×

Chi Siamo

Catalogo

Eventi

Rassegna stampa

Approfondimenti

Docenti

Foreign Rights

Autori

           

Postfazione alla nuova edizione di Cemento. Arma di costruzione di massa

Cemento. Arma di costruzione di massa

Jappe

Cartaceo 17,10 € E-book 7,99 €
mer 13 set 2023

 

INDICE DEL LIBRO:

PROLOGO
INTRODUZIONE Un ponte crolla
CAPITOLO PRIMO Breve storia del cemento
CAPITOLO SECONDO I sostenitori e i (rari) oppositori del cemento
CAPITOLO TERZO Le devastazioni di un materiale
CAPITOLO QUARTO Costruire senza cemento e senza architetti
CAPITOLO QUINTO Storia della linea retta
CAPITOLO SESTO Elogio di William Morris
CAPITOLO SETTIMO Il lato concreto dell’astratto
EPILOGO
Postfazione alla nuova edizione di Duccio Facchini

«Terreni e suoli sono risorse fragili e limitate, soggette alla pressione di una sempre crescente ricerca di spazio: l’espansione urbana e l’impermeabilizzazione del suolo consumano la natura e trasformano preziosi ecosistemi in deserti di cemento». Se Anselm Jappe è l’autore di una «fuorviante», «inesatta», «superficiale» e «faziosa» opera contro il cemento, come ha fatto sapere a chi scrive l’ufficio stampa della Federazione delle associazioni della filiera del cemento (Federbeton, organo di Confindustria), che cosa dovremmo dire allora della Commissione europea? Il citato monito comunitario sui «deserti di cemento» che consumano i suoli fa il paio con le parole del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. Nel 2023 – l’anno probabilmente più caldo della storia secondo le rilevazioni dell’Osservatorio europeo Copernicus – l’ex primo ministro del Portogallo ha indicato infatti a più riprese e in modo esplicito l’inizio del «collasso climatico» e l’ingresso nell’«era dell’ebollizione globale».

Ha senso in questo quadro drammatico barattare un ecosistema essenziale come il suolo, un «tappeto magico» che richiede migliaia di anni per riprodursi di pochi centimetri, con degli aridi «deserti di cemento»? A chi giova distruggere in modo irreparabile una risorsa sostanzialmente non rinnovabile e che il parlamento europeo ci ricorda esser «complessa, multifunzionale e vitale, di importanza cruciale sotto il profilo ambientale e socioeconomico, che svolge molte funzioni chiave e fornisce servizi vitali per l’esistenza umana e la sopravvivenza degli ecosistemi affinché le generazioni attuali e future possano soddisfare le proprie esigenze»?

Il punto è questo: nella lotta per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici stiamo deliberatamente scegliendo l’alleato sbagliato. Non è colpa del materiale – senza voler con questo sminuire il «monotono regno» del cemento trattato da Jappe –, è colpa nostra. E lo sappiamo da decenni. Non si contano più i richiami e gli appelli che l’Unione europea e le Nazioni Unite stesse – sulla base di consolidate evidenze scientifiche – fanno agli Stati per la tutela del suolo, del patrimonio ambientale, del paesaggio, del riconoscimento del valore del capitale naturale. Sappiamo che per il suo valore intrinseco, il suolo naturale deve essere tutelato e preservato per le generazioni future. Sappiamo che i nostri suoli stanno soffrendo (secondo le stime tra il 60% e il 70% dei suoli nella UE non è affatto in buona salute). Sappiamo che l’impermeabilizzazione è la principale causa del loro degrado. Sappiamo che «il nostro futuro dipende dallo strato sottile che si estende sotto i nostri piedi» (ancora la Commissione europea). Sappiamo che i suoli che godono di «buona salute» sono il più grande deposito di carbonio del pianeta, che assorbono acqua come una spugna e che riducono il rischio di allagamenti e siccità. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), ente pubblico di ricerca sottoposto alla vigilanza del ministro dell’Ambiente e non a caso poco ascoltato dalla politica e dagli amministratori locali, ci ricorda che anche l’Italia «presenta evidenti segni di degrado, che si manifesta con caratteristiche diverse in circa il 28% del territorio, specie al Sud, dove le condizioni meteoclimatiche contribuiscono fortemente all’aumento del degrado e quindi alla vulnerabilità e alla desertificazione a causa della perdita di qualità degli habitat, l’erosione del suolo, la frammentazione del territorio, la densità delle coperture artificiali, con significativi peggioramenti anche in aree del Nord, come in Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna». Dovremmo come minimo azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050, allinearlo alla crescita demografica e non aumentare il degrado del territorio entro il 2030. Esiste anche una «gerarchia del consumo di suolo» prevista dalla strategia dell’Unione europea ad hoc per il 2030. Consiste in quattro azioni, in ordine di priorità: evitare, riutilizzare, ridurre al minimo, compensare. In Italia ne siamo talmente consapevoli che non abbiamo ancora approvato lo straccio di una legge nazionale sul consumo di suolo, tra le riforme indicate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e puntualmente scomparse dai radar del dibattito parlamentare.

Alcuni freddi numeri dal Rapporto «Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici» (ed. 2022), prodotto dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA), aiuterebbero anche i più distratti a comprendere le proporzioni emergenziali del fenomeno nel nostro paese. Altro che le baby gang o i rave party. Il consumo di suolo in Italia nel 2021 è stato pari a 69,1 chilometri quadrati: 19 ettari al giorno, oltre due metri quadrati al secondo. Il valore più alto degli ultimi dieci anni. Un quarto dell’intero consumo di suolo è legato alla costruzione di edifici, a fronte di oltre 310 chilometri quadrati di immobili ad allora «non utilizzati e degradati». «Una superficie pari all’estensione di Milano e Napoli», come si legge nel Rapporto. Il suolo consumato a livello nazionale è salito così al 7,13% (era il 6,75% nel 2006), contro la media dell’Unione europea che è del 4,2%. Si continuano ad aggredire le aree vincolate a fini di tutela paesaggistica (più 1.270 ettari nel 2021), quelle entro i dieci chilometri dal mare (più 1.353), quelle a pericolosità idraulica media (più 992) o classificate come pericolose per il rischio di frane (più 371), così come quelle a rischio sismico (più 2.397). Nelle città a più alta densità di urbanizzazione nel 2021 si sono persi 27 metri quadrati per ogni ettaro di aree a verde. Tra il 2006 e il 2021 l’espansione urbana e le sue «trasformazioni collaterali» si sono mangiate 1.153 chilometri quadrati di suolo, a una media di 77 chilometri quadrati ogni anno.

Non c’è una ragione demografica dietro a questi processi di urbanizzazione, o, per riprendere Jappe in maniera volutamente forzata, a questa «cementite»: la popolazione residente è calata ma non il consumo di suolo, arrivato alla quota pro-capite di 363 metri quadrati per abitante nel 2021 (erano 349 nel 2012). È perciò una fake news quella che Buzzi Unicem, colosso italiano della produzione e vendita di cemento e aggregati che nel 2022 ha realizzato un fatturato di oltre 750 milioni di euro, riporta sul proprio sito (nella sezione «I falsi miti»). «In Italia così come nel resto del mondo, il livello di urbanizzazione è direttamente proporzionale alle esigenze della popolazione che vi risiede» dice Buzzi Unicem, che si divide il mercato con Italcementi, Colacem, Holcim, Cementi Rossi, W&P Cementi, Italsacci. «Il conseguente incremento dell’utilizzo del cemento nel mondo è direttamente collegato all’incremento della popolazione mondiale e alle sue necessità». Non sembra proprio così, da noi. A colpi di favole stiamo ipotecando però la tenuta dei nostri territori: le aree perse in Italia dal 2012 avrebbero garantito l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua di pioggia che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica. Bruciamo pure il cibo: tra il 2012 e il 2021 in Italia si stima infatti una perdita potenziale, a causa del nuovo consumo di suolo, di circa 4.149.885 quintali di prodotti agricoli che avrebbero potuto fornire le aree perse nel periodo considerato (escludendo le rinaturalizzazioni). E ipotechiamo tanti, ma tanti, soldi: il conto economico legato alla perdita dei servizi ecosistemici del suolo è stimato in almeno 8 miliardi di euro l’anno – se si considera il consumo di suolo degli ultimi quindici anni (2006-2021). Perdite «che potrebbero incidere in maniera significativa sulle possibilità di ripresa del nostro paese» ci dicono i curatori del Rapporto. È una follia: «Considerando i costi annuali medi dovuti alla perdita di servizi ecosistemici, sia per la componente legata ai flussi sia per la componente legata allo stock, si può stimare, se fosse confermata la velocità media 2012-2021 anche nei prossimi nove anni e quindi la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, un costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, compreso tra 78,4 e 96,5 miliardi di euro». E poi tocca sorbirsi ogni autunno il chiacchiericcio politico (e giornalistico, va detto) sulla manovra di bilancio «di legislatura», «responsabile», che «farà di necessità virtù».

Gli scenari futuri sono preoccupanti. Se la velocità di trasformazione dei suoli restasse come quella attuale, il Rapporto stima un «nuovo consumo di suolo in 1.836 chilometri quadrati tra il 2021 e il 2050». «Se invece si dovesse tornare alla velocità media registrata nel periodo 2006-2012, si supererebbero i 3.000 chilometri quadrati». Nel caso in cui si attuasse una «progressiva riduzione della velocità di trasformazione, ipotizzata nel 15% ogni triennio», l’incremento delle aree artificiali sarebbe comunque superiore a 800 chilometri quadrati, «prima dell’azzeramento al 2050». Sono tutti valori lontanissimi dagli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che sulla base delle attuali previsioni demografiche imporrebbero invece un saldo negativo del consumo di suolo. Su una cosa però gli spassosi «falsi miti» del produttore di cemento Buzzi Unicem vanno presi sul serio. Ed è quando ricordano che «il disegno delle città e le modalità di urbanizzazione non fanno capo a chi fornisce i materiali da costruzione, ma sono ascrivibili ai decisori politici, amministrativi e alle proposte architettoniche degli urbanisti e dei progettisti». È un problema che riguarda lo Stato, e lo abbiamo già visto ad esempio con lo scandalo di una legge nazionale Godot, ma lo è soprattutto per i Comuni e le Regioni.

Paolo Pileri, professore ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, tra i massimi esperti della risorsa suolo e tra i più coraggiosi accademici ad assumere una posizione chiara, coerente e non di comodo (suggerisco di leggere tutti i suoi libri, l’ultimo per «Altreconomia» è L’intelligenza del suolo), spiega bene il perché. Lo fa prendendo in considerazione il dato del cosiddetto consumo marginale di suolo, cioè la quota di suolo cementificato per ogni nuovo abitante. «Questo indicatore di efficienza è in buona parte peggiorato nel periodo 2016-2021 rispetto al 2012-2016, soprattutto perché è aumentato il numero di Comuni che ha consumato suolo pur perdendo abitanti (più 17%), quindi senza una pur minima credibile ragione per cementificare e costruire» – ha scritto Pileri su «Altreconomia» commentando il Rapporto SNPA pubblicato nel 2022. «Ora il gruppo dei Comuni inefficienti è 3,3 volte più grande rispetto a quello di quanti hanno consumato suolo ma dove almeno si è registrato un aumento degli abitanti. Tutto ciò mostra anche ai miopi come questa istituzione locale, in quanto unità sovrana di governo del territorio, non riesca a essere protagonista dello stop al consumo di suolo». Pileri non si limita a disegnare la sagoma del morto ma risale al movente e (da anni) fa proposte per evitare che i «deserti di cemento» stravincano. «Sono ancora troppe le rendite e gli incassi, le attese e le ignoranze. Inoltre, la frammentazione amministrativa e l’eccesso di deleghe urbanistiche, senza verifiche da parte di nessuno, ha generato una situazione sempre più fuori controllo: ai Comuni occorre ridurre le competenze ambientali; occorre verificare la capacità insediativa su aree più vaste; serve che la pianificazione urbanistica non sia più fatta per singole municipalità e che le previsioni urbanistiche inattuate si possano cancellare senza contraccolpi per sindaci e giunte. Serve capire che cosa è il suolo prima di permettersi di pensare a un suo uso. Nessuno vuole fermare l’edilizia e l’urbanistica ma solo quelle non sostenibili».

C’è in Italia una «abitudine al cemento», come la chiama intelligentemente Pileri, che aggrava gli impatti di eventi estremi disastrosi, fa versare lacrime di coccodrillo e poi però cancella la memoria a breve termine, come l’oggetto «Sparaflash» nel demenziale film Men in Black (non me ne voglia Jappe per il riferimento di bassa lega). Gli esempi li abbiamo sotto gli occhi. Prendiamo il caso dell’Emilia-Romagna, sconvolta nella primavera 2023 dal disastro delle alluvioni. «Tra il 2020 e il 2021 – ricorda Pileri – è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale. In pochi anni è arrivata ad avere una superficie impermeabile dell’8,9% contro una media nazionale del 7,1%». La provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021 (più 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale) con un consumo pro-capite altissimo (2,95 metri quadrati per abitante all’anno). «È quarta per suolo impermeabilizzato pro-capite (488,6 m2/ab). La città di Ravenna è stato il capoluogo più consumatore di suolo dell’intera Regione nello scorso anno (più 69 ettari). E che cosa si fa? Si va avanti. In Regione si consuma perfino nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica dove l’Emilia-Romagna vanta un vero e proprio record essendo la prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali: più 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità che è poi più della metà del consumo di suolo nazionale con quel grado di pericolosità idraulica».

La cosa paradossale è che a inizio agosto 2023 la Giunta regionale guidata da Stefano Bonaccini ha di fatto tolto all’Agenzia ambientale regionale la competenza a pronunciarsi sulle Valutazioni ambientali strategiche dei piani urbanistici comunali (VALSAT). Si va contromano, come nel caso delle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, quelle che da dossier di candidatura dovevano essere le «più sostenibili e memorabili di sempre». Opere – che poi sono quasi tutte strade – affidate a un commissario straordinario e in larga parte sottoposte a iter valutativi accelerati. E la nuova pista di bob di Cortina d’Ampezzo – oltre a costare 120 milioni di euro (Iva esclusa) e passa – comporta il taglio di 25.000 metri quadrati di bosco, l’abbattimento di 200 larici storici, il prelievo di 3.000 metri cubi di acqua dall’acquedotto comunale per la formazione del ghiaccio. La «cementite» avanza dunque anche a colpi di greenwashing. E dispiace portare come ultimo esempio quello di Milano, la città del progetto-brand «Forestami», che vuole mettere a dimora 3 milioni di alberi entro il 2030 «per far crescere il capitale naturale, pulire l’aria, migliorare la vita della grande Milano e contrastare gli effetti del cambiamento climatico». Sorvoliamo su alcuni partner del progetto (tra i quali spiccano Amazon ed Esselunga) e guardiamo al Parco agricolo Sud Milano, cuore dell’area agricola che cinge la città e la fa respirare (con i suoi 47.000 ettari rappresenta circa il 30% della superficie totale della Città metropolitana di Milano, di cui coinvolge 60 dei 134 Comuni, compreso il capoluogo). Nel 2023 è scoppiato il «caso» Carpiano (MI), dove il gruppo Akno si era messo in testa di realizzare un gigantesco intervento immobiliare di natura logistica da 64,5 ettari proprio in area Parco, arrivando a promettere, oltre agli oneri dovuti, 4 milioni di euro per la realizzazione di opere di interesse pubblico a favore di Carpiano, 3 milioni «a favore dei Comuni contermini», 5 milioni «a favore dell’ente Parco Sud Milano», 3 milioni per allungare il viadotto in continuità del cavalcavia autostradale nel Comune di Melegnano (MI). A proposito delle briciole che concedono i «deserti di cemento». La vicenda specifica non ha avuto sviluppi (al settembre 2023) ma come «Altreconomia» abbiamo colto l’opportunità per chiedere a tutti i Comuni appartenenti al Parco dati organici relativi ai magazzini o alle piattaforme logistiche presenti, in fase di realizzazione o proposti sul territorio comunale ricadente nel Parco. La risposta che abbiamo ricevuto nel luglio 2023 dalla Direzione «Rigenerazione urbana» di Milano fa riflettere: «Si comunica che non si dispone di alcuna mappatura o altro elaborato». Ma come si fa a non avere il polso della situazione? E le ambizioni di «Forestami»? E la capitale europea della sostenibilità? Tra marketing dalle gambe corte e un’industria che non vuole guardarsi allo specchio, viene voglia di volare via. Un «tappeto magico» ce lo avremmo, proprio sotto i nostri piedi. E non è fatto di cemento.