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Prefazione a 'Campi, fabbriche, officine'

Campi, fabbriche, officine

Kropotkin

Cartaceo 17,10 € E-book 6,99 €
gio 27 apr 2023

 

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione di Giacomo Borella
Introduzione del curatore
CAPITOLO PRIMO Il decentramento delle industrie
Appendice del curatore
CAPITOLO SECONDO Le possibilità dell’agricoltura
Appendice del curatore
CAPITOLO TERZO Piccole industrie e villaggi industriali
Appendice del curatore
CAPITOLO QUARTO Lavoro intellettuale e lavoro manuale
Appendice del curatore
Conclusioni
Poscritto del curatore

A ben oltre un secolo dalla sua prima stesura e quarant’anni dopo il lavoro di sintesi e commento svolto da Colin Ward, Campi, fabbriche, officine rimane un testo indispensabile e profetico. Il sistema economico e sociale che trasforma gli esseri umani in «semplici inservienti di una determinata macchina» (p. 28), dal cui riconoscimento l’intero saggio di Kropotkin prendeva le mosse, se da un lato si è liquefatto, è evaporato, è stato esternalizzato, dall’altro a ben vedere si è esteso e perfezionato fino a un punto mai prima raggiunto. Le parole con cui Kropotkin descrive l’inversione tra mezzi e fini nel rapporto uomo-macchina riprendono ed elaborano in una direzione autonoma le celebri pagine di Marx sul «lavoro estraniato», e anticipano e propiziano quelle di molte variegate critiche radicali alla civiltà delle macchine e delle tecnoscienze prodotte nell’arco del ventesimo secolo, dal suo dichiarato ammiratore Lewis Mumford a Günther Anders, da Gandhi a Jacques Ellul e Ivan Illich, solo per citare, tra le molte, le ricerche che mi sono più familiari. Ma l’estensione più radicale del dominio della tecnica doveva ancora avvenire: se il lavoro estraniato produceva «idiotaggine e cretinismo»1 nei soli operai, trasformandoli in «elementi di carne e ossa di un qualche immenso macchinario» (p. 28), sarà prima con le comunicazioni di massa e la televisione, e poi con l’avvento delle tecnologie informatiche compiutosi negli ultimi decenni, che questi effetti si allargheranno ed estenderanno, abbattendo il recinto del lavoro salariato e portando il rovesciamento dei mezzi tecnici in fini in se stessi dentro alla vita quotidiana di tutti. Con la «bomba informatica», come la definisce Paul Virilio, non sono più solo gli operai durante il tempo di lavoro a essere trasformati in «semplici inservienti» della macchina: tutti gli esseri umani, in ogni momento della vita, diventano tendenzialmente sempre più subalterni a computer, internet, telefoni, navigatori e ogni tipo di dispositivi mobili. Si producono nuove dipendenze, nuove disabilitazioni, nuove povertà, nuovi analfabetismi e discriminazioni, in un quadro di sistematico ricambio coatto del sapere e della strumentazione tecnica, di obsolescenza programmata delle merci informatiche, giunto a livelli di rapidità e pervasività mai immaginati. Così, il corrispettivo dell’uomo «inchiodato per tutta la vita» a produrre «la diciottesima parte di uno spillo» (p. 28) descritto a fine diciannovesimo secolo da Kropotkin, è nel nostro tempo l’uomo «inchiodato per tutta la vita» davanti a uno schermo, parlando ora non solo di vita lavorativa ma di vita tout court.

Obiettivo delle critiche di Kropotkin non è però la macchina – che anzi in quanto uomo di scienze del diciannovesimo secolo egli difende con un certo entusiasmo – né la fabbrica in sé, ma piuttosto la divisione del lavoro e i molteplici livelli di separazione della società del suo tempo: separazione tra consumatori e produttori, nell’ambito dei secondi tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, in quest’ultimo di nuovo tra agricoltura e industria, e nell’industria (ma anche nell’agricoltura praticata industrialmente) in una serie di mansioni uniche e ripetitive. Da queste rigide separazioni, che nascono dall’«angusta concezione esistenziale che consiste nel pensare che il profitto sia il solo motivo conduttore della vita umana» (p. 29), discendono per Kropotkin le principali ingiustizie e infelicità del suo tempo. Oggi quelle divisioni sono in parte cambiate, si sono diversamente articolate, ma non si sono certo abbassati gli steccati che le delimitano, e ancora più eretico di allora appare chi si azzardi a metterle in discussione.

L’intera proposta di Campi, fabbriche, officine consiste in un ribaltamento di queste separazioni in una prospettiva di integrazione e compresenza tra le differenti attività umane. Contrariamente a quanto si può aspettare chi abbia un’idea stereotipata del pensiero anarchico, Kropotkin non sviluppa affatto la proposta nella forma di un manifesto composto da assiomi astratti, ma al contrario la sostanzia in una miriade di esempi dettagliati di tendenze alternative già in atto, incontrati e studiati personalmente nel corso dei suoi proverbiali e frequenti sopralluoghi, appresi da resoconti che riceveva da una rete di corrispondenti, o ricavati da uno studio attento dei dossier statistici. Sia questo volume che Il mutuo appoggio, l’altro capolavoro kropotkiniano, scritto nell’arco di tempo compreso tra la prima e la seconda edizione del primo, sono opere di grande portata teorica, ma sono anche in primo luogo inchieste svolte sul campo, in gran parte costruite su materiali ricavati dall’esperienza diretta, proprio quell’esperienza diretta che egli riteneva molto scarseggiare presso i «sedicenti economisti» (p. 61). Nelle opere di Kropotkin, l’insieme di questa sterminata collezione di esempi concreti va a configurare un livello di lettura parallelo di impagabile ricchezza, un inventario stupendamente minuzioso delle attività umane (in Il mutuo appoggio anche animali), dei frutti dell’inventiva e della fatica di moltitudini anonime, che entra con competenza nel merito di tecniche, ruoli, trucchi, lavorazioni e che testimonia di una passione per la vicenda umana su questo pianeta che è forse il vero fulcro della figura del geografo russo. Anche nella versione ridotta che viene qui finalmente ristampata e che Colin Ward aveva giustamente alleggerito di un notevole numero di pagine, per farne un testo più agile e più riferibile all’oggi, quest’opera può essere letta come un meraviglioso inventario quasi alla Georges Perec dei mestieri in uso in Europa tra diciannovesimo e ventesimo secolo: coltellinai, posatieri, carradori, bottai, ciabattini, canestrai, carbonai, sellai, produttori di ancore, catene d’ancora, marmellate, rocchetti, stivali, bobine, macinapepe, merletti, biciclette, chiodi, viti, coltivatori di alberi da frutta del tipo a «piramide» o a «cespuglio», di uva, fiori, ortaggi primaticci, fichi, uvaspina, ribes…

Questa passione di Kropotkin per la dimensione concreta del fare umano, e questa capacità di cercare e di trovare in esso – come avrebbe poi sostenuto Colin Ward con una metafora siloniana a lui molto cara – i «semi sotto la neve» di una prospettiva libertaria già in atto nella vita quotidiana, costituisce un vero e proprio topos di una certa tradizione anarchica che prosegue con Orwell, lo stesso Ward e Paul Goodman, che ne darà una spiegazione di stringata semplicità: «Vedo che comprendo ciò che non mi piace solo per contrasto con qualche proposta concreta che mi sembra abbia più senso»2.

L’osservazione del lavoro degli orticoltori parigini contrapposto al latifondo inglese (l’elogio della culture maraîchère è un’attualissima prefigurazione dell’agricoltura di prossimità), così come la lunga teoria di mestieri e attività minute nel quale l’umano si realizza, tanto diverse dalle celebrazioni delle masse al lavoro nella grande industria che caratterizza molte teorizzazioni coeve e successive della sinistra ortodossa, ci introducono a una delle questioni che mi sembra rendano oggi la lettura di Campi, fabbriche, officine particolarmente necessaria. È il tema della soglia dimensionale come questione politica fondamentale. L’intero libro è una documentata difesa delle attività di dimensione piccola e intermedia: officine, piccola industria, laboratori artigiani, piccole aziende agricole, produzione domestica. Esse stimolano «la capacità mentale», «l’intelligenza», «l’inventiva del lavoratore» (p. 163): l’artigiano ricava «godimento estetico dall’opera delle sue mani», il contadino può trovare «sollievo… nell’amore dei campi e in un intenso rapporto con la natura» (p. 28). Kropotkin critica le discipline economiche stabilite e la sinistra marxista per aver condannato e ritenuto obsoleto «tutto ciò che non somigliava alla grande fabbrica» (p. 140), e l’avversione dei socialdemocratici tedeschi per l’artigianato, colpevole di ostacolare la concentrazione capitalistica e con essa l’avvento del socialismo. Egli ne dimostra invece l’immenso potenziale produttivo, confrontando i raccolti per ettaro dei piccoli poderi con quelli della grande proprietà agricola. Propone e registra l’esistenza già in atto di forme di integrazione e ibridazione tra piccola industria e agricoltura – anche in funzione di differenziazione delle attività umane e di contrasto alla monotonia e all’alienazione – molto simili a quelle che Gandhi proporrà per i villaggi rurali dell’India3 (esempio oggi più difendibile di quello delle comuni maoiste cinesi: uno dei pochi svarioni nel bellissimo commento di Ward). Non semplifica, non traccia un quadro idilliaco dell’officina artigiana e della piccola azienda agricola, ne evidenzia le durezze e le difficoltà, individuando in particolare nella questione della commercializzazione e distribuzione dei prodotti un punto decisivo, indicando nell’autorganizzazione, nella cooperazione e nello spirito comunitario – spesso ostacolati dalle istituzioni – le vie per l’affrancamento dall’intermediazione che tiranneggia e strangola la piccola attività.

La rivendicazione dell’efficacia e dell’umanità della piccola dimensione, e lo spirito pragmatico e inventivo con cui Kropotkin la sostiene, è uno dei grandi tesori di questo libro. Questa rivendicazione è oggi ancora più necessaria di un secolo fa, in quanto quello che nel suo commento del 1974 Ward definisce il «culto per il gigantesco» (p. 182) è in continua e crescente adorazione, e con i suoi effetti soverchianti di paralisi dello spirito civico e i suoi corollari di moltiplicazione burocratica è una minaccia a ogni principio democratico. Ne è un chiaro esempio nel campo dell’urbanistica e dell’architettura – nel quale pure l’influenza di Kropotkin è stata importante, certo in ambiti in qualche modo eretici, da Mumford a Françoise Choay – il persistere di un’enfasi sulla dismisura che molti decenni dopo i proclami gigantisti di LeCorbusier non accenna a diminuire, anzi si reincarna nei nefasti elogi della bigness di Rem Koolhaas, lasciapassare cinicamente colto alla neomonumentalità autoritaria speculativa e all’esplosione delle megalopoli che sta disintegrando la cultura urbana.

Nel suo lavoro di attualizzazione di Kropotkin, su questo tema Colin Ward fa più volte riferimento allo stupendo pamphlet di Schumacher Piccolo è bello, a suo tempo divulgato in Italia da Carlo Doglio, con così grande successo da arrivare alla pubblicazione negli Oscar Mondadori, e oggi ingiustamente quasi dimenticato. Ma negli stessi anni Settanta è stato soprattutto Ivan Illich, introducendo il concetto di «controproduttività», a porre con grande chiarezza la questione della dimensione come tema etico e politico, sostenendo che oltre una certa soglia dimensionale ogni strumento o intervento comincia a sortire gli effetti opposti a quelli per il quale era stato concepito, e analizzando poi questa dinamica nei campi della salute, dell’energia, dei trasporti, dell’educazione, dell’abitare.

C’è oggi molto bisogno di ricostruire una seria cultura dell’attività di piccola dimensione, indipendente ed eticamente motivata: la piccola impresa è sempre più risucchiata da sottoculture e retoriche di diverso segno, che hanno tendenzialmente come esito comune la sostituzione della passione civica per il mestiere con il valore dell’accumulazione del denaro. La mentalità del business fagocita le nuove forme possibili di piccola impresa e agricoltura anche attraverso le retoriche delle start up, dell’artigianato digitale, delle famigerate stampanti 3D, che oggi riempiono le pagine dei giornali dedicate alla cosiddetta «innovazione» (termine ormai divenuto sospetto, tutto da ridiscutere), esportando nella piccola dimensione le logiche della grande concentrazione e i suoi mefitici modelli: ricerca e sviluppo, investimenti, comunicazione, grandi attrezzature tecnologiche, indebitamento bancario, ecc. È una sottocultura megalomane che svuota le basi stesse della piccola iniziativa, in quanto la vede solo come gradino iniziale per arrivare al grande business. La crisi di questi anni ha falcidiato in primo luogo l’enorme quantità di attività che si era avviata su questo cammino letale (e con un po’ di cattiveria si potrebbe dire che ciò sia stato uno dei suoi non pochi effetti positivi). Si tratta invece di ricostruire in forma contemporanea la tradizione e la cultura millenaria della piccola iniziativa a investimenti quasi zero, la piccola attività di sussistenza con attrezzatura minima indispensabile che non ha alcuna mira di espandersi e che investe il più possibile solo in termini di impegno ed energia metabolica: riattualizzare l’arte popolare di fare, come dice Goffredo Fofi, «le nozze coi fichi secchi». Questo testo classico di Kropotkin, in questa prospettiva, contiene un immenso patrimonio etico e pratico.

Tra le molte questioni cruciali per l’oggi che questo libro propone c’è quella riguardante un aspetto specifico dell’organizzazione del lavoro e dell’educazione: la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Per Kropotkin la rigida separazione tra queste due sfere, prodotta dal disprezzo per il lavoro manuale e dal discredito per la dimensione pratica, e sistematizzata dal sistema educativo, impedisce la possibilità di realizzazione di una società realmente equa e di un’economia umana, compromette la fioritura delle arti e la stessa pienezza di vita delle persone. Il fatto che questa critica radicale alla specializzazione appaia oggi quanto di più anacronistico si possa pensare è il segno della profondità a cui è giunto il baratro che separa queste due dimensioni, e di quanto la struttura di questa separazione si sia consolidata, al punto da renderne impensabile ogni messa in discussione. Eppure la condizione umana nel tempo dell’informatica sta raggiungendo livelli di rimozione della dimensione corporea, pratica, manuale che sono quelli di una vera e propria mutazione; nell’esperienza delle persone quello che Anders chiamava «fantasma di mondo»4, attraverso lo schermo, si va sostituendo al mondo reale: si compie quel processo di «perdita dei sensi, della carne e del mondo»5, di disembodiment6, che Illich aveva descritto alla fine del secolo scorso. In questo contesto, l’impensabile riconquista di un’integrazione tra lavoro manuale e intellettuale predicata da Kropotkin ci appare così né più né meno che una condizione indispensabile per la sopravvivenza dell’umano. Oggi ancor più di allora, coloro che osano tentare di ricucire questo divario, i pochi individui sfuggiti «alla tanto decantata specializzazione del lavoro… sono gli irregolari, i cosacchi che hanno rotto le righe e sfondato le barriere tanto laboriosamente erette tra le classi» (p. 197). Nell’ultimo capitolo egli rimanda tra l’altro alle posizioni di John Ruskin, in merito al rapporto tra arte e lavoro manuale. Nel quadro della mutazione attuale, le idee di Ruskin su questi temi, per esempio sulla necessità e umanità dell’imperfezione o sull’«ornamento rivoluzionario» in architettura, che erano state un po’ imbalsamate dagli storici dell’arte, vanno riconsiderate e ritrovano una carica radicale che ha molto in comune con il pensiero di Kropotkin: «Al giorno d’oggi facciamo di tutto per separare le due cose: vogliamo un uomo che pensa sempre e un altro che lavora sempre; uno lo chiamiamo gentiluomo, l’altro operaio. Invece l’operaio dovrebbe spesso pensare, e l’intellettuale spesso lavorare, e sarebbero entrambi gentiluomini, nel senso migliore. Così come stanno le cose, li rendiamo cattivi entrambi: l’uno invidia, l’altro disprezza il fratello; l’insieme della società è fatto di intellettuali malsani e di operai miserabili»7.

Ma cos’è oggi il lavoro manuale? Non è quasi sempre l’essere ridotti a «semplici inservienti di una determinata macchina»? Forse oggi, quando ci è ormai spesso negato il diritto di scegliere se impiegare una macchina o no, proseguire il discorso di Kropotkin significa mettere in discussione la macchinizzazione indiscriminata, l’automazione estensiva di tutto, anche alla luce delle profetiche implicazioni ecologiche che percorrono quest’opera e che Colin Ward rende a più riprese esplicite. Si tratta quindi di rimettere in questione quello che Illich chiamava il «monopolio radicale dell’industria» e, sfidando l’anacronismo, chiederci di nuovo se essa non debba ritornare in una posizione ausiliaria; rivalutare le posizioni di Gandhi contro l’automazione che crea disoccupazione; ripensare in chiave contemporanea le «tecnologie intermedie» di Schumacher, gli «strumenti conviviali» di Illich, addirittura riconsiderare se la condanna di Marx per i movimenti luddisti non sia stata un errore.

Note alla Prefazione


  1. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1949.

  2. Paul Goodman, Preface, in Utopian Essays and Practical Proposals, Random House, New York, 1962.

  3. Mohandas K. Gandhi, Villaggio e autonomia, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1982.

  4. Günther Anders, L’uomo è antiquato, 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

  5. Ivan Illich, La perdita del mondo e della carne, in Id., La perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2009.

  6. Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro, Verbarium-Quodlibet, Macerata, 2009.

  7. John Ruskin, La natura del gotico, Jaca Book, Milano, 1981.