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Non puoi essere libero se neghi la libertà a tua moglie, a tua figlia, a tua madre

La nostra rivoluzione: voci di donne arabe

Zanaz

Cartaceo 12,35 € E-book 6,99 €
mer 05 ott 2022

 

Abnousse Shalmani, iraniana, vive a Parigi, dove la sua famiglia si è trasferita in esilio volontario nel 1995. Dopo aver fatto studi storici, ha scelto di fare la giornalista, la scrittrice e la cineasta. In italiano è uscito il suo libro Khomeini, De Sade e io.

Perché, secondo lei, la «rivoluzione» khomeinista è ossessionata dal velare le donne e dalla sessualizzazione del corpo dei bambini?

Forse non è solo la rivoluzione khomeinista a essere ossessionata dall’idea del velo, ma è l’intera tradizione islamista a esserlo. I mullah iraniani non sono tanto diversi dai Fratelli Musulmani. In realtà, tutte le religioni hanno delimitato il posto del corpo femminile nello spazio pubblico, ma nello spazio musulmano il corpo della donna è diventato un’ossessione. Quando i barbuti prendono il potere, la prima legge che votano è quella del velo obbligatorio. Come se il loro potere sia in pericolo finché il corpo delle donne gode di una qualche libertà. Inoltre, coprire il corpo di donne (e bambine) è anche il mezzo più visibile per farsi (ri)conoscere come musulmani. Ma a un livello più profondo, è l’inferiorità stessa della donna che viene attestata dal velo. Un’inferiorità politica, sociale e culturale. Le bambine devono indossare il velo non appena iniziano a frequentare la scuola, cioè a sei anni. Che cosa c’è di tanto pericoloso nel corpo di una bambina da coprirlo in quel modo? Di che cosa hanno paura? Coprendo le bambine come le donne, equiparando il loro corpo a quello delle donne adulte, il velo le sessualizza. Un corpo che deve essere coperto è un corpo che può ispirare la concupiscenza. Che cosa c’è di sessuato nel corpo di una bambina? Ed è proprio questo che mi disgusta nel far indossare il velo alle bambine.

D’altra parte, le donne velate sono tutte sessualizzate. Basta che si intraveda un pezzetto di pelle, o che un ciuffo di capelli sfugga ai veli neri, per provocare un’immediata reazione carnale. Volendo coprire di pudore la donna, i barbuti hanno sessuato a oltranza il suo corpo. L’oscenità del corpo femminile è tanto più visibile quanto più è coperto. Mistero e pericolo: ecco che cosa comunica il velo. Il velo confina la donna nella sfera privata, rende esplicita la sottrazione di diritti di cui è vittima, la riduce a solo corpo. Quando è imposto, il velo è una prigione. Quando è scelto, in taluni casi rimanda a credenze che negano i principi di parità, e in altri palesa un comportamento politico a sostegno di una visione tradizionalista e retrograda. In entrambi i casi le grandi sconfitte sono le donne. Anche quando lo scelgono.

La società mista è indissociabile dalla modernità?

Sì, mille volte SÌ! Vuol dire accettare all’interno della società tutte le sue componenti. La prima differenza è quella sessuale, e se non è compensata dal diritto, apre la porta a tutte le altre discriminazioni. Come si possono accettare due sistemi di cittadinanza in una società sana? Se le donne non hanno accesso agli stessi diritti e doveri degli uomini, come si può costruire qualcosa insieme? Io credo oltretutto che le società non miste siano spesso anche le più razziste. Guardate per esempio quello che succede quotidianamente in Egitto, dove in pieno giorno avvengono palpeggiamenti e violenze, per la strada o sugli autobus, a scapito di donne di qualunque età, con o senza velo. È la conseguenza diretta di una società dimidiata. Qualsiasi popolazione finirebbe per non riuscire più a distinguere il bene dal male in tali condizioni di separazione sessuale. È una forma di follia: quel corpo che mi è vietato fin dall’infanzia, quel corpo che da sempre rappresenta un pericolo, adesso è qui, a portata di mano, quasi offerto. Allora me ne approprio con la violenza. Vivere in società miste insegna a superare le differenze sessuali, a oltrepassare la concupiscenza, ad accettare l’Altro come essere umano. Insegna a capire che il corpo dell’Altro non è un interdetto, che quel corpo non è il tuo onore o la tua proprietà. Ti insegna a vivere libero. Perché non puoi essere libero se neghi la libertà a tua moglie, a tua figlia, a tua madre.

«Ero incapace di adattarmi, non volevo assomigliare a tutti gli altri, volevo essere nuda». Pensa che la nudità sia un atto rivoluzionario?

Non credo che la nudità sia un atto rivoluzionario di per sé: dipende dai contesti. È per esempio un atto rivoluzionario quando una giovane egiziana, Aliaa Elmahdy, posta una foto di lei nuda e la accompagna con un testo nel quale denuncia l’ipocrisia e la discriminazione della società egiziana, le cui parole finali sono: «Io ho un corpo» (e io sarei tentata di aggiungere: «Io ho un corpo politico»). La nudità contrapposta al velo, in paesi nei quali i barbuti riducono la donna al solo corpo, è un atto rivoluzionario. Una pubblicità con un corpo di donna nudo è una pubblicità, un corpo disincarnato. In questo non c’è niente di rivoluzionario. Viceversa, togliersi il busto all’inizio del ventesimo secolo, come si è fatto in Europa, liberare il corpo femminile permettendogli di mettersi in movimento, è stato un atto rivoluzionario. Poiché il corpo femminile è sempre stato vittima di interdetti, di regole discriminatorie, io direi che la nudità può essere un’arma per squarciare le tenebre. Nondimeno, la nudità non è di per sé un atto rivoluzionario.

Prendiamo in considerazione un piccolo particolare, che però ha la sua importanza: il Qatar, sotto l’egida della sorella del re, compra opere moderne e contemporanee per il suo futuro museo. È interessante notare che si rifiuta di acquistare i nudi… ma in questo modo occulta una parte della storia della pittura perché contrasta con le credenze e i pregiudizi locali. Eliminare i corpi delle donne dalla storia della pittura significa ancora una volta occultare la donna in quanto soggetto politico. E questo è un fatto tragico.

A proposito della sinistra iraniana lei ha affermato che si è dovuti arrivare all’isteria avvolta da veli neri perché finalmente si accorgesse che ormai da tempo non c’era alcun ideale democratico in quella folla astiosa, mossa da un nazionalismo esaltato, che urlava il proprio odio per tutto ciò che non era dolore e bruttura…

Il partito comunista iraniano, una delle principali forze di opposizione allo scià insieme ai nazionalisti (che non si erano mai del tutti ripresi dalla caduta di Mossadeq), avevano inizialmente appoggiato Khomeyni. Quello che li aveva fatti avvicinare era l’antimperialismo americano. Ma come ha fatto a essere tanto ingenuo da credere che i barbuti avrebbero poi condiviso il potere? Continuo a chiedermelo.

Ovviamente bisogna anche considerare il contesto in cui è avvenuta quella rivoluzione: la censura, la polizia politica (la Savak), le disparità economiche, l’esodo dalle campagne, la modernizzazione (che non si può fare in un giorno) e il bazar, il polmone economico e politico delle città. I religiosi hanno preso il posto dello Stato assistenziale, ovvero hanno dato da mangiare al sottoproletariato nato dall’esodo rurale e, quando la pancia è stata soddisfatta, sono partiti alla conquista dello spirito. Hanno ricordato l’importanza per gli sciiti dell’islam e del martirio di Hussein, ricamando una storia intessuta di eroi, sacrificio, indipendenza, paradiso, Dio e Satana. E sono riusciti a offrire un’altra prospettiva, un diverso punto di vista rispetto allo scià, sempre più detestato, il quale non ha saputo reagire politicamente per soddisfare le legittime rivendicazioni della popolazione. I comunisti, affascinati dal movimento di massa che i barbuti erano riusciti a sollevare, si sono accodati, convinti che il potere spettasse loro di diritto.

La rivoluzione dei mullah del 1979 è stata una rivoluzione come le altre: cause molteplici, innumerevoli errori, masse infatuate, unità fittizia. E subito dopo la guerra Iran-Iraq per consolidare l’insieme. I comunisti iraniani hanno finito per farne le spese: dopo la cacciata dello scià, sono stati giustiziati in massa dai barbuti.

Un corvo nero in metropolitana: come ha vissuto una scoperta del genere?

È stato un colpo tremendo. Ricordo ancora lo sbalordimento e la paura, d’altronde avevo solo otto anni. Eravamo appena andati via dal nostro paese natale con questa promessa incisa nel cuore: a Parigi, in Francia, non ci sarebbero più stati né barbuti né corvi neri, e nessuno mi avrebbe più rinfacciato di essere una donna. E invece eccola là una donna vestita come un corvo nero… Davvero non capivo perché mio padre mi avesse mentito. Per me il velo era legato a Khomeyni e alla sua rivoluzione, ovvero era legato al sangue e alle lacrime. Perché mai indossare il velo a Parigi, dove le donne erano esseri umani come gli altri? Ancora oggi – mentre i corvi neri sono sempre più visibili – ne resto sorpresa. E rattristata. Una donna che nel paese della Rivoluzione francese si copre con un chador in me richiama il paradosso di un uomo che, dopo la presa della Bastiglia, si consegni volontariamente per esservi incarcerato. Il velo è il simbolo della disuguaglianza tra uomini e donne. Non è solo un velo, ma sottintende una serie di convinzioni che sono incompatibili con la laicità e la democrazia. La legge islamica non può prevalere sull’ordinamento laico. Ed è grottesco che qualcuno sfrutti il tema della libertà per difendere un velo che instaura la discriminazione.

Oltretutto, il velo nello spazio pubblico gerarchizza la virtù delle donne. Se chi lo porta è una donna virtuosa, che dire di chi lo porta insieme a una gonna che lascia scoperte le cosce? Nei quartieri problematici è difficile per una donna sottrarsi al velo. Il timore di una cattiva reputazione riduce le donne a esseri trasparenti, a ombre furtive che devono proteggersi dallo sguardo degli uomini. Ma oggi il velo è soprattutto politico. È un modo per contestare la laicità e rivendicare il ritorno della religione nello spazio pubblico. Mentre il bello della laicità è proprio che nessuno può criticarti se professi una religione, o se non ne hai alcuna. Ognuno può credere e praticare, purché questo non ostacoli la convivenza. Il velo, viceversa, rappresenta la separatezza – come i genitori che proibiscono alle figlie l’accesso alle piscine miste o che vietano di disegnare figure umane – e la negazione dello spirito comunitario. Vi farò un esempio semplicissimo: quando sono arrivata in Francia, alla mensa scolastica che frequentavo i giorni in cui servivano carne di maiale era già possibile mangiare altra carne. Ma tutti gli scolari erano seduti alla stessa tavola, anche se non avevano le stesse pietanze. Oggi molte mense hanno eliminato la carne di maiale dal menù o hanno organizzato tavoli a parte per chi non la mangia. Mi pare un fatto pericoloso: dobbiamo mangiare tutti alla stessa tavola, anche se non mangiamo la stessa cosa.

Come giudica l’atteggiamento della sinistra francese nei confronti di barbuti e corvi neri, per usare le sue parole?

La cosa che la sinistra teme più di tutto è di essere tacciata di razzismo. Gli eventi seguiti all’11 settembre 2001 hanno riportato in auge la diffidenza verso gli americani, come se si dovesse prendere una posizione diversa dalla loro per essere credibili come persone di sinistra. Il problema è che barbuti e corvi neri l’hanno capito benissimo e a forza di discorsi condotti su un doppio registro sono riusciti a far credere a una certa frangia della sinistra che essere contro i segni esteriori di una religione equivale a essere contro quella religione. E questo è accaduto con il velo. Per questo non mi stanco di ripetere che io sono contro il velo e non contro la donna che lo indossa. Ma dopo l’11 settembre, se si criticano le derive dell’islam, si corre il rischio reale di essere accusati di islamofobia. Io mi rifiuto di usare questo termine. Quando assisto a un atto di evidente razzismo contro i musulmani, preferisco parlare di comportamenti antimusulmani. Mentre islamofobia è il termine utilizzato da barbuti e corvi neri per tacitare le critiche.

Di fatto la sinistra mi ha deluso: mi aspettavo che difendesse la mia libertà in quanto donna, che respingesse ogni discriminazione, che esaltasse la laicità e i suoi doveri. E invece la sinistra ha dato la parola ai radicali, agli estremisti, ai fanatici. Viceversa, non sentiamo mai la voce dei musulmani che professano la loro religione senza voler imporre le proprie pratiche nei luoghi di lavoro o nelle scuole frequentate dai figli. Ma perché non prendono la parola? Perché non provano a isolare i barbuti, che invece cercano continuamente l’occasione per creare differenze tra i cittadini? Spesso sento dire: «Quello che sta succedendo non ci riguarda, quelli sono degli estremisti, degli islamisti, non è l’islam». E io ribatto: «L’islam è anche questo». Proprio come l’Inquisizione è cristianesimo. Finché i musulmani non ammetteranno che l’islamismo è anche l’islam, si rifiuteranno di combatterlo, perché la cosa «non li riguarda». Eppure sono loro le prime vittime.

Al contrario, lei non vuole essere una vittima silenziosa della rivoluzione, della guerra e dell’esilio. Che fare allora?

Io ho scelto di scrivere. Ho scelto di rompere il silenzio. Sono convinta che ognuno, individualmente, debba fare una scelta. I musulmani che rifiutano i barbuti lo devono dire. Bisogna lottare ogni giorno per far prevalere una visione egualitaria. Io lotto come donna, come francese, come esiliata e oggi anche come scrittrice. Non c’è mai niente di acquisito, occorre essere vigili. Ecco come possiamo uscire dal ruolo di vittime, sopravvivere alla guerra e all’esilio: lottando.

Come scrive nei suoi libri, per lei l’ayatollah Khomeyni è solo un concetto da manipolare, un mistero da sondare. Ci può spiegare che cosa c’era di «così pertinente nel suo discorso da riecheggiare con tanta forza nella psiche degli iraniani, continuando a farlo anche a trent’anni di distanza»?

Khomeyni ha fatto vibrare il cuore del popolo iraniano perché gli ha restituito valore. Il suo nazionalismo era altrettanto forte della sua fede religiosa… La guerra contro l’Iraq è servita a rafforzare significativamente il suo potere. Lo scià era troppo legato agli americani, appariva come un fantoccio, e questo fatto era chiaramente percepito dalla gente. Khomeyni e i barbuti hanno promesso al popolo iraniano di farlo tornare al primo posto, gli hanno fatto credere che più si fosse avanzati nell’instaurazione della shari’a, più tutti sarebbero stati fieri e liberi. Che ironia! Ma oggi? Penso che sia l’assenza di un’opposizione ben strutturata a mantenere il regime al suo posto.

In che modo la letteratura libertina e il Marchese de Sade in particolare le sono serviti per analizzare l’oscurantismo islamico e combatterlo?

La letteratura libertina mette in discussione le figure del potere e i pregiudizi che le conservano al loro posto. E lo fa portando sulla scena uomini e donne avidi e ipocriti che assoggettano le persone. Tutta la letteratura libertina del diciottesimo secolo è attraversata dalla volontà di sottoporre a critica i pregiudizi e innescare un movimento in grado di trasformare i sudditi in cittadini. Io trovo questa visione particolarmente attuale, dato che si propone di dare ai sudditi l’unica arma che può renderli liberi: la Ragione. E per servirsi della Ragione, bisogna imparare a dubitare. Il che mette in questione tutte le religioni.

La cosa meravigliosa della letteratura libertina è che i suoi personaggi accompagnano il lettore lungo l’intero percorso, dandogli le istruzioni necessarie per accettare la libertà ed esercitarla pienamente. Tutto comincia sempre da un protagonista (spesso una protagonista) che coglie una conversazione o scopre un libro, e il suo mondo inizia a traballare. Gradualmente, guarda al mondo circostante con uno sguardo diverso. Capisce che gli interdetti sono solo le leve del potere assolutista, che i dogmi della Chiesa non sono applicati dal clero, che una libertà condizionata non è una libertà. Alla fine del romanzo, il protagonista è libero perché ha scelto. L’obiettivo di tutti gli eroi della letteratura libertina è l’esercizio del libero arbitrio. E questo è un qualcosa che si apprende a fare.

Voglio sottolineare l’importanza che riveste il corpo nella letteratura libertina. Corpo e spirito devono essere liberati insieme. Questa peculiarità era fondamentale per la bambina con il velo islamico che ero io. Il mio corpo (un corpo femminile) non era più osceno, pericoloso, costrittivo. Era libero e fiero, partecipe della Ragione. È per questo che ho bruciato una volta per tutte il velo che mi ero già tolto. L’esaltazione del corpo è un attacco frontale alla Chiesa – non dimentichiamo che avere un coito senza procreare era un reato…

Ma il Marchese de Sade è anche altro. È la letteratura libertina spinta al limite. È la radicalità assoluta. Non ho mai letto un altro autore simile a lui. La sua lettura ha fatto esplodere tutte le mie coordinate mentali. Bisogna oltretutto tener presente che l’opera di de Sade è nata dalla fantasia di un uomo rinchiuso in carcere per ventisette anni. Ciò che più mi affascina di lui è la volontà di rimettere tutto in discussione. Questo rifiuto di ogni credenza configura una libertà totale, e de Sade si spinge così lontano da costringerti a fare scelte radicali. Per esempio mi dico spesso che è grazie a lui se io sono totalmente contraria alla pena di morte, anche nei casi che sembrerebbero i più giustificabili. Perché leggere de Sade significa confrontarsi con il peggio, guardare in faccia l’orrore, ma significa anche riflettere su che cosa sia un cittadino, su che cosa sia una scelta.

Tra l’altro, non si può ridurre de Sade alle Centoventi giornate di Sodoma! Bisogna leggere anche La filosofia nel boudoir e le avventure delle due sorelle, Justine e Juliette. Non sono libri che si leggano per diletto; piuttosto, aiutano a risciacquare il proprio modo di pensare, a misurarsi con un pensiero talmente estremo da importi una riflessione sulla stessa condizione umana.