Prefazione a 'Il vicolo cieco dell'economia'
Libro
Il vicolo cieco dell’economia
Michéa
Cartaceo 13,30 €
lun 14 feb 2022
INDICE DEL LIBRO:
Avvertenza
Prefazione
PRIMA PARTE Capitalismo e modernità
Proposizioni
Scolii
SECONDA PARTE Common decency e socialismo
Proposizioni
Scolii
TERZA PARTE Utopia liberale e capitalismo reale
Proposizioni
Scolii
La propaganda che appare ogni giorno sui teleschermi del mondo moderno si fonda invariabilmente su due idee-forza assai difficili da conciliare tra loro. Per un verso, come sempre in tempo di guerra, si succedono a ritmo ipnotico i bollettini di vittoria. I progressi prodigiosi della moderna tecnologia, come proclama il Ministero della Verità, hanno permesso di creare, per la prima volta nella storia, le basi materiali per un Avvenire Radioso e per l’imminente avvento del suo Regno. Questo Grande Balzo in avanti (dovuto indubbiamente allo spirito d’intraprendenza e d’innovazione che caratterizza la nostra incomparabile società liberale) non prelude solamente a un’era di abbondanza e di ricchezza illimitate. Come ricorda in ogni momento questa propaganda così accattivante, esso conferisce oltretutto agli uomini moderni un inedito potere sulle proprie condizioni di vita, tale che coloro che hanno avuto la sventura di vivere prima di loro avrebbero faticato anche solo a immaginare. Tanto la produzione industriale di tutti gli oggetti concepibili, quanto gli orizzonti illimitati aperti dalle «nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione», costituiscono, a tutti gli effetti, i mezzi pratici in grado di cambiare l’esistenza e renderla felice per tutti, grazie anche al fatto di accumularsi in una quantità e a una velocità sconosciute a qualsiasi società precedente. Sembra, in poche parole, che si sia finalmente raggiunto quel momento della storia (che ne è contemporaneamente la fine) in cui tutto ciò che gli esseri umani hanno sognato, una Sony qualunque l’ha realizzato o lo realizzerà di qui a poco1.
Tuttavia, quando si arriva alle faccende serie – cioè, in generale, quando il Popolo, logicamente sedotto da sermoni tanto promettenti, pone non meno logicamente la questione dei benefici concreti che potrebbe ricavare effettivamente da tutti questi stupefacenti progressi – il tono del Ministero della Verità si fa di colpo cupo e la retorica entusiasta alla Victor Hugo lascia il posto agli accenti raggelanti di un Malthus. Il fatto è che la sapienza infallibile degli economisti – diamolo al momento per accertato – è in grado di dimostrare in modo indiscutibile che l’umanità ha esaurito le sue scorte di pane bianco, che gli anni gloriosi sono ormai alle nostre spalle e che è tempo di ficcarci in testa che abbiamo finora vissuto al di sopra dei nostri mezzi. In quest’ora che prelude a tempeste ineluttabili (considerando – ci viene detto per esempio – quei tassi di natalità sempre nefasti, perché troppo elevati o troppo bassi), le più modeste rivendicazioni assumono l’aspetto di lussi ormai inaccessibili. La semplice esigenza di conservare un lavoro relativamente stabile e degno all’interno di una situazione minimamente umana, di disporre di un reddito quasi dignitoso, di una vecchiaia tutelata, di qualche cura gratuita, addirittura di qualche spazio di meritato riposo – tutto questo, ci viene detto oggi, rappresenta una sfilza di capricci inaccettabili, perché contrari alle leggi dell’economia. Come sintetizza l’ex padrone dell’AXA (uno dei più grandi gruppi assicurativi del mondo), Claude Bébéar, con la brutale franchezza di chi è nato per comandare i suoi simili, la straordinaria accumulazione di progressi materiali e tecnologici può avere soltanto, per la maggioranza, un unico effetto: «È evidente che si dovrà lavorare di più e più a lungo»2.
Insomma, se capiamo bene, la propaganda ufficiale ha il compito di farci credere questo: quanto più, grazie alla sua tecnologia prometeica e a un illimitato spirito d’inventiva, l’umanità espande le possibilità di alleviare le pene degli esseri umani e di modificare il corso delle cose, tanto più deve rassegnarsi ad ammettere di non avere più il controllo sul proprio destino storico; è dunque la portata stessa dei mezzi di cui dispone attualmente a spiegare l’esiguità dei risultati concreti che può sperare di raggiungere.
Suppongo che non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso3, e che proprio per questo imponga una critica radicale, cioè, rispettando l’etimologia del termine, una critica che ne analizzi il male alla radice e che intenda trattarlo per quello che è.
In queste condizioni, il problema nel suo complesso consiste nel capire per quale misterioso meccanismo un sistema così evidentemente privo di razionalità sia riuscito, nel corso dei decenni, a stendere la sua ombra sull’intero pianeta, senza incontrare una seria opposizione da parte di coloro ai quali destabilizza l’esistenza e mutila la potenzialità di vita, senza suscitare, cioè, una resistenza collettiva commisurata ai guasti che produce e ai suoi effetti reali. Il problema può essere formulato in altro modo. Da oltre un secolo tutti, avversari e partigiani, concordano nel classificare con il nome di sinistra il vasto movimento politico e intellettuale che si oppone ufficialmente al sistema capitalista e a tutte le sue malefatte. Come può essere, allora, che un movimento storico di tale portata (e le cui idee sono diventate dominanti nella cultura contemporanea) non sia mai riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalista dell’esistenza, sostituendola con una società autenticamente umana, libera, ugualitaria e dignitosa?
Come si può ben capire, una domanda del genere non è precisamente nuova. Nel 1936, alla conclusione della sua inchiesta tra gli operai di Wigan Pier, George Orwell l’aveva già posta in questi termini: «Il fatto è che il socialismo perde terreno proprio dove dovrebbe guadagnarlo. Con tanti argomenti a suo favore – perché ogni pancia vuota è un argomento a favore del socialismo – la sua idea è meno largamente accettata di quanto non lo fosse dieci anni fa. Oggi l’uomo medio che pensa non solo non è socialista, ma è attivamente ostile al socialismo. Ciò è soprattutto dovuto a una propaganda sbagliata: il socialismo, nella versione che proponiamo oggi, ha qualche cosa di intrinsecamente sgradevole»4.
E riassumeva così i principi di quella «propaganda sbagliata»: «Le persone che sono ormai più disposte ad accettare il socialismo sono del tipo che considera con entusiasmo il progresso meccanico in quanto tale. E ciò è talmente vero che i socialisti sono in genere incapaci di capire che esiste anche un’opinione opposta. In genere l’argomento più convincente che viene loro in mente consiste nel dirvi che l’attuale meccanizzazione del mondo non è niente in confronto a quella che ci prepara il socialismo. Là dove oggi c’è un aereo, ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che oggi è svolto manualmente sarà allora fatto da macchine. Tutto quello che oggi è di cuoio, di legno o di pietra sarà di plastica, di vetro o di acciaio. Non ci saranno più disordini, imperfezioni, deserti, animali selvaggi, erbacce, malattie, povertà, sofferenze. Il mondo socialista è soprattutto un mondo ordinato ed efficace. È però proprio questa visione del futuro, concepito come un mondo scintillante alla Wells, che ripugna agli spiriti dotati di sensibilità. Va notato che questa rappresentazione del ‘progresso’, concepita da pance piene, non appartiene alla dottrina socialista. Si è finito per credere che lo fosse, e questo spiega come un certo conservatorismo di fondo di tanta gente d’ogni categoria abbia potuto così facilmente essere utilizzato contro il socialismo»5.
Il breve saggio che segue ha l’unico scopo di sviluppare nel modo più metodico possibile queste osservazioni di Orwell. Me ne sono però discostato in due punti importanti. Per un verso, come cercherò di chiarire e come lo stesso Orwell riconosce alla fine del suo scritto, il culto del progresso e della modernità, che è il centro di gravità di tutta la propaganda di sinistra, è profondamente estraneo alle versioni originali del socialismo, come sono venute costituendosi in Inghilterra e in Francia all’inizio del XIX secolo. Per l’altro, e questa è una critica assai più grave, è diventato impossibile continuare a credere che i discorsi di questo tipo riguardino solo la «propaganda sbagliata» che un partito della sinistra (o, a maggior ragione, dell’estrema sinistra) potrebbe abbandonare o modificare a piacimento, a seconda, per esempio, delle fluttuazioni del suo elettorato. Mi sembra invece che l’elogio meccanico del «progresso» e della «modernizzazione» appartengano al nocciolo duro del programma metafisico di qualsiasi sinistra possibile, un programma al quale essa non potrebbe rinunciare, nemmeno in parte, senza negare del tutto se stessa. La ragione non è difficile da comprendere. La sinistra, fin dai suoi esordi storici, si è sempre presentata, e a ragione, come l’unica erede legittima dell’Illuminismo, cioè, per attenersi alle definizioni più classiche, come il partito del Movimento (nettamente opposto a tutti i partigiani dell’Ordine) e il luogo di incontro naturale di tutte le forze del Progresso e di tutti i fautori del Cambiamento. A questo titolo, chiaramente, essa ha saputo condurre o far proprie, nel corso degli ultimi due secoli, un numero incalcolabile di lotte per l’emancipazione, tanto legittime quanto indispensabili, contro le diverse potenze dell’Ancien Régime (in prima fila la Chiesa e il grande latifondo) e contro gli inaccettabili privilegi e pregiudizi sui quali i poteri tradizionali fondavano il proprio dominio6.
Il problema è che nella storia delle idee una realtà ne maschera quasi sempre un’altra e gli esseri umani si trovano regolarmente davanti a conseguenze che non avevano nemmeno immaginato possibili, mentre ne sostenevano con il massimo ardore i presupposti. Questa griglia interpretativa, applicata alla filosofia illuminista, cioè al punto di avvio intellettuale della modernità, mi ha gradualmente portato a elaborare l’ipotesi seguente: non esiste, secondo me, che un’unica possibilità di sviluppare integralmente l’ambigua assiomatica dell’Illuminismo, ed è quella dell’individualismo liberale. La traduzione politica più radicale e più conseguentemente logica di quest’ultimo si trova nel discorso sull’economia politica7 che ha la sua prima versione compiuta nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Questo equivale a dire che quella che ancor oggi viene chiamata la sinistra si alimenta esattamente alla stessa fonte filosofica del liberalismo moderno (dopotutto non è affatto assurdo, in linea di principio, affermare che Turgot e Adam Smith fossero, ai loro tempi, uomini di sinistra). L’esistenza di questa matrice originale, comune al pensiero della sinistra e al liberalismo illuminista, spiega secondo me le ragioni che hanno sempre indotto la prima ad avallare lo spirito del secondo sull’essenziale, quantunque le sia capitato spesso (e le capiterà ancora) di volerlo correggere (o regolare) su questo o quel dettaglio specifico. Queste ragioni non riguardano dunque in prima istanza la particolare psicologia della maggior parte dei capi di quel movimento (l’amore per il potere e il senso di tradimento che questo implica), ma sono fondamentalmente ontologiche, cioè attengono alla natura stessa della sinistra. Vista in questa prospettiva, l’idea di un «anticapitalismo» di sinistra (o di estrema sinistra) parrebbe improbabile come quella di un cattolicesimo rinnovato o «rifondato» che prescinda dalla natura divina del Cristo e dall’immortalità dell’anima. Sono pertanto le esigenze stesse di una lotta coerente all’utopia liberale e al rafforzamento della società classista che essa genera inevitabilmente (e con questo intendo semplicemente un tipo di società in cui la ricchezza e il potere indecenti degli uni hanno come condizione principale lo sfruttamento e il disprezzo degli altri8) a rendere oggi politicamente necessaria una rottura radicale con l’immaginario intellettuale della sinistra. Capisco benissimo che l’idea di una rottura del genere ponga a molti seri problemi psicologici, perché la sinistra, da due secoli, ha soprattutto funzionato come un surrogato della religione (la religione del «progresso»); e si sa bene che qualsiasi religione ha come funzione principale quella di conferire un’identità ai suoi fedeli e di assicurare loro una pace interiore. Non faccio nemmeno fatica a immaginarmi che numerosi lettori considereranno un inutile paradosso questo modo di contrapporre radicalmente il progetto filosofico del socialismo originale ai diversi programmi della sinistra e dell’estrema sinistra esistenti; penseranno cioè che sia una provocazione aberrante e pericolosa, tale da fare il gioco di tutti i nemici del genere umano. Io credo invece che questo modo di vedere sia l’unico che dia un senso logico alla spirale di fallimenti e di sconfitte storiche a ripetizione che ha caratterizzato il secolo scorso, e la cui comprensione resta evidentemente oscura per molti nella strana situazione che è oggi la nostra. In ogni modo, è più o meno questa l’unica possibilità non esplorata che ci rimane, se vogliamo davvero aiutare l’umanità a uscire, finché siamo in tempo, dall’«impasse Adam Smith», dal vicolo cieco dell’economia.
Note alla Prefazione
È possibile trovare un esempio classico di questa propaganda nelle opere complete di Jacques Attali. Qui si ha l’occasione di notare, come ha spesso fatto Milan Kundera, che il principale vantaggio della propaganda totalitaria rispetto a quella delle società liberali sta nel fatto che chi subisce la prima finisce in genere per non crederne più nemmeno una parola.↩
«Journal du Dimanche», 12 maggio 2002.↩
Capisco bene che questa inefficacia è relativa. In realtà il sistema capitalista va avanti in modo abbastanza soddisfacente per una parte non trascurabile della popolazione mondiale, che ha effettivamente già ottenuto tanto e si appresta a ottenere ancora di più da una «globalizzazione» che peraltro, secondo tutte le statistiche, continua da vent’anni ad accrescere le disparità – tra nazioni come all’interno di ogni nazione – e addirittura a creare zone di impoverimento assoluto. Del resto, proprio per questa ragione il vero problema non è quello di determinare, per dir così platonicamente, se la globalizzazione sia o meno un «bene» in sé, ma solo di sapere per chi lo sia necessariamente e per chi è impossibile che lo sia. Pertanto, ogni volta che qualcuno accetta di far parte del teatrino dello Spettacolo per venirvi a celebrare gli innumerevoli benefici che una civiltà ha il diritto di attendersi dalla scomparsa di tutte le frontiere e dal libero scambio generalizzato, è sempre meglio porre il doppio interrogativo nietzschiano: chi parla? e da che posizione? Si noterà senza dubbio come tanti discorsi intellettualmente apprezzabili, e perfettamente collaudati, sullo «spirito di apertura», il «métissage culturale», l’«accettazione dell’altro» e la «necessità di rimettere continuamente in discussione il nostro modo di vivere», assumino improvvisamente un tono molto particolare se ci si sforza di rileggerli alla luce di una dichiarazione dei redditi o di una domanda di rimborso delle proprie spese di trasferta. Peraltro, se il lettore volesse farsi un’idea della posizione reale che occupa personalmente in quel gioco del Monopoli su scala mondiale che è la modernizzazione capitalista, basterebbe ricordare (ricorrendo alle sole cifre ufficiali) che in Francia la retribuzione media è di 1.330 euro al mese, che 5 milioni di francesi vivono al di sotto della «soglia di povertà» (e di questi 1,7 milioni sono già working poors) e che le famiglie che hanno un reddito superiore ai 3.530 euro al mese si collocano, per questo semplice fatto, nella fascia del 10 per cento dei più fortunati del paese. Cifre del genere sorprenderanno certi lettori. La loro scusa principale è che non possono proprio fare affidamento sulla sociologia ufficiale per essere indotti a riflettere sulla natura e l’ampiezza di queste disuguaglianze di classe. Lo ricorda Louis Chauvel nel suo Le Destin des générations (puf, Paris, 1998, p. 10): dal 1990 solo l’1 per cento delle tesi di sociologia discusse nelle università francesi utilizzava ancora il termine «classe» (e, sottolinea Chauvel, in un terzo dei casi si parlava di classi scolastiche).↩
George Orwell, The Road to Wigan Pier, Penguin Books, Harmondsworth, 1989, p. 159 [trad. it. La strada di Wigan Pier, Mondadori, Milano, 2000].↩
Ibid., p. 176. Questi due passi compaiono nella seconda parte del libro, che contiene un saggio di straordinario acume sulla natura del socialismo. È interessante notare che Victor Gollancz, l’editore di Orwell, utilizzò tutti i mezzi di cui disponeva – con quella tranquillità di coscienza tipica di gran parte degli intellettuali di sinistra ogni volta che si tratta di «togliere la libertà ai nemici della libertà» – per censurare questa parte del libro che giudicava politicamente scorretta e tale da turbare il sonno mentale dei militanti.↩
Quelle lotte, destinate ad aprire al genere umano tutte le porte che gli erano state vietate, fino a quel momento, da pregiudizi assurdi o umanamente inaccettabili, imponevano ai tempi un notevole coraggio intellettuale e anche fisico. Una volta compiuta questa missione storica (che cosa resta delle strutture dell’Ancien Régime nell’epoca del Grande fratello e del Gay Pride?), mantenere lo stesso e identico atteggiamento da parte della sinistra assume tutt’altro significato. D’altra parte, gli intellettuali di sinistra, da Hugo a Zola, avevano aperto quelle porte al prezzo di uno sforzo reale, e a loro rischio e pericolo. Al momento, invece, all’intellettuale di sinistra moderno, ammantato della sua poco plausibile dignità boboista (bohémien-bourgeois), radical-chic, altro non rimane se non sfondare le porte aperte dai suoi predecessori e combattere la ben comprensibile noia inventandosi a ogni pié sospinto pericoli immaginari, come del resto fanno tutti i bambini del mondo. E questo naturalmente (visto che gli resta comunque un minimo senso della realtà) a tutto vantaggio della sua carriera mediatica.↩
Nella prima metà del XIX secolo (soprattutto negli scritti del giovane Marx) il termine «economista» solo molto raramente si riferisce a un ipotetico rappresentante di una nuova scienza positiva, mentre si applica più di frequente ai fautori di un sistema filosofico e politico preciso: il liberalismo (o capitalismo). Nella letteratura dell’epoca è anche normale trovare una contrapposizione tra «socialisti» ed «economisti», quali esponenti di ideologie rivali (del resto questa accezione si ritrova ancora alla fine del secolo negli scritti sorprendenti di Léon Bourgeois). In questo senso va anche inteso il sottotitolo del Capitale: Critica dell’economia politica.↩
In una società di classe, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo può benissimo essere indiretto. Un moderno campione di football, per fare un esempio di ricchezza indecente, non sfrutta nessuno direttamente, ma gran parte dei suoi introiti sproporzionati (inimmaginabili solo vent’anni fa, quando il calcio era ancora più uno sport che un’industria) proviene necessariamente, attraverso percorsi obliqui, dal lavoro di altri uomini. Questa analisi si applica, a maggior ragione, alle star dei media e dello show business, e ci fa capire, nello stesso tempo, la base reale della loro coscienza «civica».↩