla luce della memoria dei senza nome. Forse, vorrebbe attirare il nostro sguardo verso la piccola finestra della parete posteriore che smorza il bagliore accecante che pervade la stanza aprendo così una possibile via di fuga (per lei, per noi, per il gatto). Forse, Maria sta semplicemente desiderando. Forse…