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Un classico di sorprendente attualità

L'economia dell’età della pietra

Sahlins

Cartaceo 23,75 € E-book 8,99 €
mer 09 dic 2020

 

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione alla nuova edizione di David Graeber
Introduzione alla nuova edizione
Introduzione alla prima edizione
CAPITOLO PRIMO L’originaria società opulenta
CAPITOLO SECONDO Il modo di produzione domestico: la struttura della sottoproduzione
CAPITOLO TERZO Il modo di produzione domestico: intensificazione della produzione
CAPITOLO QUARTO Lo spirito del dono
CAPITOLO QUINTO Sociologia dello scambio primitivo
APPENDICI Appendice A – Appunti su reciprocità e distanza parentale / Appendice B – Appunti su reciprocità e rango parentale / Appendice C – Appunti su reciprocità e ricchezza
CAPITOLO SESTO Il valore di scambio e la diplomazia del commercio primitivo
Ringraziamenti
Bibliografia
POSTFAZIONE Un classico di sorprendente attualità di Roberto Marchionatti

1972. La svolta neo-sostanzialista di Sahlins

Stone Age Economics, frutto di un lavoro iniziato a metà degli anni Sessanta tra Stati Uniti e Francia, si pone nel solco dell’interpretazione sostanzialista che si richiama all’insegnamento di Karl Polanyi, intellettuale mitteleuropeo emigrato negli Stati Uniti nel 1940, autore de The Great Transformation (La Grande Trasformazione) del 1944 e Trade and Markets: Economics in History and Theory (Traffici e Mercati negli Antichi Imperi) del 1957, il testo che elabora i principi della scuola sostanzialista e rifiuta l’approccio della scienza economica applicato alla spiegazione delle società primitive (o selvagge) e tradizionali, perché mancanti di quel contesto istituzionale che impone agli individui l’allocazione ottimale delle risorse1. Il lavoro di Polanyi e del suo gruppo aprì il dibattito tra formalisti e sostanzialisti in antropologia – tra coloro che ritenevano i principi della scienza economica universalmente validi e quindi applicabili anche alle società primitive e chi riteneva necessario elaborare, per dirla con Sahlins (che di Polanyi fu allievo alla Columbia University di New York), un’analisi nuova «più consona alle società storiche in questione», con la fondazione di una «economia antropologica» che soppiantasse l’antropologia economica troppo subordinata alla visione economicista. Nella prospettiva dell’economia antropologica, l’economia è una categoria della cultura, «distintiva creazione umana simbolica», come afferma Sahlins, che ha a che fare con il processo materiale di vita delle società «per quel che sono»: è questo l’oggetto di Stone Age Economics, il libro pubblicato nel 1972.

La prima parte del libro è dedicata alla descrizione del modello di produzione e distribuzione primitivo, a partire dalla critica del tradizionale concetto di economia di sussistenza, che descriveva le società primitive come il luogo dell’incessante ricerca del cibo, quello che Adam Smith, nel procedere alla fondazione dell’economia politica classica, aveva descritto come lo stadio «rozzo e primitivo» dell’umanità, lo stadio iniziale, quello finale essendo la società «civile» di mercato. Non questo stato di profonda arretratezza materiale emergeva però dalle ricerche etnologiche recenti (tra le allora più recenti quelle fondamentali di Richard Lee sui Boscimani del Kalahari), che peraltro, ricorda Sahlins, confermavano molte testimonianze del passato: uno stato di relativa abbondanza caratterizzato da una limitata attività lavorativa, ritmi di lavoro lenti e apporto dietetico largamente adeguato in base agli standard occidentali. Dunque, scrive provocatoriamente Sahlins, possiamo definire la società selvaggia una società dell’abbondanza (affluent society), un’idea per la prima volta presentata da Sahlins nel 1966 alla conferenza Man the Hunter organizzata a Chicago da Richard Lee e Irven DeVore, i cui atti vennero poi pubblicati nel 1968 a cura dei due organizzatori2.

Per cogliere la «struttura profonda» delle economie primitive, Sahlins introduce il concetto di «modo di produzione domestico», istituzione produttiva dominante di tali società. Sua caratteristica è che la produzione è inferiore alle possibilità esistenti, dovuta al sottoutilizzo delle risorse e della forza-lavoro, come mostrato dai molti studi citati nel libro, pur essendo la tecnologia disponibile sufficientemente produttiva da non poter essere ritenuta causa di assenza di surplus, come invece ipotizzato senza eccezioni nella visione economicista da Smith in poi. Il modo di produzione domestico, sostiene Sahlins, contiene un principio anti-eccedentario: «finalizzato alla produzione di mezzi di sussistenza, è contraddistinto dalla tendenza ad arrestarsi a quel punto». I suoi obiettivi economici sono limitati, «definiti nei termini di un sistema di vita». In tale sistema vale la «regola di Chayanov» secondo cui quanto più grande è la capacità lavorativa relativa dell’unità domestica tanto meno i suoi membri lavorano – idea che l’economista russo Alexander Chayanov elaborò in un suo lavoro degli anni Venti studiando la tradizionale economia contadina. A partire da tale evidenza si chiede Sahlins: perché la comunità primitiva arresta la produzione a un certo punto pur potendo, grazie alle potenzialità della tecnologia, ancora espanderla? La spiegazione di questo, che per la scienza economica appare come un paradosso3, sta nel fatto che, sostiene Sahlins, le comunità primitive hanno adottato una «via zen all’opulenza»: adottando una strategia zen, ovvero limitando i propri bisogni materiali, l’uomo primitivo può assaporare «un’incomparabile abbondanza materiale». L’organizzazione produttiva dei primitivi è cioè il risultato della scelta di riprodursi limitando l’accumulazione e i bisogni e creando un’entità socio-culturale capace di adattarsi all’ambiente e godere di una vita ad alta intensità di tempo libero. Stante la tendenza generale alla sottoproduzione, nota Sahlins, la singola unità domestica potrebbe non essere in grado di far fronte ai propri bisogni. Questo rischio è normalmente evitato dalle regole sociali prevalenti nella comunità primitiva, attraverso il ruolo della parentela e della politica. I rapporti parentali comportano solidarietà e cooperazione, mentre la politica, quando si supera la fase della semplice solidarietà parentale, rappresenta, attraverso il particolare ruolo che il capo vi svolge, uno stimolo a produrre, ma non a fini di accumulazione: il capo, scrive Sahlins, agisce come un «parente superiore» che incarna le finalità collettive. La posizione di capo esclude la possibilità di accumulare beni per sé stesso; al contrario, impone la generosità assoluta, e per essere prodigo, il capo deve possedere beni da donare ai membri della comunità, quindi, insieme ai suoi familiari, deve produrre beni da donare per ottenere e mantenere il suo prestigio. Più in generale il dono, sostiene Sahlins commentando il Saggio sul dono di Marcel Mauss, è l’analogo primitivo del contratto sociale, è il contratto sociale primitivo. Reciprocità, attraverso lo scambio di doni (all’interno della comunità e tra comunità a fini di alleanza), e strategia zen sono dunque i pilastri del funzionamento della società primitiva4. In effetti Sahlins, come prima di lui Mauss, riprende la grande tradizione umanistica che si sviluppa con Michel de Montaigne e poi Denis Diderot, che offriva dei selvaggi una descrizione, fondata sul ricchissimo materiale fornito dalle relazioni di viaggio, alternativa a quella della teoria degli stadi, interpretazione dell’evoluzione delle società umane che rappresentò la base ideologica dell’economia politica smithiana, sempre riproposta, in forme diverse, negli sviluppi successivi della scienza economica e che Sahlins critica radicalmente e mostra scientificamente inconsistente5. Non sorprende dunque che il suo libro sia stato oggetto di un lungo dibattito critico di grandi proporzioni.

Un dibattito cinquantennale

A partire dai primi anni Ottanta alcuni lavori etnologici sul campo hanno messo in discussione i dati empirici utilizzati da Sahlins, così erodendo le basi della tesi dell’abbondanza selvaggia. Si sono sollevati problemi sulla validità e affidabilità dei dati relativi ai tempi di lavoro e sulla loro rappresentatività. Sebbene si sia convenuto che le indagini empiriche necessitino di raffinamenti e precisazioni, il consenso sulle tesi di Sahlins si è mantenuto ampio tra gli antropologi. L’antropologa americana Elizabeth Cashdan ha sintetizzato questa opinione largamente condivisa dalla fine degli anni Ottanta, dopo un decennio di tentativi di attenuare il valore delle tesi sostenute da Sahlins, scrivendo che «sebbene la ricerca recente abbia mostrato che la tesi di Sahlins è un overstatement, resta vero che tra la maggior parte dei cacciatori-raccoglitori il lavoro per la sussistenza è intermittente, il tempo libero è abbondante e lo stato nutrizionale eccellente». Analogo consenso sull’idea di società primitive come società dell’abbondanza è stato espresso da insigni antropologi quali Alan Barnard, James Woodburn, Nurit Bird-David in importanti contributi tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento. In un lavoro del 1996 che considerava oltre settanta diverse società, Ross Sackett ha testato l’ipotesi dell’abbondanza primitiva e ha concluso che il tempo di lavoro medio di un adulto nelle società di caccia-raccolta è di 4 ore giornaliere e il tempo del lavoro di casa non supera le 3 ore, valori consistenti con l’ipotesi dell’abbondanza primitiva6. E questo ci dicono i più recenti lavori etnologici di Frank Marlowe sugli Hadza e di James Suzman sui Boscimani7, così confermando la tesi di Sahlins. A rafforzare la sua tesi, i lavori dell’archeologia, a partire dai rivoluzionari lavori di Lewis Binford (che di Sahlins fu compagno di studi) degli anni Sessanta, sull’origine dell’agricoltura: essi hanno mostrato da un lato che la transizione alle società agricole del Neolitico non è stata determinata da necessità di sopravvivenza, ma è stata piuttosto determinata da complesse cause sociali e culturali, e dall’altro che la rivoluzione neolitica ha portato a un drammatico aumento del tempo di lavoro e a un peggioramento dello stato di salute8. La tesi di Sahlins sulla società dell’abbondanza ha così trovato ampissima ricezione e diffusione, anche ben oltre la sfera degli studiosi, nello stimolare la riflessione critica sulla società, come mostrano John Gowdy e Jacqueline Solway in due importanti rassegne da essi curate9.

Come abbiamo sottolineato, nel suo lavoro Sahlins propone un approccio teorico al problema economico alternativo a quello della scienza economica, che egli definisce un approccio di economia antropologica. Questa linea di ricerca ha dato luogo ad alcuni interessanti contributi da parte di antropologi e scienziati sociali come Stephen Gudeman, Richard Wilk (ricordati da Marshall Sahlins stesso come continuatori delle sue idee) e Paul Durrenberger10. Allo stesso tempo si sono sviluppate linee di ricerche che, pur riconoscendo la validità dei dati di Sahlins, hanno cercato però spiegazioni alternative, essenzialmente compatibili con il modello economico formalista (li potremmo definire approcci neo-formalisti), e quindi cercando di negare l’alterità dell’approccio di Sahlins, così ancora subordinando teoricamente lo studio antropologico delle società selvagge alla scienza economica, confermandone il suo carattere imperialistico. A essi è quindi necessario dedicare qualche riflessione critica. La pubblicazione di Stone Age Economics ha infatti determinato la pubblicazione di studi che hanno riconosciuto la rilevanza del suo contributo etnologico e allo stesso tempo hanno cercato di delimitarne la rilevanza teorica e cercato di interpretare quei fatti etnologici come risultato di un comportamento coerente con quello ipotizzato dalla teoria economica, come evolutasi negli ultimi decenni oltre il tradizionale modello neo-classico definitosi all’inizio del Novecento.

In primo luogo ricordiamo l’ambizioso tentativo di fornire un modello economico generale di funzionamento di una società primitiva di Richard Posner, noto giurista ed economista americano, importante esponente della scuola di economia di Chicago, in un saggio originariamente pubblicato nel 198011. Posner sostiene che le istituzioni delle società primitive possono essere comprese come adattamenti degli individui a una situazione di incertezza ed elevati costi informativi. Tali costi sarebbero particolarmente elevati nelle società in questione a causa della supposta loro arretratezza scientifica e tecnologica. Tale arretratezza renderebbe necessaria una forte etica redistributiva, spiegabile in termini di assicurazione contro i rischi di carenza di cibo: gli individui si impegnerebbero vicendevolmente a fornirsi beni di consumo in caso di bisogno. L’assenza di governo che caratterizza tali società impedisce però, nota Posner, l’emergere di un mercato di assicurazione formale (come nelle nostre società) per cui potrebbe verificarsi che la reciprocità non sia rispettata. Viene allora in soccorso l’istituzione della famiglia intesa come società di mutuo soccorso e i legami di parentela. Il principio della reciprocità, che obbliga gli individui a fare e restituire doni, è così interpretato come un’assicurazione contro i problemi di free-riding, ovvero di opportunismo, che si potrebbero determinare in un sistema di assicurazione informale come quello primitivo. Un effetto dell’assicurazione è la tendenza a eguagliare la distribuzione della ricchezza ex post, scrive Posner, ma, aggiunge, l’eguaglianza è anche una pre-condizione del mantenimento dell’equilibrio politico. Un uomo ricco potrebbe, grazie al surplus accumulato, acquisire potere politico, ma l’assenza di esso significa che vi sono istituzioni che impediscono di usare il surplus a fini politici: le istituzioni della società ottengono questo obiettivo costringendo a dissipare il surplus, come nel caso del potlatch nord-americano. E molte altre caratteristiche della società primitiva sono interpretate come adattamenti all’incertezza e agli alti costi informativi. Il quadro che Posner offre è quello di una società dove l’uomo primitivo è a tutti gli effetti un homo oeconomicus nel senso che si dimostra capace di comportamento razionale ottimizzante e le istituzioni sociali trovano la loro ragion d’essere negli alti costi di transazione e di informazione in condizioni di elevata incertezza. Questi alti costi sono il risultato di carenze conoscitive che rendono limitate le possibilità di sfruttamento delle risorse – quindi le risorse appaiono oggettivamente scarse. Le carenze conoscitive sono a loro volta considerate il risultato degli scarsi incentivi all’innovazione esistenti in tali società. Da ciò una società fondamentalmente statica, inesorabilmente costretta a essere quel che è a causa del circolo vizioso in cui si avvita, a partire dall’assenza di incentivi al cambiamento. Il benessere è limitato, la società è povera. Così Posner, mentre cerca di inglobare in un modello economico molte caratteristiche delle società primitive emerse nelle ricerche etnologiche, rivaluta il giudizio smithiano delle società selvagge come stadio rozzo e primitivo. La debolezza del modello posneriano sta in realtà nelle sue assunzioni, solo vere le quali è possibile procedere nella sua argomentazione. Posner sostiene che i popoli primitivi sono rozzi e vivono in condizioni di scarsità di risorse perché hanno una limitata conoscenza della natura e hanno tecnologie inadeguate. Ma queste assunzioni non sono confermate dalle ricerche sul campo che sottolineano invece le grandi conoscenze dei primitivi circa l’ambiente in cui vivono e l’adeguatezza delle tecniche disponibili ai loro fini.

La seconda importante linea di ricerca che ha cercato di rivalutare l’interpretazione economica rispettando al contempo le evidenze etnologiche nasce dal tentativo, che origina anch’esso alla fine degli anni Settanta del Novecento, di combinare economia e sociobiologia. Questo tentativo è stato condotto sul piano teorico-metodologico in particolare da Jack Hirshleifer, anch’egli economista neo-classico della scuola di Chicago, che nel costruire una teoria bioeconomica si basò largamente sui lavori di scienziati, essenzialmente biologi evoluzionisti, quali Robert Trivers, Richard Dawkins e Edward Wilson, quest’ultimo il fondatore della sociobiologia. Hirshleifer ha soprattutto riconosciuto la rilevante influenza intellettuale sulle scienze sociali del darwinismo sociale – che ha tentato di spiegare la stratificazione sociale come conseguenza delle selezione di tipi umani superiori e ha sottolineato che concetti della scienza economica come scarsità, competizione, specializzazione, equilibrio, sono in realtà presenti in entrambe le discipline.

È nel contesto teorico del neo-darwinismo e della bioeconomia che in anni recenti si è sviluppata l’ecologia comportamentale umana. Vari antropologi (perlopiù negli Stati Uniti) hanno applicato modelli e concetti dell’ecologia evolutiva allo studio dei diversi comportamenti umani. Essi sostengono che molto del contenuto della cultura è conseguenza di decisioni degli individui per accrescere il proprio benessere fisico. I fenomeni sociali sono esaminati come prodotti delle azioni individuali, cercando di cogliere le caratteristiche essenziali di un problema di adattamento. L’analisi della selezione delle risorse naturali si basa sulla teoria dell’optimal foraging (che possiamo tradurre come ‘procacciamento ottimale’), un insieme di modelli originariamente formulati per predire come un animale si comporta quando è alla ricerca di cibo. Tali modelli sono stati utilizzati per esaminare le decisioni sulla selezione delle risorse e l’uso della terra da parte dei cacciatori-raccoglitori. Essi assumono che i cacciatori-raccoglitori sono competenti e abili e si comportano come agenti massimizzanti sotto determinati vincoli, la loro selezione delle risorse essendo influenzata da fattori come il valore, la densità e la prevedibilità delle risorse, e dalla loro distribuzione spaziale. Nel modello i cacciatori-raccoglitori appaiono come agenti razionali (come gli agenti della teoria economica neo-classica) che perseguono l’efficienza nel sostentamento: il comportamento efficiente è spiegato come una combinazione di comportamento razionale economico e selezione neo-darwiniana (potremmo definire questo approccio come neo-formalista). Particolarmente interessante per noi è il fatto che l’ecologia comportamentale ha cercato di fornire una diversa interpretazione dell’opulenza originaria teorizzata da Sahlins. In un saggio del 1992 l’antropologo evoluzionista Bruce Winterhalder12 ha offerto una spiegazione del limitato sforzo lavorativo dei selvaggi alternativo a quello proposto da Sahlins, compatibile secondo l’autore sia con l’ipotesi di razionalità economica che con i dati etnografici: la strategia zen di Sahlins in questo contesto è interpretata come il risultato della consapevolezza da parte dei cacciatori-raccoglitori dei rendimenti decrescenti dell’ambiente in cui operano.

Riflettendo su tale contributo possiamo certamente sostenere che il modello ecologico conferma che nella gestione delle risorse naturali le società primitive operano in modo efficiente. Ma nel fare ciò tale modello assume, mutuandola dalla scienza economica, un’ipotesi di massimizzazione da parte degli individui e dei gruppi primitivi – considerando quindi il selvaggio un agente razionale massimizzante che opera in un contesto di risorse scarse – che non è necessaria (e Winterhalder stesso vi accenna riconoscendo che la scarsità non è percepita dai selvaggi e va quindi assunta come assioma)13. Questa assunzione manifesta in realtà la subordinazione ideologica dell’ecologia comportamentale alla scienza economica, al suo universo ideologico. In effetti è possibile, nel contesto esplicativo di Winterhalder, e coerentemente con i dati disponibili relativi alle società selvagge, non adottare l’ipotesi di massimizzazione, ma piuttosto ipotizzare che meccanismi di selezione ereditaria e di esperienza acquisita all’interno di un determinato contesto culturale e istituzionale determinino l’adozione di modi di comportamento efficaci e adeguati al fine sociale della riproduzione materiale: si tratta cioè di un adattamento culturale a una strategia di sussistenza volta a riprodurre la società limitando al tempo stesso l’accumulazione e la concentrazione di ricchezza e di potere, il che caratterizza la strategia politico-culturale dei selvaggi. Così facendo questi nostri lontani antenati sono stati in grado di godere di una vita, come è stato detto, ad alta intensità di tempo libero, libera dal vincolo della scarsità.

Alla luce delle nostre considerazioni, ci sembra lecito sostenere che il tentativo di mostrare che il modello di Sahlins sia non sostenibile sulla base dei dati statistici e poi il tentativo della sua appropriazione/stravolgimento da parte della scienza economica non hanno avuto successo: l’economia antropologica auspicata da Sahlins mantiene una sua autonomia concettuale e interpretativa, e con ciò la sua forza critica.

L’attualità di un classico

Cinquant’anni di dibattito e confronto sul libro di Sahlins non sembrano scalfirne la validità e rilevanza. L’economia dell’età della pietra è un classico di sorprendente attualità.

È indiscutibilmente un classico dell’antropologia, ma allo stesso tempo fuoriesce dai confini dell’antropologia essendo diventato uno dei lavori di maggior impatto interdisciplinare degli ultimi cinquant’anni: dall’originale uso della categoria di modo di produzione all’idea di abbondanza originaria, da una visione dello scambio in termini di relazioni sociali all’illuminante interpretazione del Saggio sul dono di Marcel Mauss come contratto sociale primitivo, alla concezione della razionalità come espressione della cultura e alla proposta di un’economia antropologica alternativa all’economicismo, l’insieme di idee, approcci e concetti offerti da Sahlins ha contribuito a rivoluzionare le scienze umane contemporanee.

E la sua attualità è accresciuta dopo la grande recessione e la profondissima crisi sociale che il mondo occidentale ha conosciuto a partire dalla fine del primo decennio degli anni Duemila. Infatti risulta sempre più chiaro che per rispondere alle questioni vitali del nostro tempo di sopravvivenza dell’uomo sul nostro pianeta vi è bisogno di una nuova economia. L’economia dell’età della pietra, con la sua illuminante riflessione sulla civiltà materiale di un lontano passato dell’umanità, può ancora aiutarci in questo non rimandabile compito.

Note alla Postfazione


  1. Su Karl Polanyi si veda l’ancor valido Edoardo Grendi (1978), Polanyi. Dall’antropologia economica alla microanalisi storica, Milano, Etas Libri. Sull’interpretazione degli economisti delle società primitive da Smith ai contemporanei si veda: Roberto Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, Milano, Bruno Mondadori, 2008; Roberto Marchionatti, The Economists and the Primitive Societies. A Critique of Economic Imperialism, «Journal of Socio-Economics», 41(5) 2012, pp. 529-540; Roberto Marchionatti, Mario Cedrini, Economics as Social Science. Economics Imperialism and the Challenge of Interdisciplinarity, London, Routledge, 2017.

  2. Richard Lee, Irven DeVore (eds.), Man the Hunter, Chicago, Aldine, 1968.

  3. La teoria economica neo-classica assume che l’agente economico razionale preferisce disporre di un bene in misura maggiore che in misura minore: si dice che vale la proprietà di non sazietà delle preferenze.

  4. Il richiamo a Mauss è, riteniamo, fondamentale nell’elaborazione dell’approccio antropologico all’economia. Scritto quasi cent’anni fa il Saggio continua a essere fonte di studio e ispirazione. Tra i molti contributi recenti, oltre ai classici lavori di Alain Caillé e del gruppo del MAUSS, e di Mary Douglas (in particolare il foreword all’edizione inglese del 1990 del Saggio sul dono), mi sia permesso rimandare a: Mario Cedrini, Roberto Marchionatti, On the Theoretical and Practical Relevance of the Concept of Gift to the Development of a Non-imperialist Economics, «Review of Radical Political Economics», 49(4) 2017, pp. 633-649; Mario Cedrini, Angela Ambrosino, Roberto Marchionatti, Alain Caillé, Mauss’s The Gift, or the necessity of an institutional perspective in economics, «Journal of Institutional Economics», vol. 16, n. 5, October 2020, pp. 687-701.

  5. Denis Diderot, in particolare, nei capitoli a lui attribuiti della enciclopedica Histoire des deux Indes (1770-1780) dell’Abbé Raynal, offre una descrizione del modo di vita degli indiani del Canada che anticipa Sahlins: Diderot sottolinea la precarietà e allo stesso tempo lo stato di «abbondanza» in cui tali popolazioni di cacciatori-raccoglitori vivevano, soddisfatti di quel che la natura concedeva loro. Questo atteggiamento dipendeva, secondo Diderot, dal fatto che i loro bisogni erano limitati («essi sanno come vivere con poco») e dalla regola sociale della mutua assistenza considerata come dovere morale e non come necessità di sopravvivenza. La spiegazione di tale regola era fondata sull’analisi della vita politica di queste popolazioni: organizzate in piccole nazioni indipendenti, caratterizzate dall’assenza di «potere coercitivo» e dove l’ordine sociale era garantito da «buoni costumi, esempio, educazione, rispetto», e la generosità era considerata la massima virtù sociale, che garantiva l’eguaglianza.

  6. Vedi: Elizabeth Cashdan, Hunters and Gatherers: Economic Behavior in Bands, in Stuart Plattner (ed.), Economic Anthropology, Palo Alto, Standford University Press, 1989; Alan Barnard, James Woodburn, Property, Power and Ideology in Hunter-Gathering Societies: An Introduction, in Tim Ingold, David Riches, James Woodburn (eds.), Hunters and Gatherers: Property, Power and Ideology, Oxford, Berg Publishers, 1988; Nurit Bird-David, Beyond the Original Affluent Society: A Culturalist Reformulation, «Current Anthropology», 33 (81), pp. 25-47, 1992; Ross Sackett, Time, Energy and the Indolent Savage: A Quantitative Cross-cultural Test of the Primitive Affluence Hypothesis, PhD diss., University of California, 1996.

  7. Frank Marlowe, The Hadza. Hunter-Gatherers of Tanzania, Berkeley, University of California Press, 2010; James Suzman, Affluence without Abundance. The disappearing world of the bushmen, New York, Bloomsbury, 2017.

  8. A questo proposito si veda il forum History and Archaeology di «Quaderni storici» (1 aprile 2016) curato da Osvaldo Raggio.

  9. John Gowdy (ed.), Limited Wants, Unlimited Means. A Reader on Hunter-Gatherer Economics and the Environment, Washington, Island Press, 1998; Jacqueline Solway (ed.), The Politics of Egalitarianism: Theory and Practice, Oxford, Berghahn, 2006.

  10. Si vedano: Stephen Gudeman, Economics as Culture, London, Routledge, 1986; The Anthropology of the Economy, Oxford, Blackwell, 2001; Anthropology and Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 2016; Richard Wilk (in collaboration with Lisa Cliggett), Economies and Cultures. Foundations of Economic Anthropology, Boulder, Westview Press, 2007 (first edition 1996); Paul Durrenberger, A Shower of Rain: Marshall Sahlins Stone Age Economics Twenty-five Years Later, «Culture and Agriculture», 20 (2-3), pp. 102-106, 1998.

  11. Richard A. Posner, A Theory of Primitive Society, with Special Reference to Law, «Journal of Law and Economics», 23 (1), pp. 1-53, 1980; ripubblicato in Richard Posner, The Economics of Justice, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1987.

  12. Bruce Winterhalder, Work, Resources and Population in Foraging Society, «Man», 28, pp. 321-340.

  13. Questo riconoscimento rafforza la critica sostanzialista che il concetto di scarsità – assumendo l’esistenza della quale soltanto diventa razionale comportarsi da agenti massimizzanti – è non applicabile alle società primitive, perché le condizioni istituzionali e culturali che sono all’origine di tale concetto ivi sono assenti.