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Un ponte crolla

Cemento. Arma di costruzione di massa

Jappe

Cartaceo 17,10 €
ven 13 mag 2022

INDICE DEL LIBRO:

Il 15 agosto, il giorno dell’Assunzione della Vergine Maria secondo la Chiesa cattolica, in Italia è Ferragosto. Durante questa festività anche le persone che non vanno in vacanza in agosto, un mese solitamente caldo, si prendono una pausa: vanno al mare, in campagna, oppure si riuniscono con i parenti. Questo significa che il traffico è molto elevato su tutte le strade del paese. Il livello del traffico è anche molto alto nei giorni prima e dopo Ferragosto, soprattutto quando è possibile «fare ponte» con il fine settimana.

Si potrebbe allora pensare che il destino abbia scelto per pura cattiveria di abbattersi sul ponte proprio il 14 agosto.

L’Italia settentrionale ha una delle reti di autostrade più dense del mondo, la maggior parte delle quali sono state costruite negli anni Sessanta del secolo scorso. Il terreno spesso molto irregolare ha reso necessarie grandi opere di ingegneria civile, in particolare sulla costa ligure dove l’autostrada è una successione infinita di gallerie e ponti. Poche cose hanno contribuito maggiormente a diffondere l’idea che l’Italia sia passata da nazione agricola «arretrata» a paese «moderno» in una manciata di anni: le autostrade sono state la più importante materializzazione del «miracolo economico italiano».

Tra questi «capolavori di ingegneria», uno dei posti d’onore spettava al viadotto Polcevera di Genova. Inaugurato nel 1967, attraversava gran parte della città, delle sue linee ferroviarie e dei suoi terreni edificati, permettendo di accedere al porto moderno, praticamente circondato dai rilievi circostanti. Il suo ingegnere capo, Riccardo Morandi (1902-1989), aveva sviluppato tecniche all’epoca considerate molto innovative, applicate frequentemente ad altre costruzioni. Fu il primo ponte italiano «strallato», cioè costituito da un impalcato sospeso tramite cavi coperti da guaine di «cemento precompresso» e fissati a piloni (vedi capitolo successivo). L’intera struttura misurava oltre un chilometro e la campata principale era lunga 208 metri, all’epoca la seconda più lunga al mondo. Inoltre, il viadotto era ammirato per la sua leggerezza ed eleganza, in altre parole per il suo design, così importante per il marchio made in Italy. Il paese aveva più di un motivo per esserne orgoglioso, e non sorprende che nel linguaggio comune sia stato presto chiamato ponte Morandi.

Ragione in più per pensare che il destino abbia scelto per pura cattiveria di abbattersi su questo particolare ponte.

Il 14 agosto 2018, alle 11,36, mentre un temporale infuriava su Genova, una campata della sezione centrale è improvvisamente crollata. Quarantatré persone hanno perso la vita: soprattutto i conducenti dei veicoli che stavano transitando sul viadotto, ma anche alcuni operai che lavoravano sotto. Non è stato certo il più grande disastro tecnico che ha colpito l’Italia negli ultimi decenni, ma stavolta l’impatto sull’«opinione pubblica» è stato particolarmente forte. Le immagini di un camion che era riuscito a fermarsi proprio sul bordo dell’abisso e che era rimasto lì per giorni, così come la storia di un uomo che era rimasto sospeso nel vuoto per ore, in attesa dei soccorsi, avrebbero tormentato l’immaginario collettivo per molto tempo. Il disastro era avvenuto nel centro di Genova e aveva cambiato lo skyline della città; oltretutto, centinaia di persone sarebbero state costrette a lasciare le loro case.

Naturalmente, questo ha sollevato immediatamente una serie di domande angosciose: che cosa ha provocato un simile disastro? Un crollo come questo potrebbe ripetersi altrove? E che cosa bisogna fare per evitarlo?

Era ineluttabile che si aprisse la caccia ai possibili difetti presenti nella concezione stessa del progetto, soprattutto da parte degli «esperti», visto anche l’argomento altamente specializzato. È vero che un’altra famosa costruzione di Morandi, il ponte denominato General Rafael Urdaneta in Venezuela, era parzialmente crollato nel 1964, pochi anni dopo la sua costruzione, ma quell’incidente fu dovuto all’impatto di una petroliera che lo aveva urtato. «Sfortuna», si potrebbe dire, ma non «negligenza». Un altro ponte realizzato da Morandi ad Agrigento, in Sicilia, è stato chiuso nel 2015 a causa di cedimenti strutturali, e molti altri suoi ponti hanno avuto problemi. Non sono però stati rilevati errori di calcolo, il che sembra suggerire che le strutture da lui progettate non sono peggiori di altre.

I tentativi di identificare le cause di un disastro così spettacolare si sono poi concentrati sulle soluzioni «innovative» dell’ingegnere, proprio quelle per cui era famoso, per verificare se avevano creato problemi inediti che avrebbero potuto essere evitati solo con una manutenzione rigorosa, evidentemente deficitaria. L’attenzione degli esperti si è allora rivolta ai cavi d’acciaio, gli stralli, inseriti nelle guaine di cemento precompresso. Secondo Morandi, queste ultime dovevano impedire la corrosione dei cavi, il principale pericolo che minaccia questo tipo di costruzione. In realtà, hanno reso molto difficile (e oneroso) controllare la corrosione effettiva dei cavi, perché li avevano resi invisibili e praticamente inaccessibili. Secondo altri esperti, il ponte non si comportava «come previsto», soprattutto nel piano viabile di cemento precompresso, che in certe condizioni aveva cominciato a ondulare. Appena dodici anni dopo la sua messa in funzione, Morandi stesso fu costretto ad ammettere il suo invecchiamento prematuro, che attribuì all’aria salmastra del mare e ai fumi prodotti dalle vicine acciaierie1, due fattori già presenti al momento della costruzione. Anche il forte aumento del volume di traffico non era stato considerato e stava peggiorando la situazione: la deformazione dei materiali era superiore al previsto. I continui lavori di manutenzione stavano diventando così costosi che venne addirittura presa in considerazione la demolizione della struttura; si sosteneva che a lungo termine i costi di manutenzione avrebbero superato quelli di una nuova costruzione2. Nel 2006 l’archistar spagnola Santiago Calatrava Valls propose di sostituirlo con una struttura in acciaio. Insomma, il ponte Morandi era stato a lungo oggetto di grandi preoccupazioni, e dopo il suo crollo, alcuni parlarono, con vari gradi di soddisfazione, di «tragedia annunciata»3.

La manutenzione inadeguata di una struttura già problematica era quindi al centro della controversia. Chi avrebbe dovuto occuparsene? Il ponte era gestito dalla società Autostrade per l’Italia a partire dal 1999, quando in Italia le autostrade erano state privatizzate. Il declino del livello di manutenzione è stato spesso indicato come un risultato di questa privatizzazione; e se si considera che il principale azionista di Autostrade per l’Italia è il gruppo Benetton, meglio conosciuto per i suoi maglioni e calzini, il responsabile sembrava essere stato individuato. Della vicenda si impadronì il Movimento Cinque Stelle, che aveva appena formato un governo nazionale con la Lega Nord, proponendo non solo di imporre una pesante multa alla società, ma anche di revocare la concessione per gestire le autostrade in gran parte d’Italia. Rappresentanti di questo partito hanno regolarmente rimesso sul tavolo la loro proposta, nonostante la riluttanza degli altri grandi partiti di sinistra e di destra, e nonostante sul piano giuridico fosse difficile da mettere in atto. D’altra parte, questa attribuzione di colpevolezza sembra essere confermata dalle indagini giudiziarie in base a vari casi di manipolazione dei rapporti sulle condizioni di altri ponti, imposta dai dirigenti di Autostrade ai loro dipendenti4. Una parte dell’opinione pubblica italiana aveva quindi aderito a una forma di «anticapitalismo mutilato» di tipo populista: una famiglia di «grandi capitalisti», i Benetton, aveva accumulato enormi profitti economizzando sulla pelle dei cittadini onesti. Il che non era falso, ma come spiegazione risultava un po’ troppo semplice.

Altri, al contrario, davano la colpa alla generale mancanza di fiducia nel progresso e al rifiuto delle (nuove) tecnologie, sottolineando che i progetti per costruire autostrade alternative intorno a Genova erano stati tutti bloccati da resistenze che mettevano in risalto i danni ambientali, i costi proibitivi e i rischi di corruzione.

A tutto questo, naturalmente, si sono aggiunte le teorie cospirazioniste. Articoli e video pubblicati su Internet mostravano che la campata del ponte era stata fatta saltare in aria da una carica di dinamite, presumibilmente per permettere a qualcuno di guadagnare somme favolose con la ricostruzione, ma anche, teoria ancora più sorprendente, perché la Liguria sarebbe al confine tra due grandi sfere rivali della massoneria! Oltretutto, il video delle telecamere di sorveglianza che hanno ripreso il crollo è stato reso pubblico solo diversi mesi dopo l’avvenimento: difficile trovare una prova migliore del fatto che stavano cercando di nasconderci qualche terribile segreto!

Di chi è stata la colpa, dunque?

Il ponte Morandi è crollato perché era fatto di cemento armato e aveva già mezzo secolo. A meno che non si continuino a fare considerevoli sforzi antieconomici per mantenerla, la piena efficienza di una struttura come questa ha una durata di circa trent’anni e poi inizia la fase di decadenza, a fortiori quando ormai esiste da sessanta-settant’anni. Non è fatta per durare di più, qualunque cosa ne pensino i suoi costruttori.

Il cemento armato ha conosciuto un boom, almeno nel mondo occidentale, tra gli anni Cinquanta e Settanta. Quale futuro lascia dunque intravedere per buona parte dell’ambiente edificato che ci circonda?

Il crollo del ponte Morandi passa per un’enigmatica eccezione, o viene spiegato con ragioni del tutto straordinarie. Ma cosa succederebbe se un simile evento si ripetesse negli anni a venire? Se questo fosse solo il segno di un preavviso, un memento, un avvertimento scritto su un muro da una mano soprannaturale? Cosa succederebbe se milioni di case e ponti, dighe e strade, aeroporti e grattacieli rivelassero, a un ritmo crescente, che sono costruiti con sabbia e strutture metalliche soggette a corrosione, come in effetti sono? E se la loro consustanziale alterazione, la loro vulnerabilità, la loro disintegrazione non fossero solamente il volto visibile di queste strutture, ma anche una conseguenza del crollo o della decomposizione della società che le ha date alla luce?

Certo, si può criticare e condannare l’incapacità degli ingegneri, la subordinazione degli imperativi di sicurezza al profitto, la mancanza di una «cultura imprenditoriale» degli esecutori (i loro accordi e le varie truffe), l’avidità o la miopia dei dirigenti pubblici o privati. Si può anche andare oltre e mettere in dubbio la reale necessità di continuare a costruire così tante strutture solitamente realizzate in cemento, come aeroporti, autostrade, dighe e grattacieli, che oggi sono viste con sospetto da una parte crescente della popolazione, almeno in Europa, e che sono oggetto di un aspro dibattito. Ma possiamo criticare il cemento armato in quanto tale? Di fatto è considerato meno dannoso dell’amianto o dei pesticidi, e sembra anche causare meno danni delle automobili, della televisione o della plastica. Eppure il quotidiano liberale inglese «The Guardian», che non è esattamente un organo dell’anarco-primitivismo, lo ha definito «il materiale più distruttivo della terra»5. Il dossier dedicato a questo materiale, molto interessante, si limita però a nocività misurabili. Ma se spingessimo il ragionamento più in là, si potrebbe allora prendere in considerazione l’ipotesi che il cemento abbia dei legami con il capitalismo che non si limitano ad aumentare i profitti di pochi, ma che arrivano al punto di farne la perfetta materializzazione della logica del valore della merce? In effetti, questo materiale apparentemente inoffensivo, chiamato concrete in inglese e concreto nello spagnolo e nel portoghese latinoamericani, può ben essere considerato come il lato concreto dell’astrazione capitalista. In particolare vedremo come il «soggetto automatico» della valorizzazione del valore sia dotato di un potere molto più distruttivo di quello detenuto da tutti i cattivi ingegneri e gli avidi azionisti nel loro complesso.

Il culto della leggerezza ha spinto a credere che si potessero costruire strutture con pochissimi materiali, ignorando le leggi di gravità. E così si è chiuso un occhio su una delle conseguenze che ne derivano: se un singolo elemento portante cede, l’intera struttura è in pericolo. Con un ponte ad arco, questo rischio è minore: il crollo di una delle sue parti non porta automaticamente alla caduta di tutto il resto. Ma in questo come in altri casi si è dato per scontato che non ci sarebbe mai stato un cedimento. Il ponte Morandi è quindi un caso da manuale della hybris che caratterizza, al massimo grado e a tutti i livelli, l’anticivilizzazione capitalista.

Dobbiamo quindi prendere in considerazione questa ulteriore dimensione della crisi globale della società capitalista, al di là del collasso economico, ecologico, energetico e ora epidemico: molte costruzioni umane possono letteralmente sbriciolarsi e crollare a breve termine, lasciando dietro di sé orribili rovine.

Al di là del fatto di capire quale logica storica abbia reso possibile il cemento, bisogna anche chiedersi cosa è stato reso possibile dal cemento. La critica di questo materiale può quindi essere estesa a quella della cosiddetta architettura «moderna», così come a quella dell’urbanistica contemporanea, guardando non solo all’uso dello spazio, ma anche ai materiali utilizzati. La comune giustificazione che «senza il cemento l’architettura moderna non sarebbe stata possibile» deve essere trasformata in un atto d’accusa. È infatti impossibile separare le considerazioni sul cemento armato da un discorso più globale sull’architettura moderna, cioè quella dei secoli XX e XXI. Da qui l’interesse a far luce sull’architettura moderna in generale, nonostante la portata dell’argomento. Non bisogna però dimenticare che il cemento non è l’unico elemento coinvolto: danni devastanti possono essere attribuiti anche ad altri materiali, come i mattoni forati che si possono trovare nelle «autocostruzioni» odierne.

La gestione capitalista dello spazio, con l’ingiustizia sociale che ne deriva, è stata spesso criticata, basti ricordare i nomi di Henri Lefebvre e David Harvey. Al contrario, la questione dei materiali impiegati non è stata quasi mai presa in esame. Ecco perché ora ci concentreremo su questo tema.

Note all’Introduzione


  1. Riccardo Morandi, The Long-term Behaviour of Viaducts Subjected to Heavy Traffic and Situated in an Aggressive Environment: the Viaduct on the Polcevera in Genoa, IABSE Reports of the Working Commissions, 32, pp. 169-180, 1979, http://doi.org/10.5169/seals-25613.

  2. Antonio Brencich, Ponte Morandi, parla l’esperto: «Il fulmine non c’entra niente, il ponte era fragile, andava abbattuto», «Genova Post», 14 agosto 2018. Brencich, professore di ingegneria all’Università di Genova, si era già espresso in proposito nel 2016: https://www.teknoring.com/news/ingegneria-strutturale/ponte-morandi-genova-analisi-infrastrutturale.

  3. Italie: des défaillances sur la structure du pont Morandi à Gênes avaient été signalées, «Le Monde», 15 agosto 2018, https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/14/genes-des-defaillances-sur-la-structure-du-pont-morandi-avaient-ete-signalees_5342332_3214.html.

  4. Alcuni documenti sequestrati dalla polizia nella sede dell’azienda indicano che fin dal 2014, nel corso di una riunione cui partecipava uno dei rappresentanti del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, era stato evocato il rischio crollo per il ponte Morandi. Ma si decise di non fare nulla. L’azienda oggi si giustifica assicurando che il rischio «era solo teorico» («La Repubblica», 21 novembre 2019, https://www.repubblica.it/cronaca/2019/11/21/news/ponte_morandi_anche_il_ministero_sapeva_autostrade_il_rischio_crollo_era_solo_teorico-241548180/).

  5. Jonathan Watts, Concrete: the Most Destructive Material on Earth, «The Guardian», 25 febbraio 2019, https://www.theguardian.com/cities/2019/feb/25/concrete-the-most-destructive-material-on-earth.