A Carrara senza i CC
Libro
Il piano aperto
Doglio
Cartaceo 16,15 € E-book 7,99 €
mer 25 ott 2023
Tratto da A rivista anarchica anno 28 nr. 243 marzo 1998
Architetto, urbanista, docente universitario. E anarchico. Carlo Doglio (1914-1995) è stata una figura originale ed importante in campo libertario. Ecco la testimonianza di uno degli esponenti più qualificati dell’architettura contemporanea, che gli fu compagno e amico
Io non ho preparato il mio intervento, anche perché ho immaginato che se Carlo Doglio mi avesse invitato a un suo seminario - come del resto ha fatto spesso - non si sarebbe mai aspettato che io mi preparassi in anticipo. Vorrei aggiungere che non ho intenzione di commemorarlo; prima di tutto perché è già stato commemorato molto affettuosamente, da tutti quelli che mi hanno preceduto e poi perché io con Carlo Doglio ho sempre scherzato, con lui mi sono fatto molte risate; ci siamo molto divertiti insieme, sempre: perciò ora mi sembrerebbe strano, e anche irriverente nei suoi confronti, di mettermi a commemorarlo. Preferisco raccontare qualcosa di come l’ho conosciuto e di come ci siamo frequentati; in fondo, fino a poco tempo fa.
Carlo l’ho conosciuto a Milano nel 1943. Io facevo parte di un gruppo antifascista che in quel momento era impegnato nell’area milanese. E un giorno, nella casa dove avevamo base nascosta, è arrivato Carlo con sua moglie Diana. I due personaggi erano molto curiosi: lui piuttosto alto, capelli molto lunghi, aria molto intellettuale, diafano - a quel tempo era diafano. Invece Diana era forte, vitale, sportiva, e tra l’altro campionessa nazionale di pallacanestro, quindi donna di perfetta forma. I due personaggi insieme erano strani perché asimmetrici ma complementari; opposti e corrispondenti.
Fin da quando ci siamo visti la prima volta abbiamo cominciato a discutere, con la diffidenza reciproca che in genere tutti e due avevamo in quelle circostanze. Poi abbiamo cominciato a comunicare e io sono rimasto colpito - del resto anche Giuliana, mia moglie - dalla vitalità che i due nuovi personaggi portavano nel nostro gruppo; proprio perché erano diversi.
Più tardi ho potuto conoscere meglio le qualità di Carlo e Diana Doglio, anche perché dopo un primo periodo, nel quale ci vedevamo ma non di continuo, è successo che sia io che Giuliana dovessimo prendere aria, uscire dal gruppo per qualche tempo perché ricercati dalla polizia nazifascista; perciò ci siamo rifugiati in casa loro, in via Rutilia a Milano. La casa era in un piccolo edificio di appartamenti in affitto e la stradina era nella estrema periferia, al limite di Milano, dopodiché c’era campagna. La situazione era delle più strambe perché noi eravamo segreti, clandestini e dall’altra parte della strada, proprio di fronte, c’era un bordello frequentato da ufficiali tedeschi e fascisti. Noi ci facevamo vedere il meno possibile e lo stesso facevano gli ufficiali che andavano e venivano dal bordello. Era una circostanza paradossale e per questo anche divertente, come tutte le situazioni in cui mi sono trovato con Carlo durante il lungo corso della nostra frequentazione.
Man mano che l’ho conosciuto meglio, sono venute fuori alcune delle sue particolarità, che io continuo a considerare grandi qualità. Era un personaggio curioso, inquieto, sempre insoddisfatto, insoddisfatto di quasi tutto. Cercava sempre di andare al di là, di andare di fianco, o sotto o sopra, perché le cose che cercava, quando stava per raggiungerle, smettevano di interessarlo. Era un personaggio un pò démodé, ma così era stato anche quando aveva 25 anni, quando io l’avevo conosciuto. Aveva cadenze ottocentesche che un pò gli erano congeniali e un pò le coltivava con autocompiacimento. Ci siamo fatti molte risate su queste cadenze; quando tirava fuori parole e modi di dire che non avevano più corso né senso. Lui ci si adagiava sopra e così diventavano occasioni di ridere di lui, che veniva gettato in un divertito sgomento. Perché un altro dei suoi caratteri più gradevoli era di avere spiccato senso dell’humor: era pronto a ironizzare e a ridere su qualsiasi cosa si dicesse e tutto diventava divertimento intellettuale, sottile divertimento intellettuale.
Irrequieti, non inquadrati
Oltre quelle che ho detto aveva altre qualità che ho sempre considerato preziose. La prima è che non aveva il pregiudizio dei confini disciplinari; e questo mi ha sempre interessato molto. L’altra sua qualità era di avere il gusto di dire sempre le cose come stavano, il gusto terroristico di dire la verità. Si tratta di una virtù singolare che in genere non porta successo. Molto è amato chi dice mezze verità, ma la verità intera, quelle poche volte che esce, appare proprio insopportabile. A lui piaceva, proprio con gusto terroristico, di dire la verità, di scoprire le situazioni così com’erano e poi di riderci sopra perché subito prevaleva il suo senso dell’humor.
Le qualità molto particolari del personaggio Carlo Doglio mi hanno dunque molto interessato per tutto il periodo che ci siamo frequentati: un periodo lungo; in certi tratti anche molto denso, in altri meno.
Quando è arrivato a Milano, facevo parte di un gruppo antifascista clandestino di cui facevano parte anche Pietro Spada, Delfino Insolera, Claudio Pavone, i due fratelli d’Angiolini e altri. Eravamo un pò tutti irrequieti, non eravamo inquadrati in nessuna delle grandi formazioni in cui si divideva allora l’antifascismo. Io venivo dal MUP, il Movimento di Unità Proletaria - il primo approdo che avevo trovato quando avevo cominciato a lavorare nell’antifascismo - quindi non ero né comunista né socialista; ero, diciamo così, “di sinistra”. Il mio gruppo credeva nella necessità di una profonda rivoluzione ed era in bilico fra una sua interpretazione marxista e una sua interpretazione umanistica, vagamente riferita a alcuni scrittori francesi e anglosassoni che leggevamo senza tuttavia riuscire a condividerne (e forse a capirne) del tutto le proposte. Al suo arrivo Carlo aveva portato nel gruppo il messaggio anarchico, che aveva interessato subito sia me che Giuliana, forse perché era proprio in quella direzione che stavamo cercando.
Lui aveva letto gli scrittori anarchici ed era fra i pochi in Italia che erano arrivati all’anarchismo per via intellettuale. Attraverso di lui ho conosciuto poco dopo alcune personalità anarchiche molto interessanti: per esempio Virgilio Galassi, che ora è qui con noi, Cesare Zaccaria, la Giovanna Berneri, Pio Turroni, Alfonso Failla e molti altri. Ciascuno di loro aveva una storia singolare per intelligenza, intensità di passioni, coraggio, indomabile avversione della stupidità e dell’oppressione politica. Molti di loro erano appena tornati dalle prigioni francesi del Vernet, dove erano stati rinchiusi quando si erano ritirati dalla Spagna incalzati dal franchismo e dal fascismo.
Avevo cominciato a frequentare questi eroici ’antieroi" e a capire che il loro amore per la libertà e per la giustizia era il più autentico e libero che io avessi mai incontrato nel campo dell’antifascismo.
Esperienza indimenticabile
Con Carlo sono andato al primo congresso anarchico che è stato tenuto a Carrara. Siamo partiti da Milano con una Cinquecento (allora attraversare il Bracco era una grande avventura perché c’erano i banditi, sul Bracco, che assaltavano le macchine, per cui era necessario andare in carovana). Su quella Cinquecento eravamo in sette, quindi molto pigiati; per di più il guidatore, che era giovanissimo, aveva un grave disturbo renale che lo costringeva a scendere dalla macchina ogni cinque minuti, per fare pipì. Il viaggio è stato dunque lunghissimo e anche picaresco: i banditi erano una cosa seria e, nei tre giorni che ci abbiamo messo a traversare il Bracco, ogni cinque minuti avremmo potuto venir catturati nella macchina abbandonata sul ciglio della strada dal nostro giovane guidatore.
Quando siamo arrivati a Carrara ci siamo trovati di fronte a un miracolo sorprendente. Gli anarchici avevano chiesto garbatamente ai carabinieri della guarnigione di andarsene via dalla città e i carabinieri se n’erano andati. Gli anarchici avevano detto ai carabinieri: “durante il convegno pensiamo noi all’ordine pubblico: niente carabinieri, niente prefetto, niente forza pubblica, in città; andate fuori facendo finta di niente e tornate quando tutto sarà finito”. Per uno di quei miracoli che allora accadevano e ora sono inimmaginabili, i carabinieri e le autorità erano andati e avevano lasciato la città agli anarchici, che avevano tenuto l’ordine pubblico in modo esemplare, non sulla base dell’autorità e dell’oppressione, ma del consenso e del mutuo appoggio.
Nel Convegno Carlo si muoveva piuttosto bene perché conosceva molti anarchici di valore. Cosicché, grazie a lui, ho potuto vivere un’esperienza indimenticabile nella quale ho cominciato a conoscere la bontà di cuore degli anarchici e la loro chiarezza di idee. Di solito gli anarchici sono descritti come cattivi e confusi e invece a Carrara mi sono trovato nella più concreta dimostrazione che gli anarchici sono puri di cuore e chiari di mente. Poteva capitare che si prendessero a seggiolate perché volevano arrivare a essere unanimi altrimenti nessuna decisione poteva essere presa che fosse vincolante per tutti; e spesso alla fine delle seggiolate l’accordo arrivava. Ma poteva accadere che non arrivasse e allora si formavano minoranze, che dichiaravano subito la loro determinazione di non fare niente di quello che era stato deciso dalla maggioranza; e la maggioranza li applaudiva perché era un diritto sacrosanto che le minoranze conservassero le loro idee e fossero rispettate e lasciate libere di professarle.
Questo era il vero miracolo.
L’anno dopo, anche con Giuliana, siamo andati a Canosa al secondo Convegno anarchico ed è stata un’altra esperienza fondamentale. Partendo da queste esperienze e discutendone a lungo con Carlo ho potuto conoscere l’anarchismo e capire il suo grande potenziale politico e culturale. Per avermelo rivelato io continuerò, finché potrò, a essere molto grato a Carlo.
Soprattutto Kropotkin
A Milano, in un primo tempo, Carlo lavorava per la casa editrice Mondadori alla quale aveva cominciato a suggerire libri da tradurre. Uno dei primi è stato il Mumford (The Culture of Cities), che aveva letto dopo averne sentito parlare da amici inglesi; e lo ha fatto pubblicare. Contemporaneamente ha sollecitato la ripubblicazione di alcuni scritti di Kropotkin. Discutendo con lui di questa sua iniziativa e leggendo i libri che proponeva, anch’io ho scoperto Kropotkine, che è poi diventato uno dei punti di riferimento tra i più solidi della mia ricerca urbanistica e architettonica.
Lui conosceva molto bene anche altri anarchici, quelli più legati alla tradizione italiana. Aveva letto gli scritti di Bakunin e Malatesta e Cafiero e me ne parlava spesso come di esempi di grande qualità politica e culturale. Ma i miei interessi erano rivolti più verso la corrente che era derivata da Kropotkine e che si era sviluppata soprattutto in Inghilterra: per esempio Herbert Read - che dopo essere stato nominato baronetto si è conservato anarchico e ha scritto libri molto interessanti di critica d’arte - George Woodcock, Colin Ward (amico di molti qui con noi oggi, che spesso viene in Italia a trovarli); John Turner, Vero Richard e altri.
Quel periodo milanese è stato particolarmente attivo per lo sviluppo delle idee di Carlo Doglio. Forse io faccio un pò di confusioni di date (e Diana, che è qui, potrà correggermi), ma mi pare che sia di quel periodo il suo saggio sulle Città Giardino. Era stato bandito un concorso per una dissertazione su quell’argomento e Carlo mi aveva proposto di farla insieme. Avevamo cominciato ma presto, discutendone, avevamo visto che insieme non potevamo farla perché avevamo idee molto diverse. Siamo rimasti amici, in quella circostanza come in molte altre, malgrado avessimo idee diverse; al punto di non poter fare in nessun modo la dissertazione sulle Città Giardino insieme; dopotutto avevamo in comune, più che le idee, le passioni e i modi di trasformarle in comportamenti.
In simbiosi con Adriano Olivetti
Lui aveva vinto il concorso e aveva pubblicato il saggio in un libro intitolato “L’equivoco della città giardino”. E’ un libro molto interessante, che io continuo a non condividere, ma che considero intelligente e ricco di spunti critici originali. Ai giovani qui presenti consiglio di leggerlo, con spirito critico e naturalmente - come Carlo Doglio stesso avrebbe raccomandato - con diffidenza.
Dopo quel periodo Carlo Doglio l’avevo visto poco, perché era andato in Inghilterra. Prima era stato da Olivetti a Ivrea e lì era passato per i consueti amori-odi, attraverso i quali sempre lui passava. Sono sicuro che ora, celebrandolo, si dirà che quello era stato per lui un periodo meraviglioso, che viveva in simbiosi con Adriano Olivetti, che andavano d’accordo come due fratelli. Ebbene, non è vero niente, non è assolutamente vero. Carlo Doglio era costantemente critico sia verso la fabbrica Olivetti che verso il famoso movimento di Comunità che gli olivettiani avevano organizzato. Adriano Olivetti gli aveva dato da fare il giornale di fabbrica, probabilmente pensando di cooptarlo: faceva il suo lavoro di grande industriale illuminato e mettere un anarchico a dirigere il giornale della sua fabbrica era un’idea intelligente e anche abile; ma non abbastanza prudente, perché Carlo gli aveva fatto un bel giornale di fabbrica, avanzato e svelto, però quasi tutti gli articoli che pubblicava finivano per sobillare gli operai contro il padrone. Cosicché Olivetti dopo alcuni mesi aveva pregato Carlo di andarsene in Inghilterra. Gli aveva detto: “ti pago il viaggio, il soggiorno e una scuola di urbanistica a Londra. Vai, studia e non farti vedere qui per un pezzo” (questa è la verità e mi diverte dirla come avrebbe divertito Carlo). Questo è accaduto e così Olivetti - che non amava gli anarchici proprio per niente, ma proprio per niente - si è liberato di Carlo Doglio offrendogli tuttavia una grande opportunità, da quel grande signore che era. A Carlo questa opportunità è servita molto. Ha frequentato una scuola di urbanistica e contemporaneamente ha lavorato al London County Council.
Una volta ero andato a trovarlo, proprio al London County Council, e ero rimasto sorpreso di vedere come i seri funzionari della più importante agenzia di urbanistica britannica fossero contenti di aver intorno un italiano che non finiva di divertirli e non solo per l’anglo-romagnolo che parlava ma anche perché faceva proposte che sconvolgevano la loro compostezza, che li buttavano su terreni ai quali non erano abituati.
Poi Carlo è tornato in Italia ed è andato in Sicilia, iniziando quel fertile periodo di cui ha parlato Pasquale Culotta. Non l’ho seguito molto in quel periodo ma ho letto i libri che aveva scritto sulla Sicilia, dove risuonava l’eco dell’ “Equivoco della città giardino”; per cui anche quei libri io non ho condiviso del tutto: li ho trovati ricchi di spunti poetici e senza dubbio intelligenti, ma non ne ho condiviso del tutto il contenuto. Penso che sarebbe contento di sentirmelo ripetere ora pubblicamente perché eravamo abituati a essere liberi nella nostra amicizia e quindi sinceri.
Ci siamo visti molto invece quando ha insegnato a Venezia, dove ho insegnato anch’io. Aveva una cattedra di urbanistica e quindi gli incontri che avevamo erano continui. Ora che vedo tra noi Paolo Ceccarelli, ne ricordo in particolare un incontro tenuto a Stresa per discutere la riorganizzazione del nostro Istituto, che era quello appoggiato a Architettura; mentre l’altro, quello di Astengo, si appoggiava a Pianificazione. Noi credevamo che non si dovesse separare l’urbanistica dall’architettura e sostenevamo il primato del progetto. Difendevamo questa posizione senza fare battaglia contro Astengo e semmai proponendoci come alternativa al suo correre verso la specializzazione. Allo stesso tempo però ci proponevamo come alternativa al formalismo che stava dilagando nell’Istituto di Composizione. In quel frangente, che è stato abbastanza lungo, si sono formati alcuni giovani interessanti - come Paolo Ceccarelli, appunto - che ora sono tra i più attivi e sensibili protagonisti di quella generazione veneziana.
Anche durante il primo periodo del suo ritorno a Bologna, Carlo l’ho visto spesso, soprattutto quando c’era ancora Delfino Insolera. Mi fermavo a Bologna andando a Urbino o a Roma, per passare qualche ora con i miei due amici molto cari. Poi, dopo la morte di Delfino, Carlo l’ho visto meno e ora di questo ho grande dispiacere. Perché la vita scorre e sempre si crede di avere ancora molto tempo davanti e quindi molte occasioni di incontrarsi, di parlare, di confidarsi, di fare progetti, di viaggiare insieme, di commentare, di ridere e ridere e ridere. Poi succede il disastro: Carlo è morto e non ci sarà più nessuna occasione per me di godere della sua affettuosa e stimolante compagnia.
Il rapporto di vicinato
Ecco, questa è la storia che vi volevo raccontare; e non per commemorarlo ma solo per dirvi chi era e cosa ha rappresentato Carlo Doglio per me. E anche per voi, che lo sappiate o meno.
Dopodiché vi ripeto che, visto che ci siamo incontrati per parlare di lui, in questa Facoltà che mi sembra tra le più interessanti in Italia, alla presenza di molti studenti che forse lo conoscono appena, il miglior modo di dimostrare che Carlo Doglio è stato un personaggio che non dimenticheremo è di riprendere qui uno dei suoi argomenti e discuterlo. E allora propongo di dedicare il tempo che ci resta fino alla chiusura del nostro incontro a discutere del Movimento delle Città Giardino e dell’interesse che può ancora avere per noi oggi.
Carlo Doglio nel’ “Equivoco della città giardino” aveva sostenuto che le proposte di Ebenezer Howard e in particolare la teoria dei due magneti, essendo un tentativo di sanare l’inconciliabile dicotomia città-campagna al di fuori di una visione ideologica e politica stabilizzata, finiva con l’essere un’estrema astuzia del capitalismo anglosassone per dirottare nell’empirismo il problema del conflitto che contrappone il territorio alla città. Io, invece, e forse in modo meno radicale, vedo la proposta di Ebnenezer Howard come un tentativo serio di spiegare le radici del conflitto tra città e campagna e di tentarne una soluzione spostandolo verso la reciproca integrazione. Inoltre - e qui quello che dico risente del mio essere architetto - lo vedo come un tentativo di riorganizzare lo spazio fisico in modo da stabilire un rapporto più equilibrato tra dominio edificato e dominio naturale. Questa ricerca dell’equilibrio tra naturale ed artificiale nel corso della mia vita è diventata sempre più presente. Sempre di più mi interessa la definizione di una “misura” dell’ambiente fisico che sia alla portata dell’esperienza diretta degli individui e dei gruppi sociali: perché l’esperienza dello spazio non sia soltanto una questione intellettuale ma anche, e in primo luogo, una questione dei sensi. Un’altro aspetto della proposta di Howard che mi sembra interessante è la possibilità di recuperare il rapporto di vicinato che, ancora oggi, pur assumendo connotazioni del tutto diverse da allora, continua a essere una delle circostanze che rendono la vita nel territorio interessante oltre che confortevole, perché apre la via alla comunicazione tra gli indiidui e tra i gruppi sociali.
Ecco, io credo che saremmo tutti più contenti se qualcuno volesse intervenire su questi argomenti e aprisse uno scambio di idee sullo stato attuale dell’urbanistica partendo dalle Città Giardino e dal giudizio che ne dava Carlo Doglio. Credo che questo sarebbe un buon modo di ricordare Carlo Doglio e il ruolo che ha svolto nella sua vita con grande intelligenza e inesauribile passione.
(Relazione presentata al convegno su Carlo Doglio tenutosi l’11 novembre 1995 presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara). Si ringrazia per la collaborazione Giampiero Landi della Biblioteca Libertaria “Armando Borghi” di Castelbolognese (Ra)