Un pensiero inquieto
Libro
Incontri libertari
Weil
Cartaceo 17,10 € E-book 8,99 €
mer 10 nov 2021
INDICE DEL LIBRO:
INTRODUZIONE Un pensiero inquieto di Maurizio Zani
Nota biografica
PARTE PRIMA - GUERRA SOCIETÀ E STATO
Nota del curatore
CAPITOLO PRIMO Dopo la morte di Briand
CAPITOLO SECONDO Il centenario di Paul Bert
CAPITOLO TERZO Riflessioni sulla guerra
CAPITOLO QUARTO Il gruppo Ordre nouveau
PARTE SECONDA - LA CRITICA A MARX
Nota del curatore
CAPITOLO QUINTO In margine al Comitato di studi
CAPITOLO SESTO Dopo la morte del Comitato dei 22
CAPITOLO SETTIMO Le forme di sfruttamento
CAPITOLO OTTAVO Frammento
CAPITOLO NONO Progetto di articolo
CAPITOLO DECIMO Meditazioni sull’obbedienza e sulla libertà
CAPITOLO UNDICESIMO Sulle contraddizioni del marxismo
CAPITOLO DODICESIMO Esame critico delle idee di rivoluzione e progresso
CAPITOLO TREDICESIMO Riflessioni sulla barbarie
PARTE TERZA - LENIN E TROCKIJ
Nota del curatore
CAPITOLO QUATTORDICESIMO Condizioni per una Rivoluzione tedesca. «E ora?» di Lev Trockij
CAPITOLO QUINDICESIMO «Storia della Rivoluzione russa» di Trockij
CAPITOLO SEDICESIMO Lenin: «Materialismo ed empiriocriticismo»
PARTE QUARTA - LA SOCIETÀ TECNO-BUROCRATICA
Nota del curatore
CAPITOLO DICIASSETTESIMO Prospettive: andiamo verso una rivoluzione proletaria?
CAPITOLO DICIOTTESIMO Il problema dell’URSS
PARTE QUINTA - LA QUESTIONE TEDESCA
Nota del curatore
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Il riformismo tedesco
CAPITOLO VENTESIMO Il Partito comunista tedesco
Bibliografia essenziale di Simone Weil
L’incontro della Weil con l’anarchismo ha contrassegnato una lunga fase della sua riflessione politica, dagli anni giovanili fino all’incirca al 1936. Non si è dunque trattato di un contatto estemporaneo, bensì di una convergenza nata sotto l’insegna della ricerca della migliore forma di espressione pratica della libertà. La Weil ha sentito con forza nella tradizione di pensiero che risale a Proudhon una fonte di suggestioni per la sua azione di lotta a fianco dei lavoratori salariati delle fabbriche e delle miniere e per costruire un progetto di trasformazione sociale incentrato sull’idea di una società priva di gerarchie costrittive e in cui i meccanismi sociali non producano forme di burocratizzazione tecnocratica. L’ispirazione proudhoniana ha fatto sì che la sua lettura dei testi marxiani – soprattutto del Capitale, in età giovanile – fosse condotta senza incorrere nei facili miti condivisi invece da una parte consistente della sinistra francese e tedesca. La tesi proudhoniana di un futuro sociale in cui la libertà e la felicità pubbliche non siano sottoposte all’arbitrio del potere statale ha dunque immunizzato la Weil da ogni contaminazione con teorie che, come il marxismo, impongono la centralità dello Stato in ogni prospettiva di mutamento sociale.
Le letture proudhoniane hanno fatto sì che la particolare simpatia della Weil per il sindacalismo rivoluzionario non ottundesse mai il suo senso critico. A quest’ultimo la Weil ha sempre guardato, negli anni giovanili, con un occhio particolarmente benevolo in quanto le è sembrato forse l’unico movimento capace di evitare, da una parte, i rischi di un eccessivo spontaneismo dell’azione di lotta e, dall’altra, di sottrarsi ai condizionamenti politici esercitati dai partiti e dai sindacati marxisti sul movimento operaio. La lezione proudhoniana le ha tuttavia impedito di farne un mito. Anche in esso infatti la filosofa francese vede in prospettiva il pericolo di una rinascita del verticismo sotto un’altra forma, in quanto teme che non possa sottrarsi al destino delle grandi organizzazioni, quello cioè di darsi prima o poi un’articolazione gerarchica di potere.
Ciò che importa alla Weil, prima di qualsiasi formula organizzativa, è infatti la salvaguardia della libertà individuale, e quindi collettiva, dai condizionamenti costrittivi derivanti dalla presenza di istituzioni verticali di potere e, in particolare, da quelle incarnate dallo Stato e dai suoi apparati (burocrazia, esercito ecc.). Il suo incontro con l’anarchismo trae dunque origine anche dall’istanza, condivisa con questo movimento di pensiero e di lotta, di liberare il soggetto umano dai vincoli istituzionali che inibiscono il suo naturale desiderio di libertà e quindi di sottrarlo ai pericoli di una resurrezione dell’autoritarismo statale e istituzionale anche in una rinnovata società del futuro. All’anarchismo la Weil guarda come a un modello ideale di pensiero e di azione e pertanto non è disposta a identificarlo con una o con un’altra corrente, ovvero con il pensiero di un particolare filosofo anarchico. Questo spiega perché i richiami alla filosofia politica dei vari pensatori anarchici siano solo sporadici, anche se condivide lo spirito che informa le loro riflessioni.
L’anarchismo, peraltro, le ha fornito uno schema di lettura della storia delle società e dei processi rivoluzionari ben differente da quello del materialismo storico. Mentre infatti Marx fa dell’odio di classe il vettore psicologico di istanze di trasformazione sociale che possono portare a esiti rivoluzionari, la Weil fa appello allo «spirito di rivolta» che è connaturato alla natura stessa dell’uomo. Una simile disposizione alla lotta per rovesciare il quadro dominante delle relazioni sociali tra gli uomini, entro un determinato contesto sociale, rappresenta una tensione latente che si esprime solo qualora l’individuo si trovi in una condizione di grave subalternità economica o politica. Sotto queste condizioni lo spirito di rivolta si traduce in atteggiamenti individuali e quindi collettivi che assumono il carattere non solo di istanze di rovesciamento delle gerarchie sociali, ma anche di attenzione costante affinché il mutamento sociale non rimetta in gioco quelle articolazioni istituzionali e verticali di potere che si è voluto demolire. Lo spirito di rivolta, una volta uscito dal suo stato di latenza, agisce in controtendenza nei confronti di un’altra propensione naturale dell’uomo, quella a sottomettersi passivamente a minoranze attive che gli sottraggono ogni possibilità di esprimere in piena autonomia la sua libertà.
Per la Weil l’esistenza umana è dunque stretta entro una dialettica bipolare tra spirito di rivolta, da una parte, e propensione ad assumere una condizione gregaria, dall’altra. L’esito di questo conflitto non può essere previsto perché di volta in volta entrano in campo variabili storiche e sociali affatto particolari. L’idea – di matrice anarchica – relativa al ruolo giocato nella storia delle trasformazioni sociali dallo spirito di rivolta, ha permesso alla Weil di porsi in una posizione critica nei confronti del materialismo marxiano, cui rimprovera di aver proposto un modello di spiegazione storica riduttivo in quanto esclusivamente incentrato sui rapporti sociali di produzione. Ad avviso della Weil la nozione di spirito di rivolta ha invece il pregio di chiamare in causa un principio psicologico di ordine naturale più profondo dei rapporti di produzione. Lo spirito di rivolta, a differenza della lotta di classe, fa dell’individuo, e non di un gruppo sociale, il vettore della storia.
La Weil rifiuta pertanto l’idea di Marx – peraltro da parte di questi mutuata da Hegel – secondo cui il cambiamento storico dipende da soggetti collettivi. La storia è fatta da individui in carne e ossa e non da entità «misteriose» come le classi, le quali, ad avviso della Weil, non sono altro che raggruppamenti di individui dotati di simili caratteristiche sociali, psicologiche e culturali. L’aver posto l’accento, da parte di Marx e del marxismo, sul ruolo storicamente determinante di questi soggetti collettivi (classe, partito, Stato ecc.) è implicitamente responsabile dell’orientamento illibertario del marxismo realizzato, cioè dello stalinismo, in quanto ha condotto a sottovalutare il valore individuale del singolo soggetto umano tutto a vantaggio di apparati burocratici di partito o statali. Anche dal punto di vista di una filosofia della storia, dunque non solo di una filosofia politica, la distanza della Weil dal marxismo appare tanto marcata da assumere il carattere di una vera e propria contrapposizione teorica.
Con un simile orientamento critico la Weil affronta dunque le questioni politiche più scottanti a lei contemporanee che vengono trattate nei brani presentati in questa antologia. Gli anni in cui scrive la Weil corrispondono a un periodo di consolidamento del governo staliniano nella Russia sovietica, ma anche di progressiva affermazione del fascismo tedesco fino all’avvento del cancellierato di Hitler e alla formazione di uno Stato nazionalsocialista. Si tratta di due espressioni di potere che le appaiono simmetriche sotto molti aspetti, anche se diversamente connotate in senso ideologico. Entrambi fanno leva su un potenziamento esponenziale della forza illibertaria dello Stato, su un’espansione dell’interesse economico pubblico e, infine, sull’irreggimentamento sistematico e violento delle coscienze individuali. In entrambi la Weil, inoltre, coglie l’espressione trasparente del potere dello Stato ormai privo dei veli con cui la democrazia parlamentare copre il suo vero volto. In questo senso bolscevismo e nazismo realizzano, con il ricorso a mezzi di pressione non diversi sotto il profilo del grado di violenza da loro incorporato, una medesima condizione di imbarbarimento dei rapporti sociali che porta all’annichilimento dell’individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi.
È dunque affatto naturale che la Weil, di fronte alla piega dittatoriale presa dagli eventi successivi alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia, assuma senza mezzi termini una dura posizione critica che si traduce in un’aperta condanna dello stalinismo, proprio in un periodo in cui i partiti comunisti europei ne sembrano infatuati. A suo avviso, la nascita di una forma autocratica e sanguinaria di potere in URSS non è casuale, bensì si pone come una sorta di esito necessario del modo in cui le teorie marxiste sono state interpretate prima da Lenin e quindi da Stalin. Il marxismo contiene per la Weil un’inequivocabile vocazione autoritaria e illibertaria in quanto non sa sottrarsi all’oscuro fascino che esercita su di lui l’idea di Stato e non sa liberarsi del mito di un partito politico della classe operaia che nei fatti risulta essere solo portatore degli interessi di una élite dirigente. La combinazione tra una concezione mitica dello Stato e del partito è pertanto responsabile, ai suoi occhi, dell’assoluta mancanza di libertà in URSS e delle violenze perpetrate dalla burocrazia e dalla tecnocrazia staliniana nei confronti dei dissidenti. Pertanto, secondo la filosofa francese, lo Stato sovietico non è riformabile non solo per il fatto che le radici del potere staliniano sono ormai troppo profonde, ma anche, più in generale, perché ogni tentativo di modificare l’assetto del potere statale senza spezzarlo effettivamente finisce comunque per riproporre forme di violenza istituzionale e di autoritarismo politico.
La storia ha mostrato – sostiene la Weil – che ogni tentativo di riforma che interessa l’apparato dello Stato non incide effettivamente sulla sua forza di oppressione. Può forse mitigarla temporaneamente, rendendo possibile alcune limitate forme di espressione della libertà. Prima o poi, tuttavia, la vera vocazione autoritaria dello Stato prenderà il sopravvento mostrando il suo volto brutale. La lezione da trarre dalla marcia trionfale verso il potere da parte di Hitler e del suo partito rappresenta un’ulteriore conferma diretta di questa tesi. Il fascismo tedesco, in altre parole, era già latente nelle istituzioni della Repubblica di Weimar, almeno nel senso di una tensione immanente all’apparato dello Stato a scuotersi di dosso i condizionamenti imposti al suo potere da parte di una costituzione repubblicana mirante a garantire i diritti fondamentali dei cittadini e una reale divisione dei poteri.
Se, in ultima analisi, la crisi dello Stato di diritto sancito a Weimar nel 1919 è imputabile a una tensione interna allo Stato volta a riappropriarsi del terreno perduto in termini di prepotenza istituzionale, non vanno comunque dimenticate – secondo la Weil – le responsabilità dei partiti tradizionali della sinistra tedesca, in particolare del Partito comunista (KPD). Come gli altri partiti comunisti europei, anche quello tedesco costituisce di fatto, a suo avviso, un’appendice dello Stato sovietico, il quale ne manovra la politica dall’alto attraverso i canali istituzionali dell’Internazionale comunista. Prova ne è che la loro dirigenza ha rigidamente applicato parole d’ordine provenienti da Mosca che impongono un duro scontro con i vertici socialdemocratici in un momento in cui l’unità della sinistra in Germania rappresenta, secondo la Weil, l’unica barriera possibile contro lo strapotere nazista. Ma al contempo il Partito comunista tedesco accetta la parola d’ordine staliniana che parallelamente spinge per un accordo con la base, cioè un «fronte unico dal basso» con gli operai e i militanti socialdemocratici, sottovalutando in questo modo l’ascendente esercitato dalla dirigenza socialdemocratica sui suoi iscritti. L’insuccesso della strategia comunista, evidente nella mancata conquista della base operaia socialdemocratica, rappresenta dunque, agli occhi della Weil, semplicemente il fallimento della politica di indebita ingerenza di uno Stato straniero, quello sovietico, nella vita sociale tedesca. Lo Stato staliniano porta così in parte la responsabilità dell’ascesa del nazismo al potere in Germania.
Anche nei confronti della socialdemocrazia tedesca (SPD) la Weil non lesina pesanti critiche. Essa infatti – secondo il suo punto di vista – non si è limitata a fare dello Stato un fondamentale referente della sua azione politica nella forma della partecipazione alle battaglie politiche parlamentari o in quella della pressione politica esercitata sui governi per evitare eventuali misure antioperaie. C’è di più. Se è vero che i vantaggi tratti dalle classi lavoratrici in termini di acquisto di un certo benessere economico e di una serie di vantaggi sociali non sono stati indifferenti, è altrettanto vero che con questo atteggiamento collusivo verso lo Stato la socialdemocrazia si è preclusa la possibilità di cogliere le trasformazioni politiche in atto. Soprattutto ha perso di vista il potenziale di oppressione e di autoritarismo insito in quello Stato di cui ha cercato l’alleanza e questo l’ha condotta a credere che l’apparato dello Stato non sarebbe mai stato rivolto contro di lei fino al punto di distruggerla. La socialdemocrazia si è trovata pertanto disarmata nei confronti di quei movimenti della destra estrema che, come il nazionalsocialismo hitleriano, hanno finalizzato la loro azione politica alla conquista delle leve del potere statale per utilizzarlo barbaramente contro tutto il movimento operaio.
L’analisi da parte della Weil delle responsabilità della socialdemocrazia è affatto impietosa. Essa si sviluppa lungo due linee essenziali: quella sociologica, mediante l’individuazione della specifica collocazione sociale dei membri delle élite dirigenti della socialdemocrazia tedesca; quella psicologico-sociale, attraverso l’enucleazione della psicologia di queste élite. La tesi di fondo per spiegare la debolezza della socialdemocrazia – e in qualche misura anche del Partito comunista – consiste nel sottolineare come il suo gruppo dirigente condivida una situazione analoga a quella della burocrazia tecnocratica di Stato in quanto è inserito in un’istituzione che per molti versi riproduce i caratteri strutturali dell’apparato statale. Data questa analogia di fondo, è del tutto naturale – secondo la filosofa francese – che la socialdemocrazia assuma nei confronti dello Stato quell’atteggiamento compromissorio che di fatto ha contribuito a soffocare ogni velleità rivoluzionaria delle classi lavoratrici. Del resto, come potrebbero andare diversamente le cose dal momento che questo partito politico ha bisogno dello Stato per mantenere inalterati i vantaggi derivanti dai consistenti capitali accumulati negli anni con le quote delle iscrizioni?
Nei confronti del nazionalsocialismo tedesco l’atteggiamento della Weil non può evidentemente essere meno risoluto. Dato che la maggior parte degli articoli dedicati all’analisi della situazione tedesca è stata redatta a meno di un anno dall’ascesa al potere di Hitler, la sua attenzione si dirige eminentemente a cogliere le ragioni del consenso acquisito dal Partito nazionalsocialista, cioè della sua notevole capacità di radicamento nella società tedesca.
Un altro aspetto che sollecita il suo interesse consiste nel cercare di rispondere al perché il nazismo ha potuto ottenere credibilità anche all’interno delle classi lavoratrici. La Weil rifiuta l’interpretazione semplicistica del nazismo, formulata da SPD e KPD, secondo cui esso rappresenta solo l’espressione politica violenta della grande borghesia e il suo braccio armato. La filosofa francese ritiene che effettivamente esista una componente strumentale di questo genere, ma che questa si sia sovrapposta a una realtà che è maturata autonomamente sul terreno politico e dello scontro sociale. In altre parole, la borghesia e la tecnocrazia di Stato sfruttano il nazismo utilizzandolo come ariete per demolire il movimento operaio, ma esso è il prodotto di un complesso di circostanze sociali e psicologiche del tutto indipendenti dalla volontà di queste forze sociali. La disamina di questo processo di maturazione organizzativa e psicologica del nazismo – analisi del tutto trascurata dalle forze della sinistra tradizionale – è indispensabile per sapere quali iniziative assumere per fronteggiarlo.
La Weil si preoccupa, inoltre, di capire le motivazioni profonde della sottovalutazione del fenomeno nazionalsocialista da parte delle forze della sinistra tradizionale tedesca, ricondotte, in ultima analisi, alla povertà culturale delle élite che guidano il Partito socialdemocratico e quello comunista. Poiché la Weil vede nel nazismo l’espressione indiretta di una resa dei conti dello Stato con una società politica che ha cercato di imbrigliarne la carica potenziale di violenza illibertaria, non nutre alcuna fiducia nella possibilità di un rientro del nazismo alla legalità o di una sua irreversibile crisi di credibilità politica. Negli articoli che qui presentiamo emerge chiaramente che la Weil sa che la partita è ormai persa per il movimento operaio. Questa convinzione traspare non solo nei suoi argomenti, ma si traduce anche in una sorta di moto simpatetico di partecipazione al dramma ormai incombente sui lavoratori tedeschi e insieme di forte avversione verso quei partiti che, chiusi nelle loro rigide strutture gerarchiche, non hanno saputo interpretare le tensioni di lotta ancora latenti nel mondo del lavoro salariato.
La posizione della Weil nei confronti della realtà a lei contemporanea è dunque quella dell’intellettuale in rivolta contro ogni manifestazione di potere che si appoggi su strutture istituzionali rigide e gerarchizzate. L’espressione più alta di questo atteggiamento polemico si è concretizzata nella sua pur breve partecipazione alla guerra di Spagna nel Gruppo internazionale della colonna di miliziani anarchici guidati da Buenaventura Durruti. La scelta del campo anarchico non è stata certo casuale. L’anarchismo le sembra incarnare la migliore garanzia contro l’affermazione del fascismo, cioè di un’altra forma di organizzazione statale che, come quella sovietica, tende a sottoporre al suo potere ogni aspetto della vita sociale. L’anarchismo le appare soprattutto come l’unica dottrina sociale capace di rivendicare l’importanza dell’autonomia dell’individuo nei confronti dei grandi apparati e quindi di porre in primo piano il valore morale della libertà individuale. Mentre marxismo e fascismo parlano di Stato, partito o classe, come se le singole individualità fossero fenomeni marginali della vita collettiva, l’anarchismo parla di soggetti singolari, dei loro bisogni, delle loro aspirazioni di libertà. Nella partecipazione alla guerra di Spagna la Weil ha dunque probabilmente cercato di esprimere questa idea di centralità del soggetto rispetto alle istituzioni attraverso un’azione che fosse a un tempo di impegno coerente dell’intellettuale contro il totalitarismo fascista e di rivolta contro ogni forma di potere statale.
L’affiancamento della Weil ai volontari anarchici sul fronte aragonese risponde presumibilmente anche all’esigenza profonda di una presa di posizione militante contro il militarismo e contro il patriottismo, di cui peraltro riconosce la presenza nefasta nella cultura degli intellettuali francesi e negli apparati statali preposti alla scolarizzazione delle giovani generazioni. Contro il militarismo, in quanto ideologia e pratica che sottomette ai profitti dell’industria bellica e dei corpi politici statali cointeressati i destini di milioni di persone. Contro il patriottismo, in quanto mentalità radicata su una falsa idea di patria e di unità spirituale di un popolo intorno a presunti valori di superiorità nazionale. Patriottismo e militarismo rappresentano ai suoi occhi – come emerge in modo trasparente da diversi testi presenti in questa antologia – due sintomi culturali complementari della presenza soffocante dello Stato nella società, mascherata sotto la veste di presunti interessi nazionali e supportata da processi di identificazione collettiva da parte dei cittadini con quei leader che se ne sono fatti promotori.
Gli articoli riportati in questa antologia percorrono dunque criticamente tutte le espressioni del potere istituzionalizzato che l’esperienza storica a lei contemporanea mostra in modo esemplare. La sua inquietudine di fronte a queste manifestazioni è profonda; la sua volontà di lotta è forte e sincera. La Weil tuttavia avverte un sensibile isolamento rispetto a tutte quelle forze intellettuali e politiche che sembrano incapaci di cogliere le minacce incombenti in Europa e che porteranno alla tragedia della seconda guerra mondiale. La sua solitudine lentamente la condurrà a una rarefazione del suo impegno politico a fianco del movimento operaio. Il suo sguardo progressivamente si rivolgerà ad altri campi di sapere: la storia delle religioni, la filosofia, la mistica religiosa.