Logiche politiche inscritte nello spazio
Libro
Orizzontale e verticale. Le figure del potere
Boni
Cartaceo 17,10 € E-book 8,99 €
mer 12 mag 2021
INDICE DEL LIBRO:
introduzione Logiche politiche inscritte nello spazio
Parte prima Logiche organizzative a confronto
CAPITOLO PRIMO Verticalità: l’altezza
CAPITOLO SECONDO Orizzontalità: il cerchio
Parte seconda Orizzontale e verticale oggi
CAPITOLO TERZO Tentativi di livellamento nella modernità
CAPITOLO QUARTO Democrazie incompiute
CAPITOLO QUINTO Orizzontalità e verticalità nei governi socialisti
CAPITOLO SESTO Le assemblee dei movimenti sociali
Conclusioni scientifiche Osservare il potere come raffigurazione spaziale
Conclusioni politiche L’anarchia come prassi sociale orizzontale, oltre la genealogia intellettuale europea
Ringraziamenti
Bibliografia
Orizzontale e verticale sono i due assi in cui inquadriamo la nostra percezione tridimensionale dello spazio. O meglio, l’orizzontalità permette una lettura solo bidimensionale: gli elementi si distribuiscono in vario modo, ma su un medesimo piano senza differenziarsi sull’asse verticale. L’introduzione della terza dimensione, quella verticale, permette di distinguere le parti in base a chi o cosa sta sotto o sopra. I due assi sono alla base della geometria, ma questa, oltre a essere una scienza matematica, viene applicata nella socialità: continuamente produciamo forme collocando i nostri corpi e i nostri oggetti. Nel fare ciò, ci appropriamo della geometria per dare significato allo spazio, associandolo a simboli e usandolo come ordinatore ed espressione di relazioni.
Lo spazio è una dimensione cognitiva imprescindibile, ma variano sensibilmente le effettive modalità in cui vengono forgiate collettivamente le geometrie umane che organizzano la nostra percezione del mondo. Questa comune e necessaria esperienza di orientamento fa della percezione spaziale un ambito particolarmente fecondo di interrogazione antropologica, in quanto permette di apprezzare le ricorrenze ma anche la diversità e la dinamicità delle «forme-figure» istituite da «individui sociali […] in quanto la loro socializzazione plasma e dà forma alle manifestazioni della loro immaginazione [immaginario]radicale» [Castoriadis 1975: 272, 273, corsivo in originale]. La disposizione nello spazio – al centro o ai margini, nei punti cardinali, a destra o a sinistra, davanti o dietro e in alto o in basso – ordina ed esprime i tratti caratterizzanti delle relazioni sociali, genera collocazioni che vengono caricate di significato nella costruzione di un senso condiviso del ruolo di ciascuno all’interno della collettività.
Tra i diversi assetti possibili della geometria sociale, orizzontalità e verticalità costituiscono modelli e intenzioni di interazione umana per molti versi antitetici. Gli assi si rivelano particolarmente fecondi nell’individuare logiche ricorrenti, coerenti e persistenti di organizzazione; nell’esplorare le declinazioni dell’apparato coreografico, prossemico e iconico; ma anche nell’apprezzare i momenti di rottura dell’ordine ideologico prevalente. Un’analisi dell’orizzontalità e della verticalità prodotte dall’organizzazione sociale (e dalla sua rappresentazione) permette di sondare le risposte storicamente e culturalmente specifiche date a interrogativi umani: quali sono i tratti ricorrenti delle organizzazioni che tendono ad assumere una geometria orizzontale rispetto a quelle propense a un’impostazione verticale? Costituiscono ordini compatibili, ibridabili o alternativi? Come si trasforma l’uso degli assi quando c’è uno sconvolgimento dell’ordine politico? Le risposte a queste domande iniziali sono necessariamente elaborate con riferimento a particolari contesti e circuiti sociali, ma possono contribuire a mettere a fuoco una questione di portata antropologica, ovvero estendibile a tutte le forme dell’umano: l’uso degli assi geometrici per strutturare ed esibire relazioni di potere.
Orizzontale e verticale sono opzioni che disegnano alternative logiche: una collocazione delle persone presenti sullo stesso livello oppure una disposizione delle parti sociali in base alla loro altezza. L’assetto spaziale consente di costruire, regolamentare e rendere manifesto il potere e il valore degli attori sociali, individuali o collettivi, che interagiscono nella parità di rilevanza di tutti i presenti oppure all’interno di una gerarchia istituzionalizzata. I contesti che tendono a privilegiare disposizioni orizzontali rivelano al contempo un moto libero e quindi parzialmente caotico delle parti, ma anche azioni collettive coordinate attraverso figure piane, principalmente il cerchio. Sistemi sociali gerarchici usano invece primariamente la dimensione verticale, distinguendo, a volte in maniera graduata, chi sta in basso da chi sta in alto: la collocazione in altezza esprime il rango di ciascuno mediante posture corporali, coreografie rituali, metafore della società, opere d’arte, strutture architettoniche (piramidi, palchi, balconi, pulpiti, cumuli di terra cotta al sole, scalinate, tribune, luoghi di culto, monumenti) e un’infinita serie di oggetti associati a posizioni apicali (troni, statue, portantine, carri, bighe, sedie mobili, corone). Sotto e sopra appaiono, a un primo approccio, come polarità simmetriche, ma un’analisi più attenta mostra che alto e basso sono usati nei diversi circuiti culturali per esprimere lo squilibrio valoriale delle parti che interagiscono. L’asse verticale è ricorrentemente associato a un’attribuzione differenziata di prestigio: quello che viene elevato è la parte, l’oggetto, la persona che è riuscita a rendere egemonica, ovvero socialmente introiettata e accettata, la sua preminenza e rilevanza, la sua accresciuta importanza e reputazione, in breve il suo valore. Le polarità alto/basso istituiscono e rivelano collocazioni politiche dicotomiche, distinguendo il sovrano dai sudditi, la carica istituzionale dai cittadini, in breve chi governa da chi è governato. La rassegna di immagini che ci apprestiamo a esaminare mostra che l’espressione simbolica del comando si concretizza nello stare sopra la massa.
La collocazione degli umani nello spazio è sia operativa, posizionando ciascuno al suo posto, che normativa, producendo un senso socialmente condiviso su come debba essere concepita la differenziazione sociale e quindi su quali siano i meccanismi attraverso cui gli elementi costitutivi (gli individui ma più spesso i gruppi parentali, i ceti sociali, le caste, le corporazioni professionali, le unità residenziali) debbano generare un’unità capace di includere le diverse componenti e al tempo stesso di trascenderle in un’identità collettiva. Le rappresentazioni del corpo sociale nello spazio (la sua forma, le sue caratteristiche, le parti che lo compongono e la loro disposizione) non sono quindi solamente un’illustrazione dei rapporti esistenti tra esseri umani, ma hanno quasi sempre una dimensione imperativa e morale, ovvero illustrano qual è la collocazione appropriata per ciascuno, come le diverse categorie sociali sono tenute a comportarsi affinché si possa generare una prosperità generale.
I dispositivi di differenziazione sull’asse verticale, oltre che una dimensione simbolica legata alla costruzione coreografica della disuguaglianza, investono questioni operative e prospettiche. Con riferimento all’aspetto funzionale è evidente il vantaggio dello stare in una posizione rialzata nei combattimenti. La forza del colpo sferrato viene amplificata dalla posizione dominante, sia in conflitti tra eserciti che in scontri tra singoli, sul campo di battaglia come in duelli privati. Questo vantaggio strategico si esprime e si struttura nel sistematico tentativo di assicurarsi la posizione elevata nei combattimenti. Le fortificazioni che si sono succedute nella storia degli insediamenti umani hanno avuto questa evidente funzione negli assedi, mentre il cavallo ha permesso di elevarsi anche nelle contese individuali [Flori 1999]. La superiorità operativa del posizionamento rialzato in momenti di scontro è evidente e trans-culturale; questo vantaggio pratico si intreccia con e alimenta la simbolizzazione della gerarchia. Nella tradizione europea torri e castelli diventano spesso icone negli stemmi nobiliari, mentre la collocazione equestre è un’espressione di verticalità diffusa e tenace che esprime al contempo un rango e un’accresciuta violenza potenziale: il significato di «cavaliere» copre la gamma semantica che va dalla funzione operativa del soldato a cavallo a cariche nobiliari, che si sono trasformate oggi nell’onorificenza repubblicana di «cavaliere del lavoro». La statua o il dipinto del prode a cavallo, spesso in veste di condottiero, nata in contesto euro-asiatico classico, diventa un topos che attraversa l’intera storia europea e del Vicino Oriente, per ergersi negli ultimi secoli a icona globale: il monumento al valoroso, innalzato oltre che dal piedistallo anche dal cavallo, è una figura fondativa ma anche persistente della rappresentazione scelta dai potenti [V.Eq]1. Come vedremo, i simboli pubblici di verticalità nei momenti insurrezionali saranno bersagli ricorrenti della rabbia di chi sta in basso (vedi capitoli 3 e 4).
Quella prospettica, ovvero chi e cosa viene reso percettibile, è la seconda dimensione rilevante che si intreccia con insistenza alla simbolizzazione della disuguaglianza sull’asse verticale: le diverse strategie di distribuzione della visibilità palesano e producono la distribuzione differenziata del rango. Una prospettiva verticale presuppone che una persona o un gruppo ristretto, apice di potere e valore, diventino centrali, sia nella produzione artistica – in statue o dipinti – sia nella coreografia rituale, in cui spesso occupano l’unico luogo su cui si possono concentrare gli sguardi della massa sottostante [vedi figure V.Iz]. La distinzione di valore tra quelli che governano e quelli a loro sottoposti è quindi costruita anche in termini di scarto di visibilità. Nella logica gerarchica le figure dominanti spiccano perché esprimono il valore del gruppo, sintetizzano e incorporano la dimensione collettiva e quindi sono al centro dell’attenzione nei contesti pubblici e rituali. Lo sguardo di chi sta in alto e in basso genera prospettive disuguali: dall’alto si osserva e si monitora la plebe nel suo insieme; questa, invece, vede chi sta in alto, ma riesce a osservare solo una piccola parte della folla in quanto non ha la visione d’insieme di colui che si è elevato verticalmente. Il cerchio orizzontale al contrario distribuisce la visibilità secondo un preciso criterio di equivalenza: ognuno deve poter vedere tutti gli altri ed esser visto da questi; oltre a essere espressione di uguaglianza, la circolarità è funzionale alla presa di decisioni assembleari in quanto permette comunicazioni faccia-a-faccia tra tutti quelli che sono convenuti all’assemblea. Queste divergenti opzioni sono ricorrenti nelle forme di organizzazione umana, implicano diverse logiche e generano il loro vocabolario e le loro immagini. L’uso simbolico degli assi per esprimere e reificare uguaglianza e disuguaglianza è quindi intrecciato evidentemente ad aspetti funzionali e strategie di visibilità. Un saggio romanzato ambientato nella Grecia classica contiene un passaggio che bene esemplifica la commistione delle tre dimensioni nella verticalità:
«In guerra noi nobili combattiamo sul carro tirato da cavalli veloci e forti, alti come colline sulla folla dei guerrieri appiedati; di lì possiamo vedere il punto in cui accorrere; l’auriga regge le redini e il guerriero impugna la lancia [Guidorizzi 2016: 31].»
Sebbene orizzontalità e verticalità abbiano implicazioni militari e prospettiche, nel resto del testo daremo priorità alla lettura degli assi come modi per esprimere e simbolizzare logiche di organizzazione sociale del valore.
Flussi di sostanze materiali e immateriali legano ciò che sta in basso e in alto nei contesti verticali, o circolano orizzontalmente in quelli egualitari secondo principi di reciprocità che regolano, ad esempio, lo scambio di regali tra amici e familiari oppure il movimento dei coniugi nei sistemi matrimoniali associati al totemismo. L’uguaglianza valoriale produce relazioni simmetriche, ovvero le parti che interagiscono hanno ruoli analoghi (i doni ma anche il rispetto vengono offerti e ricevuti), mentre dinamiche relazionali strutturalmente asimmetriche (comando, controllo, sottomissione, riverenza) sono tendenzialmente assenti; si possono immaginare le relazioni a parti invertite senza che ciò provochi uno scandalo culturale. Nei sistemi gerarchici, invece, i flussi sono unidirezionali: gli inchini, il rispetto, le suppliche, l’attenzione, le tasse, la fedeltà, l’ubbidienza e la cura servile sono indirizzate da chi sta in basso verso l’alto; l’impegno a proteggere, la promessa di abbondanza, la comunicazione di decisioni arbitrarie con ripercussioni collettive, la coreografia e la retorica pubblica, la pietà, ma anche il comando, l’ottusità, i rimproveri, le punizioni, la violenza e la rabbia, sono abitualmente diretti dall’alto verso chi sta in basso. L’asimmetria della collocazione sull’asse verticale è resa evidente dal fatto che non si possono immaginare le stesse interazioni a parti invertite: è la gerarchia di valore politico e sociale, economico e professionale, a stabilire che ruolo si può giocare nel rapporto. Graeber [2013b: 42] nota che il bisogno di interpretare l’umore di chi si ha di fronte è indispensabile solo se le relazioni sono di parità o se si è in una condizione di inferiorità (in conseguenza al genere o all’età in ambito domestico patriarcale oppure allo status in istituzioni pubbliche o aziendali); i superiori possono utilizzare la violenza o la minaccia per piegare il volere del subordinato, il lavoro interpretativo o comunicativo può quindi essere ritenuto superfluo:
«All’interno delle relazioni di dominio sono in genere i subordinati quelli a cui tocca il lavoro di comprendere effettivamente come funzionino le relazioni sociali […]. Il risultato è che chi sta in fondo alla scala sociale dedica parecchio tempo a immaginare le possibili prospettive di chi sta in cima (preoccupandosene sinceramente), mentre il caso opposto si dà molto raramente.»
La messa in crisi di questi flussi prestabiliti indica lo sgretolamento di un ordine gerarchico.
Il nesso tra uso dello spazio e strategie di gestione del potere è noto agli studiosi ed evidente a chiunque. L’ipotesi avanzata in questo testo è che orizzontalità e verticalità esprimano logiche organizzative alternative: una ricognizione del loro uso nella storia e nelle culture ci permette, da un lato, di prendere in rassegna la diversità delle loro espressioni, dall’altro di confrontarle alla ricerca di regolarità e ricorrenze. Se tutte le relazioni si inscrivono e si esprimono nello spazio, non sorprende che quelle politiche utilizzino i due assi, quello verticale (distinguendo chi sta in alto da chi sta in basso) e quello orizzontale (ponendo tutti sullo stesso livello) per definire e aggiornare il potere e il valore delle parti. Elaborando questo libro, quello che mi ha più sorpreso è che non fosse già stato scritto2.
Tre concetti, due logiche, infinite prassi ibride
In questo tentativo di sistematizzazione dei modelli di organizzazione sociale e politica e dei loro usi dello spazio, individuo quindi due logiche di ordinamento, quella orizzontale e quella verticale. In certi contesti, una delle due diventa prevalente, pervade diversi ambiti, si erge a principio morale condiviso e si manifesta con coerenza. In altri, le due logiche convivono, contrapponendosi o ibridandosi, sia quando si bilanciano nella gestione di uno specifico ambito, sia quando distinguono gli ambiti in cui prevale una e quelli in cui prevale l’altra. In altri ancora, c’è una dissonanza tra la logica pubblicamente dichiarata e quella effettivamente praticata (capitoli 4 e 5).
Nell’esplorare orizzontalità e verticalità mi soffermo sull’intreccio di tre dimensioni della relazionalità umana: la concettualizzazione della diversità; l’attribuzione del valore; la distribuzione del potere. La tesi di fondo è che, quando le società adottano prevalentemente una logica, mostrano una certa coerenza nel combinare questi tre aspetti. Il nesso tra valore e potere è abbastanza evidente: se si riesce a imporre socialmente la convinzione che ci siano persone che valgono più delle altre, ne consegue che queste abbiano un peso maggiore nel prendere le decisione collettive; se si riesce a far accettare al corpo sociale che una persona ha un valore incommensurabile rispetto al resto del tessuto sociale, ne risulteranno forme organizzative monarchiche o dispotiche. Il nesso tra valore-potere e strutturazione dell’identità è poco esplorato dalla letteratura, ma esiste, a mio avviso, una documentazione sufficientemente solida per mostrare che la concezione dell’identità in contesti orizzontali abbia tendenzialmente caratteri distinti dalle sue espressioni verticali.
Identità. Distinguo una concettualizzazione delle identità che pone l’enfasi sulla singolarità e sulla dimensione performativa da una che invece sottolinea la categorizzazione degli individui in gruppi e che presuppone che tali raggruppamenti siano accomunati da una essenza. Uno degli autori che ha spiegato meglio queste diverse opzioni di intendere le identità è Turner [1969: 177], contrapponendo due modelli, quello della struttura e quello della communitas:
«Una […] è una società intesa come una struttura di posizioni, incarichi, status e ruoli giuridici, politici ed economici in cui si può cogliere l’individuo solo ambiguamente dietro la sua persona sociale. L’altra è una società come communitas di individui concreti e idiosincratici che nonostante siano diversi per dotazione fisica e mentale, sono ritenuti uguali per ciò che concerne l’umanità condivisa. Il primo modello è quello di un sistema differenziato, culturalmente strutturato, segmentato e spesso gerarchico di posizioni istituzionali. Il secondo presenta la società come un insieme indifferenziato e omogeneo, in cui gli individui si confrontano integralmente senza essere inquadrati in status e ruoli.»
La seconda concettualizzazione dell’identità si limita a constatare la diversità degli esseri umani: ogni membro della nostra specie ha specifiche caratteristiche corporee e caratteriali; ognuno ha competenze e carenze. L’identità in tali contesti consiste nel riconoscimento delle peculiarità soggettive; non sono assenti fenomeni di categorizzazione delle appartenenze, legati ad esempio al genere o all’età, ma nel complesso circolano meno etichette identitarie (parentali, etniche, professionali, burocratiche) e hanno una minore pregnanza nella vita individuale. Spesso l’accento sull’unicità degli esseri umani si accompagna a una caratterizzazione fluida dell’identità: la condotta personale produce affiliazioni transitorie che non si cristallizzano in un ruolo; in questa lettura le caratteristiche attribuibili al singolo cambiano in base al contesto e alle abitudini in quanto la persona si trasforma in base a come e con chi agisce. Inoltre, questa logica permette l’ibridazione identitaria: il singolo può sovrapporre vari schemi di comportamento, alternandoli nel corso dell’esistenza, attivati e occultati in base alla situazione. Una tale concettualizzazione duttile dell’identità è quindi principalmente fondata sulla singolarità performativa: si è ciò che si fa. In tali contesti, le identità collettive si fondano sulla temporanea convergenza delle condotte dei singoli: il riconoscimento di una comune appartenenza è restio a essere ridotto a stereotipi, in cui si immaginano spiccate conformità culturali, ed è irriducibile a sistematizzazioni dicotomiche, con identità percepite come presenti o assenti, senza la possibilità di sfumature intermedie. Questo tipo di identità che enfatizza la peculiarità personale generata nel fare è, come mostrerò in seguito, la logica che tende a prevalere nei contesti egualitari.
Un modo per certi versi antitetico di intendere l’appartenenza consiste nell’enfatizzare un’identità concepita come appartenenza a categorie collettive accomunate da presunte essenze condivise fondate su diversità immaginate come «naturali» o sancite in ordini divini. In questa concezione, l’individuo è sussunto in classi definite secondo gli schemi tassonomici in vigore nel contesto culturale. Vengono arbitrariamente associate regole di condotta, aspettative esistenziali, nessi simbolici e un’impari attribuzione di valore su alcune differenze costitutive degli organismi umani, ad esempio l’ordine di nascita o il sesso [Bourdieu 1972]. Ad esempio l’ancestralità, ovvero l’immaginario che riguarda chi sono e ciò che hanno fatto gli antenati di un certo gruppo sociale, genera distinzioni abbastanza rigide tra linee di discendenza aristocratiche e popolari, tra etnie e tra caste, fondate spesso su arbitrarie genealogie storiche. I raggruppamenti vengono visti come espressione di qualità intrinseche alla stessa natura della specifica classe sociale; quindi le caratteristiche attribuite a una categoria vengono spesso proiettate su tutti quelli ritenuti appartenenti a essa. Quando l’affiliazione al gruppo prevale sul riconoscimento delle specificità individuali, l’identità collettiva tende a irrigidirsi e a presentarsi come se fosse pura, nettamente definita. Questa prospettiva identitaria è spesso promossa da istituzioni verticali che amministrano il corpo sociale attraverso una differenziazione dei governati in categorie, definendo con nettezza le appartenenze, codificandole e gerarchizzandole3. Oggi le tecniche burocratiche di classificazione statale hanno raggiunto una minuzia senza precedenti che permette una precisa categorizzazione di ciascuno in base a titolo di studio, procedimenti penali, classe di reddito, professione, residenza, nazionalità, credo religioso, etc. in base a quelle che Bourdieu [1994: 13] chiama «forme statali di classificazione». In questi contesti si tende a negare sia l’ibridazione, la compresenza di identità anche contraddittorie, sia il flusso, la trasformabilità della propria persona sociale.
Lo spettro di concettualizzazione dell’identità, per come è intesa in questo saggio, è quindi compreso tra il riconoscimento dell’irriducibile molteplicità, frutto della peculiarità performativa di ogni essere umano, da un lato, e l’inclusione stereotipata dei singoli in classi concepite come dotate di una loro essenza, dall’altro.
Valore. Se in buona parte della letteratura, da Marx in poi, il valore è stato inteso in relazione alla produzione e al commercio di risorse, qui il focus è piuttosto sulle dinamiche sociali, quindi su come la costruzione di criteri di rilevanza porti ad associare prestigi diseguali alle identità. Non mi interessa tanto la costruzione dei valori di per sé, ma il loro utilizzo nel plasmare relazioni e in particolare rapporti politici che si esprimono anche attraverso la collocazione spaziale. Distinguo un’attribuzione di valore incommensurabile e quindi paritaria da una segnata dalla disuguaglianza in cui le categorie sociali sono ordinate per rango.
Lo spettro antropologico di attribuzione del valore mostra che le persone e le categorie sociali (maschi/femmine; anziani/giovani; locali/migranti; etc.) possono essere considerate complementari, senza essere organizzate gerarchicamente. Il valore di identità soggettive, individuali, concerne l’apprezzamento del singolo in un contesto in cui si percepisce che tutti hanno specifiche capacità e competenze, diverse da quelle degli altri; i gruppi affiancano i valori incommensurabili dei singoli. Howell [1985: 179; cfr. Chua 2015: 346] sostiene che «l’uguaglianza […] può essere un principio strutturale per ordinare le relazioni, e un valore […]. L’enfasi è sempre su riconoscimento, separazione, giustapposizione». La configurazione egualitaria viene resa manifesta nella disposizione orizzontale delle parti e salvaguardata da continue spinte centrifughe che generano una molteplicità di poteri, incompatibile con sintesi politiche unitarie.
La configurazione verticale tende ad attribuire valore non tanto al singolo quanto alla classe di appartenenza in cui viene categorizzato. Sulla differenza si innestano paradigmi valoriali che ordinano lo status generando disuguaglianza. Le doti riconosciute come centrali nell’attribuzione di valore variano in base al contesto culturale: c’è chi esalta, ad esempio, la purezza spirituale, mentre in altri circuiti si celebra la razionalità gestionale, l’intelligenza politica, l’abilità oratoria, il coraggio guerriero. La diversità smette così di essere concepita come apprezzamento delle singole capacità e viene vista piuttosto come dislivello di importanza: la specificità viene trascesa da criteri che rendono alcuni migliori di altri. Se il valore si concentra in certe categorie, altre vengono, conseguentemente, considerate inadeguate, meno utili, impure, poco rilevanti, marginali e incompetenti: si nega, minimizza, declassa, sminuisce le qualità di molti per esaltare la rilevanza e il merito di certe posizioni presentate come indispensabili per il benessere dell’intero gruppo. Gli ordini sociali così costituiti (caste, schiavi, lignaggi aristocratici, donne, anziani, etc.) sono differenziati nella valutazione condivisa della loro moralità, capacità, importanza. Le relazioni diventano in molti casi rigidamente asimmetriche. Diventa difficilmente concepibile l’inversione di ruoli sociali se non in momenti rituali e codificati: la reverenza fatta dalla moglie al marito o l’ordine dato da un sovrano a un suddito sono azioni culturalmente impensabili se invertiamo le parti. La configurazione verticale del valore tende a essere esplicita e coerente: la disparità degli esseri umani è dichiarata in leggi, trattati filosofici, libri sacri, miti, rituali, ed è spiegata con la diversità di presunte essenze connaturate alle diverse categorie sociali (le donne sono propense a stare in casa, gli schiavi sono inclini a lavori di fatica, certe stirpi hanno l’attitudine al comando, etc.).
Il valore declina quindi ogni identità nello spettro che va dal riconoscimento di una pari dignità a ogni diversità, alla concentrazione dei paradigmi valoriali in certe classi o persone, con il conseguente misconoscimento dell’importanza di chi viene devalorizzato.
Potere. Se il valore riguarda la dimensione concernente l’apprezzamento e l’importanza, il potere, nel suo complessivo dispiegamento, è la sua coerente messa in opera, nonché il fondamento della riproduzione dell’apparato valoriale. Il potere è capacità di condizionare, di influenzare, di plasmare i destini; deve quindi essere tendenzialmente coerente con la strutturazione valoriale. L’obbedienza dei subordinati è ottenuta tramite una miscela – variabile nel tempo e nello spazio – composta dalla capacità di indirizzare la lettura del mondo e dalla repressione violenta di condotte e parole che minano l’ordine stabilito. Il potere in alcuni contesti si esplicita in istituzioni predisposte all’utilizzo della forza ed è evidente in forme di coercizione esplicita. Eppure, nello scorrere della vita quotidiana il suo impatto principale è la capacità di dare forma e contenuti alle credenze, di sedimentare abitudini, di diffondere canoni e narrazioni, di creare un senso del limite alle aspirazioni di ciascuno agendo oltre l’ambito che siamo abituati a concepire come «politico». La dinamica culturale è plasmata da continui condizionamenti che vedono tutti protagonisti, sebbene con una capacità di influenza ben diversa.
In questo saggio ci interessa la distribuzione del potere nel corpo sociale, ovvero se la capacità di esercitare influenza sia concentrata o diffusa. In alcuni contesti c’è una tendenza alla diffusione e frammentazione del potere e quindi a una distribuzione tendenzialmente egualitaria della capacità di condizionamento: ogni individuo esercita un potere pressoché equivalente a quello che subisce. Esemplificativa della pratica di un’organizzazione egualitaria è la descrizione fatta da Descola [1993: 56] della costruzione collettiva di una capanna da parte di alcuni uomini convocati da Titiar, in contesto amazzonico, in particolare tra gli Jivaro. Soffermiamoci sull’organizzazione del lavoro:
«Le varie mansioni sembrano essere ripartite spontaneamente e sembra che nessuno […] stia dirigendo l’iniziativa. Tutti questi uomini condividono le stesse abilità e sono quindi intercambiabili nella catena operativa. Ma rimango impressionato dal modo in cui funziona senza che sia necessario definire prima il ruolo particolare di ciascun uomo. Il fatto è che il modello gerarchico di divisione del lavoro industriale – in cui un ingegnere programma le operazioni che il caposquadra è quindi responsabile di far svolgere ai lavoratori – ci ha fatto dimenticare l’intreccio di antiche consuetudini formate nel processo di lavoro collettivo. Con ogni apparenza di spontaneità, ogni uomo è attento agli umori e alle azioni dei suoi compagni, precludendo così la necessità che qualcuno occupi una posizione di autorità.»
In altri, l’organizzazione sociale concentra sistematicamente l’influenza economica, politica, comunicativa, legislativa in certi snodi, persone, istituzioni, classi. Il potere viene scisso dalle dinamiche sociali e istituito come governo tirannico, monarchico o democratico. Sebbene Graeber e Sahlins [2017] ricordino correttamente che il monarca può essere una figura apicale esclusivamente simbolica e coreografica, senza necessariamente esercitare un potere sovrano, i contesti in cui ciò avviene sono spesso caratterizzati da un’evidente gerarchia sociale e da forme istituzionalizzate in cui, se il governo non è esercitato direttamente dal sovrano, è comunque diretto da un’élite amministrativa associata alla regalità verticale.
Organizzazioni orizzontali e verticali esprimono logiche diverse rispetto al rapporto tra individuo e collettività mediante la gestione di identità, valore e potere. C’è tendenzialmente una correlazione tra i tre aspetti che danno vita a due logiche alternative: quella orizzontale si può caratterizzare in maniera sintetica come la combinazione di identità percepite come singolarità performative, un valore paritario e un potere diffuso; quella verticale associa invece identità categorizzate ed essenzializzate, una distribuzione gerarchica del valore e una concentrazione del potere. Se si esamina la distribuzione storica delle logiche, la configurazione orizzontale caratterizza una maggioranza consistente delle società di caccia e raccolta, diversi contesti a economia pastorale e di agricoltura stagionale ed estensiva, ma riemerge con ostinata continuità in contesti sociali fuori dal controllo dello Stato, ed è caratteristica di molti dei movimenti sociali emersi nel corso dell’ultimo decennio (capitolo 6). La verticalità prende forma compiuta nei contesti ad agricoltura intensiva o commerciale, si consolida in istituzioni politiche centralizzate (a partire dai primi Stati mesopotamici, ca. 3000 a.C.) e si è progressivamente affermata su scala globale, in particolare dall’inizio dell’età moderna [Scott 2017]. Eppure non è la configurazione che caratterizza gli ultimi due secoli. Le democrazie liberali (capitolo 4) e gli Stati socialisti (capitolo 5) hanno attivato una combinazione ambivalente e contraddittoria di orizzontalità e verticalità, evidente nella mistificazione della propria configurazione valoriale e politica con retoriche egualitarie affiancate a una pratica gestionale fortemente gerarchica.
Sebbene una delle due logiche, in alcuni contesti storici e geografici, assuma una chiara preponderanza, sono entrambe tendenzialmente universali perché presenti, se non nella pratica, come opzione relazionale pensabile in qualunque contesto culturale. Ogni tessuto sociale tende ad avere, perlomeno in forma embrionale (ovvero in prassi culturali marginali, stigmatizzate, settoriali) e immaginifica (ovvero come concettualizzazione dell’alternativa utopica di una diversità desiderabile), la compresenza delle due logiche. Quando prevale in maniera evidente uno dei due modelli, quello minoritario viene marginalizzato, neutralizzato, circoscritto a specifici contesti periferici. Le società tendenzialmente egualitarie quasi invariabilmente mostrano forme di valorizzazione differenziate per genere ed età che si traducono in parziali accentramenti di potere. Le società strutturate sulla disuguaglianza gerarchizzata di identità essenzializzate lasciano spazi per il riconoscimento della singolarità, ambiti in cui è prevista la diffusione del potere e contesti in cui vige la reciprocità egualitaria. Le logiche non appaiono mai in maniera pura, nessun circuito culturale è il prototipo di orizzontalità o verticalità: «Il passaggio tra un modo politico gerarchico e orizzontale è quindi una danza ricorsiva che non ha mai fine» [Springer 2014a: 161].
Nella concreta realtà storica è comune l’accostamento e l’ibridazione di orizzontalità e verticalità in ambiti o contesti geografico-sociali separati ma interagenti. La documentazione antropologica mostra numerosi casi di trascendenze parziali, tentate, limitate, ambivalenti. Wengrow e Graeber [2015] sostengono che fin da prima della transazione neolitica e della formazione di istituzioni politiche centralizzate è evidente una gerarchia valoriale, ma è improbabile che fosse la logica prevalente4. La Roma classica mostra momenti di affermazione dell’apice imperiale ma anche periodi in cui le forze in campo comprendono istituzioni monarchiche rappresentate dai consoli, aristocratiche espresse dal senato e democratiche in nome del popolo [Caporali 2012: 35]. Nell’immagine che Machiavelli [1532: 68-76] offre del principe, la pulsione alla separazione della sua persona dal corpo sociale è incompleta: altri attori influenti, «il popolo», «i grandi» e «i soldati», contribuiscono a plasmare la sorte del principato. La documentazione storica ed etnografica mostra che forme di verticalità principalmente rituale convivono con poteri molteplici e centrifughi5. Se in alcune situazioni i due principi sono affiancati, benché in ambiti e con ruoli diversi che vanno armonizzati, in altre verticalità e orizzontalità occupano spazi geografici e sociali contigui ma distinti. Ogni circuito culturale costituisce quindi un amalgama particolare delle due logiche; sta all’antropologo, allo storico, al sociologo il paziente compito di registrare, nei diversi settori in cui le prassi relazionali si dispiegano, la forza delle tendenze orizzontali e verticali.
Uso delle fonti
Scegliere l’uso politico dello spazio come chiave per osservare le forme organizzative umane significa adottare un’ottica dichiaratamente parziale la cui fecondità va giudicata dall’utilità degli spunti che offre. Prendo in rassegna una documentazione in grado di scandagliare in profondità, nella sua ricchezza ed estensione, la storia (a partire da quella antica fino alla configurazione odierna del potere) e di esplorare nella sua ampiezza geografica la varietà culturale, utilizzando l’etnografia. Uso fonti interdisciplinari perché, man mano che procedevo, mi sono reso conto della vastità delle espressioni che collegano uso dello spazio e potere; di conseguenza il taglio antropologico si nutre di apporti storici e archeologici, di riflessioni architettoniche e urbanistiche, di analisi simboliche e semiotiche. Rispetto ad altre comparazioni ad ampio spettro delle figure politiche [vedi ad esempio Kantorowicz 1957; Niccoli 1979; Dumont 1977; Rigotti 1989; Caporali 2012], quella che propongo ha tre particolarità. Prima, la documentazione non è confinata, come in molti altri lavori comparativi, al contesto europeo, ma esplora la diversità umana, o almeno quella su cui si ha a disposizione una documentazione convincente. Seconda, cerco, per quanto possibile, di esplorare i sistemi simbolici egemonici e le espressioni di ordini alternativi non partendo dai testi dotti concernenti questioni teologiche, filosofiche, dottrinarie o giuridiche; ho scelto piuttosto di soffermarmi sulle forme di organizzazione effettivamente raffigurate e diffusamente praticate che non sempre – anzi quasi mai – coincidono con le rappresentazioni dell’avanguardia intellettuale. Terza, non mi interessa tanto puntualizzare l’esatta datazione della formulazione teorico-letteraria di nuove figure politiche quanto i cambiamenti ideologici di lungo periodo.
Tale taglio metodologico mi ha spinto, rispetto a opere comparative centrate sui testi, a prestare un’attenzione prevalente alle figure che illustrano la disposizione delle parti sociali all’interno di identità politiche collettive. L’analisi visiva rispetto a quella testuale consente di rimanere più vicini alle letture diffuse nel tessuto sociale: buona parte della documentazione presa in esame fa parte del vissuto ordinario delle varie componenti del corpo sociale. Quando, in mancanza di immagini, esamino testi (vedi ad esempio il capitolo 3), non mi soffermo sul pensiero di un letterato geniale ma sull’espressione scritta di forme utilizzate diffusamente. Un’antropologia politica per immagini è giustificata sia dal fatto che la comprensione del mondo passa imprescindibilmente dalle geometrie spaziali sia dalla chiarezza con cui queste rivelano la strutturazione prevalente delle relazioni di potere. L’analisi delle figure che propongo è abbastanza elementare e finalizzata ad affrontare le seguenti domande: come sono collocate le parti nella rappresentazione? Più nello specifico, come si collocano rispetto agli assi e quindi chi sta sopra e chi sta sotto? Quali sono i simboli che denotano l’identità, il potere e il valore degli elementi che compongono la figura?
Il testo sarà quindi accompagnato da continui rimandi a immagini in forma di sigle e numeri tra parentesi quadre. Le singole figure (dipinti, fotografie, sculture, icone, incisioni, acqueforti) a cui faccio riferimento nel testo sono classificate per categorie in buona parte organizzate sulla opposizione tra orizzontalità (declinata in assemblee [O.As], cerchi [O.Ce], danze [O.Da], movimenti sociali [O.Ms] e sulla simbologia verticale dei contesti orizzontali [O.Ve]) e verticalità (a sua volta declinata in ingigantimenti [V.In], innalzamenti [V.Iz], celestizzazioni [O.Ce], figure equestri [V.Eq], dispositivi mobili [V.Mo], inchini [V.Ic], forme di verticalità in riunioni circolari [V.Ci], nonché icone verticali finanziarie [V.Fi] e socialiste [V.So]). Le statue e i loro abbattimenti [St], i processi di livellamento [Li], l’uso degli assi nel corso della rivoluzione francese [Rf] e le rappresentazioni piramidali della società [Pi] costituiscono categorie a sé stanti perché illustrano la dinamicità e le ambivalenze della contrapposizione orizzontale/verticale.
È stato possibile includere nell’edizione cartacea solo una piccola parte delle numerose immagini che costituiscono l’imprescindibile documentazione a sostegno del ragionamento portato avanti in questo libro. Le raffigurazioni escluse sono visibili sul sito indicato a p. 4, divise in sezioni tematiche e identificabili attraverso la classificazione su esposta. Invito il lettore a prendere familiarità con il corpus di immagini che propongono percorsi visivi in grado di evidenziare convergenze trans-culturali nell’organizzazione spaziale del valore e dell’identità. In rari casi si farà riferimento a immagini coperte da copyright e quindi non riproducibili, per le quali si troverà un link in nota.
Come ogni tentativo di passare dai dettagli dei singoli documenti a generalizzazioni ambiziose, il percorso che mi propongo è rischioso. Esplicito quindi alcune cautele metodologiche. Perseguire questo progetto radicalmente comparativo mi obbliga a definire con estremo rigore ciò che viene confrontato e con quale prospettiva. L’oggetto della comparazione che segue rimanda alle disposizioni in eventi e alle raffigurazioni pubbliche del potere, del valore e delle identità: le geometrie risultanti sono osservabili nella cultura materiale (troni, portantine, palchi), nelle forme architettoniche (dimensione e forma degli edifici), nella disposizione delle persone nei raduni (danze, trionfi, udienze a corte, riti, incontri per «fare giustizia», parlamenti), nelle posture corporee (inchini), nelle raffigurazioni dei potenti (statue, dipinti) e, a partire dal Seicento, nelle stampe popolari e nella propaganda politica. Ho vagliato diverse centinaia di raffigurazioni in cui l’uso politico degli assi geometrici risulta particolarmente cogente; i singoli documenti vengono qui volutamente estirpati dal loro specifico contesto di produzione e utilizzo (mi limiterò a brevi cenni di contestualizzazione) per leggerli attraverso un’analisi comparativa come espressioni puntuali e tangibili di logiche trans-culturali. Questo approccio getta una luce inedita sulle ideologie e sulle prassi che ordinano la collocazione della differenza nella dimensione verticale e orizzontale sia per la facilità di lettura delle raffigurazioni sia perché certe opzioni coreografiche vengono riproposte in diverse epoche e luoghi.
Per capire ciò che segue è cruciale tener presente che per buona parte della storia il materiale artistico, archeologico e testuale disponibile è stato quasi sempre emanazione diretta del potere religioso e politico egemonico ed è stato in buona parte generato per legittimare l’ordine gerarchico esistente. I poteri centralizzati producono un’edilizia in grado di reggere il peso dei secoli, conservano le opere artistiche, archiviano e tramandano i testi, ma fino al Seicento sono esigue le tracce sugli immaginari politici che circolano in basso, ovvero tra quelli che esercitano uno scarso potere nella gestione della rappresentazione pubblica6. C’è quindi una scarsa documentazione sulla percezione e sulle aspirazioni politiche sia dei sottoposti all’interno degli Stati sia dei contesti orizzontali che hanno prodotto un’architettura e una cultura materiale di facile deperimento e tendono a essere orali; di conseguenza, la documentazione più ricca sulle relazioni orizzontali è quella offerta dai lavori etnografici.
Interrogativi a noi vicini, partendo da lontano
Le domande che legano questo testo riguardano i modi di usare politicamente lo spazio nelle diverse fasi storiche e in circuiti umani lontani dal nostro modo di vivere. Questo percorso ci permette di mettere a fuoco le peculiarità della nostra epoca, a cui sono dedicati gli ultimi tre capitoli. Ha senso guardare lontano per capire meglio ciò che ci sta vicino, ciò che facciamo fatica a vedere perché ci siamo immersi: corriamo il rischio di percepire l’esistente non per ciò che è (una particolare e transitoria forma culturale, contingente e modificabile), ma come un destino segnato, che ci spinge alla rassegnazione e alla passività. Vederci invece come un incidente storico e porre interrogativi di portata antropologica consente di percepirci come protagonisti attivi nella generazione di modi di vivere più vicini alla nostra morale.
Nel vagliare il materiale per questo libro mi sono sorpreso nel constatare che un’opposizione apparentemente banale, come quella tra orizzontale e verticale, pone nella sua messa in opera culturale interrogativi complessi, già emersi in diversi contesti culturali passati, ma che rimangono estremamente attuali: che tipo di ordine costituisce l’orizzontalità? Quali sono i suoi principi, i suoi spazi e i suoi meccanismi? Come possono convivere diversi ordini verticali, ad esempio quello politico e quello religioso? Che succede alle icone verticali erette per sostenere un ordine stabilito quando la folla vuole abbatterlo? Cosa significa sovvertire l’ordine verticale: ribaltarlo (mettendo in alto chi stava in basso, e viceversa) o annullarlo (adottando una prospettiva orizzontale)? Il rifiuto della verticalità rischia di cancellare l’identità collettiva, rappresentata in genere dal capo nelle organizzazioni gerarchiche? È possibile la creazione di verticalità innocue politicamente, in quanto concetti astratti (principi, valori, virtù) o proiezioni cosmologiche (divinità, elementi soprannaturali)? Quali sono i simboli elevati verticalmente dai contesti sociali che si dichiarano orizzontali nella contemporaneità?
Lo sguardo altrove, la perlustrazione di logiche culturali, vuole contribuire – e questo è forse il primo obiettivo del presente testo – a un percorso di ripensamento critico: la rassegna delle raffigurazioni dell’organizzazione politica permette di mettere a fuoco con più consapevolezza il dispiegamento del potere nella società contemporanea, andando a mostrare le rimozioni e le contraddizioni degli impianti giuridici e dei discorsi istituzionali. Esaminare altre forme di rappresentazione della società consente di adottare uno sguardo «esterno» sul nostro presente: l’organizzazione sociale contemporanea esprime una logica orizzontale o verticale? Quale peso hanno oggi orizzontalità e verticalità nella retorica politica e nella distribuzione effettiva del potere sia nelle democrazie liberali che nei governi socialisti? Rispetto alla verticalità politica e religiosa storicamente affermata, qual è il peso odierno di quella tecnologica e finanziaria? Quali dilemmi propone una forma organizzativa che sostiene formalmente di essere fondata su principi egualitari mentre accentua dinamiche di gerarchia verticale? Questi interrogativi offrono stimoli non solo per alimentare uno scetticismo e un’inquietudine già diffuse ma per concepire alternative possibili.
Note all’Introduzione
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In forma di bassorilievi troviamo tracce di re a cavallo, spesso con biga, nei primi Stati del mondo classico in Mesopotamia (Campagna militare assira nella Mesopotamia meridionale, VII secolo a.C.; Nineveh, Iraq, attualmente al British Museum, Londra), Egitto (Rilievo di Amenhotep III sulla biga; 1131-1353 a.C.; Tebe, Valle dei Re) e Vicino Oriente (Imperatore sassanide Khosro II con cavallo Shabdiz; 630 d.C.). Nella genealogia europea il topos comprende le raffigurazioni di Alessandro Magno elaborate da Lisippio, passando per migliaia di raffigurazioni guerriere e nobiliari tra cui Marco Aurelio, Carlo Magno, Cosimo I de’ Medici, Napoleone, fino a Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mussolini, il quale aveva fatto collocare una sua statua equestre nello stadio di Bologna [V.Eq.2]. Dal Novecento, oltre che nobili e sovrani, troviamo raffigurati a cavallo anche numerosi eroi nazionali e anticoloniali nei diversi continenti, tra cui Simón Bólivar in diverse nazioni sudamericane, Pancho Villa e Zapata in Messico, Menelik II in Etiopia, Gabriela Silang nelle Filippine, Rani di Jhansi in India e Diponegoro in Indonesia [figure V.Eq. 3-6]. Nel terzo millennio sono state erette ancora decine di statue equestri, spesso di eroi nazionali: ad esempio una raffigurazione di Genghis Khan alta 40 metri in Mongolia [figura V.Eq.7].↩
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I testi che forse più si avvicinano all’impostazione di questo libro sono i lavori di Rigotti [1989], Niccoli [1979] e Laponce [1981], ma sono strutturati su periodi storici e geografici più circoscritti e non centrati specificamente su orizzontalità e verticalità.↩
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John Comaroff [1987; cfr. Fusaschi 2000], ad esempio, ha sostenuto che il paradigma etnico, cruciale nell’identificazione e valorizzazione delle differenze in molti contesti, emerge per classificare disuguaglianze tra ampi settori sociali all’interno di circuiti politico-economici. In molti contesti si crea una cesura netta tra liberi e schiavi. La divisione professionale coatta genera, ad esempio, la suddivisione nei tre stati nella Francia dell’Ancien Régime e il sistema delle caste in India [Duby 1978; Dumont 1966].↩
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Credo che come scienziati sociali dovremmo avere la cautela di non pronunciarci sulle caratteristiche sociali e politiche delle società che lasciano scarse prove documentarie: una tomba particolarmente ricca non significa necessariamente che fossero consolidate dinamiche verticali, come invece sembrano concludere Wengrow e Graeber [2015]. L’impressione è che dove c’è una documentazione archeologica molto parziale si dovrebbe semplicemente ammettere di non sapere. Sul funzionamento dell’orizzontalità è molto più ricca e convincente la grande quantità di dettagliate descrizioni etnografiche [ad esempio, Montagu 1978; Lee, Daly 1999; Woodburn 1982].↩
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Una brevissima rassegna può dare un’idea delle possibili forme di affiancamento e ibridazione delle logiche in vari contesti politici. Pigafetta [1524-1525] illustra bene la presenza negli arcipelaghi del sud-est asiatico all’inizio del XVI secolo di forme di regalità trascendente e circuiti privi di capi, spesso associati al cannibalismo e all’assenza di una religione monoteista. Nel Madagascar del XIX secolo una spiccata verticalità rituale convive con assemblee, anche esclusivamente femminili, in grado di fare pressione, con diversa fortuna, sul potere centrale [Graeber, Sahlins 2017: 313]. Ahmed e Hart [1984: 5], con riferimento al Marocco, parlano di una «oscillazione, già consolidata e documentata nella seconda metà dell’Ottocento […] tra assemblee tribali egualitarie e ‘anarchiche’ nei piccoli ‘cantoni’ di montagna, organizzati in base al compromesso tra le esigenze segmentarie e territoriali, da un lato, e, dall’altro, gli uomini forti locali». Amborn [2019: 85] sostiene che nel corno d’Africa ci sia stata una coesistenza di ideologie «democratiche» e «monarchiche». Leach [1979: 242] nota che nella Birmania di metà Novecento, le comunità oscillavano tra centralizzazione ed egualitarismo: la polarità orizzontale era costituita da villaggi gumlao, visti dall’aristocrazia ereditaria come «schiavi plebei che si sono ribellati ai loro legittimi padroni».↩
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La questione che rimane aperta è quanto la coreografia verticale messa in scena per legittimare la gerarchia esistente fosse assorbita da chi stava in basso. Nelle scienze umane, egemonia è il concetto chiave per valutare quanto i messaggi emanati dai poteri dominanti fossero fatti propri dalla popolazione: in estrema sintesi, è la capacità di chi sta in alto di generare opinioni, interpretazioni, credenze nei subalterni funzionali al mantenimento dell’ordine sociale esistente. La scarsità di fonti per capire quanto gli immaginari di chi stava in basso fossero conformi ai voleri di chi stava in alto generano interpretazioni antitetiche. Dumont [1980: 295], ad esempio, sostiene che l’ideologia degli Stati precoloniali fosse parte di quelle che chiama società olistiche «che si percepivano basate sull’ordine delle cose, naturale come sociale; pensavano di copiare o elaborare le loro convenzioni secondo i principi della vita e del mondo». A sostegno della tesi di Dumont su una sostanziale accettazione dell’ordine gerarchico complessivo in diversi contesti storici e geografici, va sottolineata la rarità di ribellioni finalizzate all’affermazione di ordini egualitari rispetto a lotte dinastiche o guerre tra Stati. Il limite dell’impostazione di Dumont è che presuppone l’esistenza di un’unica ideologia per chi sta in alto e in basso. Scott [1990] sostiene invece la rilevanza dei «verbali segreti», ovvero pratiche discorsive e sovversive che resistono al dominio spesso clandestinamente: sabotavano le direttive statali ma raramente producevano dinamiche rivoluzionarie. La documentazione di Scott si riferisce principalmente al mondo europeo e nordamericano degli ultimi secoli quando, come vedremo (capitolo 2), la critica alla verticalità emerge prepotentemente e si rende ben visibile; prima di allora, probabilmente chi occupava il fondo delle varie piramidi sociali aveva una gamma differenziata di opinioni sull’ordine complessivo della società. Si può presupporre un rifiuto della verticalità fin dai suoi albori, magari marginale ma continuo, nei settori collocati ai livelli più bassi (ad esempio schiavi o servi di molti Stati classici), ipotizzando al contempo che queste aspirazioni orizzontali non siano arrivate fino a noi perché limitate nella loro portata e censurate nelle loro espressioni.↩