Divenire-anarchismo

Introduzione a ‘Pensare altrimenti anarchismo e filosofia radicale’

Salvo Vaccaro

2023-12-15

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE Divenire-anarchismo di Salvo Vaccaro // CAPITO PRIMO Anarchismo e teoria politica del post-strutturalismo di Todd May // CAPITOLO SECONDO Deleuze e la rinascita del pensiero libertario di Daniel Colson // CAPITOLO TERZO L’an-archia tra metapolitica e politica di Miguel Abensour // CAPITOLO QUARTO Pensare al di fuori della statualità: Foucault di Lewis Call // CAPITOLO QUINTO I dilemmi della politica in Lévinas e l’anarchia etica di Simon Critchley // CAPITOLO SESTO Derrida e la decostruzione dell’autorità di Saul Newman // CAPITOLO SETTIMO Deleuze, Derrida e l’anarchismo di Nathan J. Jun // Gli autori // Le fonti

L’Essere reale […] è il divenire. Michail Bakunin

Il libro che il coraggioso lettore tiene in mano non è una semplice antologia, né una mera miscellanea di testi filosofici, raccolti per l’occasione e cuciti insieme da un fil rouge qualsiasi. Attraverso l’esposizione di diversi saggi e articoli, provenienti da autori e contesti culturali differenti, ma accomunati da uno stile di ricerca filosofica e politica insieme, aventi per tema l’apporto che la filosofia radicale del XX secolo può apportare alla matrice teorica dell’anarchismo, questo libro nasce da un progetto culturale di cui occorre, per correttezza e trasparenza di intenti, esplicitare motivazioni, ragioni e orientamenti propri del curatore.

La prima molla è un disagio, un’inquietudine mediata da un’autoriflessione filosofica sui destini politici dell’anarchismo quale è stato tramandato dai Lumi sino ai giorni nostri. Da Godwin in poi, l’anarchismo nelle sue innumerevoli declinazioni si è tipicizzato come una teoria politica che trova nella prassi, piuttosto che nelle categorie etiche e filosofiche, lasciate implicitamente sullo sfondo, il banco di prova, l’enjeu della sfida lanciata alle differenti forme-di-vita che organizzano il mondo e il nostro stare-al-mondo. È possibile interpretare l’anarchismo in senso contestuale, ossia legato a uno specifico itinerario epocale dell’umanità, quello originato per convenzione dall’Illuminismo, secondo un gioco agonistico tra altre teorie politiche analoghe per intenti ma concorrenti negli obiettivi differenziati quanto a esiti organizzativi della società e a metodologie tattico-strategiche funzionali a conseguire l’ideale critico dell’emancipazione dal dominio. Ma è altrettanto possibile interpretare genericamente l’anarchismo come quel «nome proprio» che la cultura tardo-occidentale si è dato (grosso modo da Proudhon in poi) per significare una ricerca insopprimibile di libertà, cognitiva e corporea, singolare e plurale al contempo, non disgiunta da un vincolo di eguaglianza tra i singoli individui nelle loro relazioni reciproche e tra i corpi sociali nelle loro articolazioni interne ed esterne. Se la prima definizione sintetica delimita il campo di una teoria politica che si nutre di una particolare atmosfera filosofica, la seconda, peraltro non in contraddizione con quella, configura una dimensione etico-filosofica che trascende la porzione ristretta di spazio epocale e temporale per proiettarla lungo un asse dell’antropologia dell’umanità che virtualmente non conosce limiti, né confini territoriali, né barriere linguistiche o specificamente culturali. Fermo restando che voler connettere insieme libertà ed eguaglianza significa già rientrare culturalmente in una data civiltà dell’umanità.

Non è questa la sede per approfondire in lungo e in largo le due schematizzazioni avanzate a mo’ di pretesto, ma qualunque sia la direzione verso cui propendiamo in base alle nostre sensibilità, essa ci presenta numerose occasioni di disagio e di inquietudine rispetto alle aspettative originarie, rispetto a un sia pur sommario bilancio storico, rispetto all’attualità o inattualità dell’anarchismo nelle società del XXI secolo.

In rapporto alle aspettative originarie, possiamo dire che la teoria politica dell’anarchismo aspira, come detto, a orientarsi nettamente non tanto verso una riflessione filosofica, quanto verso una progettualità politica e sociale tesa a offrire il miglior ambiente ideale e possibile a quella ricerca spasmodica di libertà nella eguaglianza tra differenti che non si limiti a rintanarsi nella mente di ciascuno, bensì che trovi negli assetti sociali da perseguire e conseguire l’obiettivo inverato della propria riflessione teorica, mossa peraltro dalle condizioni di assoggettamento, di schiavitù, di illibertà, per dirla con una parola, che alimenta la teoria stessa come compendio alle pratiche libertarie. Detto altrimenti, e nell’ambito dell’Occidente filosofico, l’anarchismo rivoluzionario tende verso la conciliazione di pensiero e realtà, di desiderio e reale, colmando uno scarto che altri modelli teorici professano incolmabile, così giustificando la necessità di un ordine del dominio sulle cose e sugli esseri viventi, umani e non. Tuttavia, questa conciliazione, tanto sul piano teorico quanto nella dimensione concreta, non si è (ancora?) data. A differenza dell’idealismo hegeliano, che nell’identità di razionale e reale poneva la conciliazione (Versöhnung) come condizione già conseguita, Adorno ha posto utopicamente la conciliazione in uno spazio trascendentale di là da venire. L’universale e il suo opposto, il particolare, si conciliano quando il non identico si rende autonomo dal dettato universale per affermarsi come «molteplice ormai non più ostile»1. È possibile rinvenire messianicamente questo luogo a venire nell’idea di democrazia secondo Derrida, campo di tensione permanente che non coincide affatto con una griglia normativa, né con un assetto politico ben definito. In altri termini, non si dà, e per fortuna, una società che sia arrivata al proprio capolinea storico, armoniosamente perfetta, né perfezionabile in quanto priva di futuro essendo compiuta, né soggetta a rischi di regressione perché stabile astoricamente. Dunque, diviene così necessario ripensare criticamente l’anarchia come orizzonte di una definitiva forma-di-vita.

In rapporto al bilancio storico, la riflessione critica e autocritica sulle altalenanti sorti dei movimenti che genuinamente si sono richiamati all’anarchismo è copiosa, tale da misurare le sconfitte, gli insuccessi, i deficit, le défaillances tanto nei momenti di bonaccia, per così dire, quanto e soprattutto nei momenti alti della storia nei quali l’anarchismo reale si è ritrovato più che protagonista, addirittura vicino al suo compimento: ossia alla conciliazione rivoluzionaria tra pensiero e società, tra teoria e prassi. Oggi, più modestamente, ma ancor più amaramente, sembrerebbe che coloro che animano una pratica ideale, che valorizzano con passione e fermezza una condotta etica individuale e collettiva o che professano un pensiero teorico e analitico libertario e anarchico, si ritrovino ai margini dei contesti sociali, resi insignificanti per gli equilibri e i rapporti di forza (anche culturali), come se pratiche e modelli e valori non fossero più in grado di incidere significativamente sulle menti e sui corpi dei segmenti societari, incapaci a orientare una dinamica sociale peraltro estremamente mobile, per un verso, ma incancrenita in un’inamovibile permanenza (non solo logica) del feticcio dell’autorità dominante, per l’altro.

In rapporto all’attualità o meno dell’anarchismo nel XXI secolo, infine, sembra affermarsi un’anomala frattura schizofrenica: da un lato, le dinamiche sociali espandono dappertutto, nei limiti beninteso delle opportunità di partenza, fra l’altro ineguali nei diversi angoli della terra, potenzialità di libertà che tuttavia non trovano sintesi in nessun progetto politico compiutamente anarchico o libertario, anzi tutt’altro; dall’altro, maggiormente il pianeta sembra avvitarsi in spirali autodistruttive, maggiormente l’ipotesi anarchica e libertaria dovrebbe offrirsi in linea prioritaria come una delle residue chances di salvezza, ma già il condizionale del predicato usato indica una deduzione logica che asseconda più un’aspirazione disincantata che una risorsa realmente disponibile ai più.

Si potrebbe obiettare che anche il disagio e l’inquietudine di fronte alla desolazione del panorama odierno andrebbero contestualizzati; se l’anarchismo è una pratica che si fa teoria, e non viceversa, muovendo da condizioni materiali seriamente compromesse quanto a standard di vita e di benessere qualitativo e quantitativo, probabilmente non è certo da un Occidente ricco, opulente e potente che potrà provenire la riscossa libertaria sul piano mondiale, bensì da quegli angoli del pianeta realmente avviluppati in una condizione da cui emanciparsi quanto prima, secondo una traiettoria che, auspicabilmente, non segua pedissequamente il medesimo percorso adottato nel mondo occidentale. E tuttavia, tale obiezione non infondata sembra andare incontro anch’essa a una profonda delusione, laddove al di fuori dell’Occidente la pratica e la teoria anarchica non sembrano (ancora?) prodursi per intrinseca incapacità di fertilizzare quei segmenti planetari condividenti una diversa visione del mondo, facenti parte di una civiltà diversa, al cui interno la tenace ricerca della libertà assume volti e denominazioni disparate.

Se non vogliamo attribuire a semplici idiosincrasie di natura psicologica il disagio e l’inquietudine che non si manifestano solo a livello personale, occorre scandagliare nel merito se i fattori responsabili risiedano solo o esclusivamente nel campo della pratica, dato che i movimenti reali possono andare incontro a sconfitte e fallimenti che sovrastano eventuali deficit e insufficienze pure esistenti; oppure se è necessario investigare alla radice il nucleo teorico del pensiero e del pensare anarchico per come esso si è genealogicamente strutturato nell’era moderna. In altri termini, se l’anarchia è lungi dall’approssimarsi secondo il modello teorico ereditato, è ben possibile, ma poco plausibile anticipo io, che l’anarchismo goda di ottima salute, a dispetto, oserei dire, degli anarchici e delle anarchiche in carne e ossa il cui agire frustrato appare poco incisivo, se non addirittura irrilevante, rispetto alla vita quotidiana, alle poste in palio delle dinamiche sociali, agli equilibri politici entro e fuori le istituzioni.

Ovviamente, chi propendesse per quest’ultima diagnosi, oltremodo indignandosi per aver osato pensare e addirittura affermare un deficit dell’anarchismo, se non proprio dell’anarchia come movimento reale teso al suo compimento, troverebbe superfluo una riflessione (auto) critica sul piano teorico qual è la scommessa di questa proposta intellettuale e culturale. I fallimenti, gli insuccessi o le sconfitte dei movimenti che si sono richiamati e si richiamano tutt’oggi più o meno esplicitamente all’anarchismo e al libertarismo (di sinistra, per non confonderlo con il libertarismo anglosassone tipico di una destra antistatalista ma pro-mercato capitalista regolato dalla mera forza di imposizione) non sono pertanto riconducibili a una qualche insufficienza teorica, la quale si erge sul modello di Minerva dalla testa di Zeus tutta intera in una determinata era storica e in una particolare area geo-culturale del pianeta, per perpetuarsi nei secoli indenne da ogni traversia storica e da ogni traversata epocale, sempre fedele a se stessa in quanto autosufficiente sin dall’origine. Certo, sfioro consapevolmente la caricatura, ma l’autoreferenzialità del pensiero anarchico è, a mio avviso, uno di quei fattori di insufficienza da cui nasce il disagio odierno. Infatti, com’è noto, la modalità di autoriproduzione del corpus teorico anarchico è, mutuando un termine per analogia scientifica, endogamica, ossia riconducibile a innovazioni teoriche e ad autori riconosciuti allineati in un’ideale formazione del pensiero anarchico che si sono selezionati nel tempo e quindi riconosciuti universalmente (almeno entro il perimetro dei facenti parte di diritto della cerchia anarchica) in quanto appartenenti al movimento, nella condivisione di pratiche e condotte etiche via via affermatesi come discriminanti verso tutto ciò che è esterno a esso.

Se ciò ha preservato, in linea teorica, una certa autenticità del pensare (purezza può essere un termine alternativo), rafforzata dal modello etico sottostante alle vite degli autori cui ricondurre un apporto teorico nato e promosso attraverso un agire pratico, militante in quanto appartenente, tuttavia a mio modo di vedere tale chiusura autoreferenziale ha a lungo andare nuociuto, sia in chiave interna, poiché ha sclerotizzato una riproduzione pedissequa delle idee, delle tesi teoriche, delle ipotesi analitiche, a fronte di una realtà storico-materiale che si è venuta terremotando nel corso dei secoli, con un preoccupante riflesso sulle modalità storiche delle forme e dei modelli organizzativi dei movimenti reali; sia in chiave esterna, sotto forma di minore potenziale di attrazione verso nuove generazioni sempre più permeabili da novità più o meno radicalmente discontinue rispetto al passato, nonché sotto forma di inesistenti apporti più o meno radicalmente innovativi potenzialmente integrabili nel corpus teorico dell’anarchismo e dell’anarchia come movimento reale.

È evidente che il curatore del volume tenuto in mano dal coraggioso lettore propende decisamente verso questa lettura pre-testuale quale uno dei motivi del disagio e dell’inquietudine che anima la proposta emergente dagli autori e dai saggi raccolti qui di seguito. Del resto, appartenenza, autenticità, purezza, rappresentano grumi concettuali che denotano un’istituzionalizzazione persistente di un qualsiasi corpus teorico, sino a rasentare il dogma enunciato da un’autorità a ciò preposta: quanto di più lontano da un pensiero e da una pratica che riconoscono solamente un diagramma concettuale ed etico al cui interno avanzare in via sempre mobile letture analitiche, tesi teoriche, ipotesi di intervento sociale, strategie e tattiche politiche ecc., che rendono l’anarchismo, sì, inattuale, estraneo e ostile nei confronti di un assetto statico del dominio, ma sempre attuale, rispondente e utilizzabile rispetto a ogni dinamica di liberazione e di affermazione di egual-libertà, da incitare, scatenare e promuovere secondo una mossa di eccedenza tangenziale del circuito conflittuale esistente.

Quindi, se l’impasse diffusa dell’anarchia rinvia anche, sebbene non totalmente, a un’insufficienza teorica di un anarchismo la cui forma di pensiero si è forgiata in una data(ta) epoca storica non più presente né recuperabile, se l’autosufficienza teorica dell’anarchismo mina la credibilità presente di una forma di pensiero che si traduce, pur con numerose mediazioni, in zoppicanti modelli organizzativi sia progettuali, per l’utopia da realizzare, sia politici, idonei alla conflittualità del e nel presente, allora diventa necessario uno scavo all’interno del corpus teorico a fini rigenerativi, integrando al proprio interno, con le doverose modificazioni e gli opportuni aggiustamenti, prestiti extra-territoriali che siano funzionali a rilanciare il progetto anarchico sia lungo l’asse della capacità critica all’altezza del presente, ossia l’analisi del presente colto nei suoi punti di frattura muovendo da categorie e modelli utilizzabili a mo’ di arnesi per leggere correttamente un tempo storico, sia lungo l’asse delle potenzialità edificatrici, ossia la progettualità teorica indispensabile per alimentare le esperienze e gli esperimenti sul piano sociale di un’anarchia in atto che si offre quale diagramma esteso di società libera ed eguale nelle differenze.

Sin qui ho cercato di esplicitare un’argomentazione, altrimenti recondita, relativa a un disagio intellettuale, a un’inquietudine culturale che mi conduce a rintracciare anche nel corpus teorico dell’anarchismo una faglia deficitaria che, lungo il secolo breve, e in particolare negli ultimi decenni, ha inciso anche e soprattutto nelle pratiche dei movimenti cosiddetti specifici. E ciò in due direzioni, la prima critico-analitica, tesa a leggere un tempo presente dilatato su scala mondiale e contratto su scala locale (il glocalismo, con infelice neologismo anglosassone), ponendo all’opera categorie critiche che aggrediscano le principali soglie di continuità e discontinuità nei vari campi del sapere e del saper fare, ossia l’attività sociale di produzione e riproduzione della vita singolare e collettiva; la seconda di schietta natura utopica, tesa cioè a individuare nel presente quell’agire sperimentale idoneo a squarciare il velo dell’immaginario collettivo, lasciando intravedere un percorso di sottrazione al dominio e di insediamento nomade su altri territori ideali dell’organizzazione sociale.

A tal fine, l’autosufficienza dell’anarchismo non è più un lusso consentibile, a fronte della complessità di un mondo irriducibilmente plurale, non più leggibile né orientabile muovendo da una sola opzione per quanto raffinata e altrettanto complessa. Troppe le variabili culturali in gioco per poter pensare a una sola cassetta di attrezzi da cui pescare e prelevare quelle armi della critica e, soprattutto, quella follia inventiva che spinge alla sperimentazione innovativa per diffusione a cerchi concentrici. Da qui la necessità di misurare il pensiero anarchico, in questa sede sul versante filosofico, con altre forme di pensare critico e radicale che hanno segnato la seconda metà del XX secolo, specialmente su alcuni snodi cruciali che rivelano quelle insufficienze originarie colmabili attraverso un’ibridazione virtualmente felice e affermativa di un nuovo e probabilmente inedito pensiero anarchico. Se poi, a posteriori come al solito, tale scarto sarà battezzato neo- o post-anarchismo, è una questione battesimale che non mi affascina affatto, allergico al gesto di conferimento identitario, una volta per sempre, di un nome proprio da marchiare sui documenti ufficiali di riconoscimento pubblico…

La filosofia radicale del Novecento – che in questo lavoro assume i nominativi di alcuni pensatori francesi quali Deleuze, Derrida, Foucault, Lévinas, ma altri se ne potrebbero aggiungere, anche di altre aree linguistiche – rispecchia sul piano della riflessione teorica una penetrazione dell’idea di società e della sua trasformazione qualitativa emergente dalle forti impasses registrate nello scorso secolo. Brevemente, le promesse rivoluzionarie non si sono realizzate non solo e non tanto per essere state sconfitte sul campo, o per aver deviato dalla retta via in corso d’opera, o per aver tradito i propri obiettivi o, per essere state riassorbite, bensì per un’ostruzione di fondo che la filosofia assume e rinvia teoricamente: ossia l’implicazione metafisica della conciliazione tra pensiero e realtà, tra desiderio e reale, che la dialettica prima hegeliana e poi marxiana pensava di superare, senza esserci però riuscita. Anzi, secondo la rottura postmoderna, la conciliazione rappresenterebbe una sorta di chiusura finale della storia addirittura affatto auspicabile per un’umanità che si qualifica in quanto tale grazie alla potenziale libertà di dischiudere sempre e perennemente, a date condizioni e a dati vincoli, verso un possibile aperto a ogni evenienza, a ogni contingenza non dettata da una matrice di necessità. Peraltro, la fine della storia ricapitolerebbe l’infinita varietà e matrice di variazioni dei possibili storico-materiali in un’unità unificante e totalizzante che, solitamente, viene a definirsi come aggettivazione qualificativa del sostantivo «società»: liberale, democratica, comunista, socialista, anarchica, islamica, buddista ecc., a chiudere (definitivamente?) un ciclo storico secondo una specifica accezione che, gioco forza, ne esclude altre. A essere sacrificata sull’altare dell’aggettivazione, sarebbe la pluralità costitutiva dello stare-al-mondo che coniuga singolarità e libertà interminabile, avversa alla dinamica di istituzionalizzazione che, generalmente, regolamenta la mobilità delle spinte estensive degli spazi di libertà in assetti, sia pure temporaneamente stabili, nell’arco trans-generazionale di individui alla cui passione di libertà verrebbe chiesto un’autolimitazione nei confini dell’identità qualificativa dell’aggettivazione di volta in volta egemone.

Entro tale cornice, tipica della modernità, il pensiero occidentale ha incasellato altresì le categorie fondanti della Politica, tra le quali il coraggioso lettore non faticherà a rintracciare, nei saggi raccolti, la questione del Soggetto, della Rivoluzione, del Potere e dell’Autorità. Tra le numerose declinazioni semantiche che la modernità ha impresso, peraltro ambiguamente, alla Politica, intendo sottolinearne almeno due: la prima, in quanto pratica disgiuntiva che mette in opera una sfera separata deputata a governare una società concettualizzata nella sua inesorabile minorità, bisognosa quindi di un ordine proveniente da una dimensione di esteriorità che tramuta la trascendenza teologica in verticalità sovrana; la seconda, in quanto tecnica di dominazione che metodicamente permea di sé ogni modalità organizzativa di convivenza societaria, articolando pertanto il conflitto lungo un asse gerarchico che di volta in volta, e con modalità diverse, lo risolve.

Proprio contro questo senso moderno della Politica si staglia il pensiero anarchico che, già ben prima di Adorno e Horkheimer, espone uno scetticismo radicale sulla bontà dei Lumi, dei quali intravede la dialettica interna, il potenziale regressivo, il fattore conservativo, muovendo sia da una genealogia in parte differenziata dall’Illuminismo dell’era moderna (una certa idea di comunità da cui depurare oggi l’organicismo tipico di un’epistemologia positivista, a favore di un collante singolare-plurale ramificato in una trama disposta orizzontalmente; una derivazione libertina e non cartesiana del dubbio perenne quale attitudine etica e poi politica alla criticabilità di ogni cosa senza eccezione alcuna), sia dalla critica feroce e radicale del perno intorno al quale ruota ogni politica moderna in continuità logica (ma non di forma) con ogni politica dell’antichità: il concetto di Una Autorità, unificante, totalizzante e gerarchicamente sovrana.

Su tale scia, la filosofia radicale del XX secolo, della quale gli autori che compongono questo lavoro ne narrano una particolare torsione in senso anarchico e libertario, offre un ulteriore approfondimento. Quella «specie di anarchia che la decostruzione compie»2, come sostiene John Caputo a proposito della celebre nozione promossa e praticata da Jacques Derrida, è una metodologia che tende a sottoporre a dubbio e critica un concetto, una pratica, un’istituzione, senza ricorrere né a un fattore trascendentale, che dall’esterno a ciò che viene sottoposto a interrogazione illumina una fallacia sulla quale, tuttavia, può incidere poco perché elude lo smontaggio dei dispositivi che lo reggono; né a un’immanenza della contraddizione che spinge verso la sua soppressione, giacché tale mossa dialettica di matrice hegeliana si è rivelata produttiva di un superamento che trattiene e non revoca affatto la costituzione di quanto sottoposto a dubbio. Derrida attacca centralmente la nozione cardinale della metafisica occidentale: la presenza di ciò che è e che non può non essere, secondo uno statuto di necessità che di per sé evoca pertanto gerarchia e autorità irrefutabili. Tuttavia, «decostruire la filosofia diventa un pensare la genealogia strutturata dei suoi concetti nella maniera più fedele e interna possibile, ma anche da un certo al di fuori che essa non può qualificare e nominare; diventa un determinare ciò che tale storia ha potuto dissimulare o interdire, quando si è fatta storia, appunto, attraverso questa repressione interessata»3.

Quindi, la decostruzione scava il proprio oggetto da interrogare sino a esporre l’aporia della sua precaria oggettivazione, ossia l’infondatezza della sua pretesa necessità, il che contribuisce non tanto a sottovalutare il rilievo eventualmente portante, bensì a rivelare l’arbitrio, la contingenza, la convenzionalità del suo esistere che, pertanto, può essere ripensato, revocato e destituito di senso in seguito a una disputa, un conflitto di pensiero che monta i propri congegni in maniera differente. «Io non sono anarchico. […] La decostruzione è senza dubbio anarchica: lo sarebbe per principio, se possiamo dire così, essa mette in questione l’arché, l’origine e il cominciamento…»4.

Anche la genealogia foucaultiana di matrice nietzschiana si offre come una metodologia «per liberare l’uomo e non lasciargli altra origine che quella in cui vuole riconoscersi»5. Essa investiga la struttura costitutivamente precaria, in quanto infondata, priva di alcuna causa necessaria, del proprio oggetto di ricerca, di cui narra anzi le precise condizioni storiche, materiali, politiche, economiche, giuridiche, intellettuali, culturali, in una parola le pratiche discorsive che hanno reso possibile in una data epoca l’emergenza di un concetto, di un’istituzione, di una condotta umana. La loro contingenza – «il segreto che sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee»6 – ne rende possibile la sparizione, beninteso entro un campo conflittuale del quale evidenziare le filiere di eterogeneità che debordano costantemente ogni pretesa totalizzante di chiusura e nel quale smontare ognuna di quelle condizioni di possibilità da far venire meno, facendone sopravvenire altre e altrimenti ricongegnate. La critica an-archica dell’origine non intende misconoscere il fatto storico dell’emergenza di un’idea, di un concetto, di un’istituzione; esse però non recano in sé nulla di pre-determinato, di pre-destinato, come se l’effetto da esse prodotto sia geneticamente innestato sin dall’origine, appunto. «Non la potenza anticipatrice di un senso, ma il gioco casuale delle dominazioni»7 reggono caso mai l’emergenza di un’inscrizione sul corpo della storia, priva di alcun presupposto di determinazione e di necessità.

A livello ancor più filosofico si pone la cifra deleuziana della critica dell’ontologia dell’Essere che preclude una reale trasformazione della forma di vita del pensare, poiché il predicato condiziona e scolpisce perennemente l’identità inamovibile di ciò che è a scapito di ciò che potrebbe divenire. Deleuze revoca il concetto metafisico di essere che da Platone a Heidegger ha creduto di catturare il vivente in una gabbia di inesorabile stabilità, al di là del bene e del male, al di là di ogni trasformazione possibile, anzi condizionando la possibilità logica del cambiamento entro il perimetro dell’Essere inamovibile. Deleuze, invece, sulla scia di Spinoza, intende optare nel gesto visuale dell’ente vivente sottratto all’ipostasi di un Unico Essere a esso trascendente che dall’alto lo domina8. Tali enti dell’essere si effettuano per quello che sono, enti che racchiudono in sé la virtualità di ogni espressione, che sono irriducibilmente plurali, che non si rappresentano ma segnano con la loro presenza, che non si riducono all’unità ma sono differenti e molteplici, che non sono identificati ma eccedono appunto ogni individuazione. È possibile leggere in ciò una «ontologia antigerarchica dell’immanenza», una «ontologia politica anarchica»9? Indubbiamente, a patto di mutare senso al termine «ontologia» sino a renderlo omologo al «divenire» contrapposto all’essere.

Tutta la ricerca filosofica di Deleuze tende a costruire un sistema di pensiero che si articola sul divenire quale predicato umano di ogni cosa vivente e non vivente; si tratta di una radicale dislocazione dello sguardo intellettuale e culturale che si deve attrezzare a concettualizzare il cambiamento quale fisiologia dell’esistente, confutando quindi ogni identità a presidio della stabilità e a maggior ragione respingendo ogni pretesa legge di natura o di pensiero (occidentale) che si arroga il diritto di dettare la norma di inquadramento-squadramento di tutto ciò che viene pensato sia nella sua narrazione passata che nella sua descrizione presente, nonché nella sua potenzialità futura.

Infine, ma in una costellazione difficilmente riconducibile all’era postmoderna e nondimeno incisiva sul gesto di volontà che anima l’anarchismo, si propone la scelta etica di Lévinas, che concepisce l’an-archia non come una condizione politica che in quanto tale non si sottrarrebbe alla critica della politica che la critica della modernità pone in campo, anarchismo incluso (sebbene rivolta a se stesso)10, bensì come un posizionarsi di matrice etica, ossia legata a una precisa scelta di comportamento, che non riconosce alcuna autorità al di fuori della scelta che viene compiuta e reiterata, che non riconosce alcuna gerarchia di derivazione in quanto tale scelta etica si pone prima – ma non disgiunta – di ogni riflessione razionale e quindi filosofica o politica. Essa si dà come se fosse con-vocata da una pressione interiore irrefrenabile che si innesca, secondo Lévinas, quando si incontra il volto dell’altro, co-fattore ineludibile al nostro stare-al-mondo in una relazione di reciprocità, di prossimità, costitutiva la nostra esistenza alla quale non è possibile sfuggire rifugiandosi in un’individualità solipsistica. La relazione con l’altro è il terreno in cui viviamo e non possiamo non vivere, anche quando neghiamo cittadinanza all’altro e lo sterminiamo, senza accorgerci che così facendo sterminiamo noi stessi sterminatori, deprivati di ogni umanità degna di tale qualifica. La responsabilità di tale posizione etica attiva così, per Lévinas qui riecheggiante Kropotkin11, ogni processo di libertà, modellando quindi la volontà umana lungo una formazione delle molteplici relazioni con l’altro nel senso della responsabilità non dettata da alcuna legge esteriore – ossia politica, gerarchicamente imposta e sovrana – dunque anarchica12. «L’anarchia non dovrebbe cercare di specchiarsi in quella sovranità archica di cui essa è detrattrice, ovvero non dovrebbe cercare di costituirsi come il nuovo principio egemonico di un’organizzazione politica. Al contrario, essa deve rimanere la negazione della totalità e non l’affermazione di una nuova totalità. L’anarchia è una perturbazione radicale all’interno dello Stato, un’interruzione nel tentativo dello Stato di costituirsi e di erigersi come un tutto. Usando le nostre categorie, l’anarchia è la creazione di una distanza interstiziale all’interno dello Stato, la lotta perenne del basso contro ogni tentativo di stabilire l’ordine dall’alto. L’anarchia etica è quindi l’esperienza di una molteplicità di singolarità, rappresentate dall’incontro con l’altro, che definisce l’esperienza della socialità»13.

Peraltro, il pensiero anarchico effettua da sempre uno scarto teorico rispetto al liberalismo proprio sulla questione della libertà: il liberalismo assegna uno spazio predeterminato di libertà a ciascuno in relazione alla delimitazione più o meno statica dell’analogo spazio assegnato all’altro con cui si entra in contatto, con l’effetto di ridimensionare la libertà, riducendola per entrambi i partner. Al contrario, rinarrata sotto la luce convergente di teoria anarchica e postmoderno, la libertà si de-essenzializza per rilanciarsi come processo espansivo di liberazione che mai raggiunge una saturazione stabile e definitiva – nemmeno nel regno dell’anarchia… – e pertanto in tale gioco agonale non si dà limite precostituito (costituzionalizzato, direbbero i liberal-democratici), bensì ogni spinta produce beneficio diffuso e gli eventuali conflitti tra tali dinamiche verrebbero a trovare un punto provvisorio di equilibrio autoregolato proprio nella relazione di ciascuno con l’altro che costituirà, nonostante ogni deriva individualistica e solipsistica della matrice proprietaria borghese, il reale nucleo umano: io/altro, con un topos libertario di responsabilità relazionale e reciproca.

Qui entra in gioco un primo slittamento nel tipico pensiero anarchico, classico o tradizionale che dir si voglia, e concerne la questione del Soggetto portatore intrinseco del potenziale rivoluzionario. Beninteso, nessun sostenitore dello stile postmoderno di pensare, e men che mai gli autori protagonisti di quella stagione, ritengono di dover regredire a un momento storico in cui si narrava l’incompetenza di ciascuno a voler significativamente reggere e orientare, nei limiti del possibile, il proprio orizzonte biografico, sia come singolo che come collettività. La critica del Soggetto da parte della filosofia radicale implica invece l’abbandono di una particolare topologia dialettica che individua il potenziale rivoluzionario nel luogo storico-materiale deducibile da una lettura dialettica della storia e dei suoi conflitti, subordinando pertanto il soggetto corporeo a una persona superiore che detta desideri e istanze volontarie. Quando Derrida decostruisce il principio di autorità, sforzandosi di astrarlo da un processo storico-materiale, ma senza disdegnare uno sguardo rivolto ai suoi effetti, intende destituire di senso non solo il concetto stesso di Autorità denudandone il volto mistico, ma anche quel Soggetto che ambisce a ricoprire il trono lasciato temporaneamente vuoto nelle dinamiche di trasformazione sociale. «Dato che l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge, per definizione, in definitiva possono basarsi solo su se stesse, esse sono a loro volta una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiuste in sé, nel senso di ‘illegali’ o ‘illegittime’. Non sono né legali né illegali nel loro istante fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non-fondato, come pure di ogni fondazionalismo o antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un diritto […] presuppone delle condizioni e delle convenzioni preliminari […], lo stesso limite ‘mistico’ risorgerà alla presunta origine di quelle condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione dominante»14.

Quando Foucault, dal suo canto, delinea la figura del soggetto assoggettante e assoggettato al contempo, dopo la grande lezione freudiana, intende sostenere come nessuna posizione soggettuale geo-storica possa essere tout court esente, sia materialmente sia culturalmente, da quel principio di autorità, se non al costo di un immane ma necessario lavorio su di sé, secondo una traccia ascetica di dépris de soi-même, di distacco da se stessi, che è di ordine etico-esistenziale, pur evocando assonanze religiose-spirituali, almeno nei suoi albori genealogici. «Ben presto mi è apparso chiaro che appena il soggetto umano è catturato all’interno di rapporti di produzione e di relazioni di significato, è nella stessa misura catturato all’interno di rapporti di potere che sono molto complessi»15.

L’analitica del potere, infatti, disegna una trama di relazioni di poteri, in quanto capacità di affettare la condotta altrui orientandola secondo interessi, desideri, volontà differenti e conflittuali, in una sfera agonale che coincide con la convivenza umana, che può restare mobile e reversibile, ossia senza incancrenirsi in istituzioni salde e definitive almeno per un certo lasso di tempo, da un lato a patto di non mutarsi in rapporti di dominio verticali e sovrani, e dall’altro a patto di restituire l’empowerment, ossia il potere non dominante caro al pensiero femminile-femminista, agli individui che si siano adoperati asceticamente per stilizzarsi in condotte antiautoritarie e antigerarchiche. «Questa forma di potere viene esercitata sulla vita quotidiana immediata che classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti. Ci sono due significati della parola ‘soggetto’: soggetto a qualcun altro, attraverso il controllo e la dipendenza, e soggetto vincolato alla sua propria identità dalla coscienza o dalla conoscenza di sé. In entrambi i significati viene suggerita una forma di potere che soggioga e assoggetta»16.

Ecco perché non è opportuno narrare la teoria del Soggetto storico protagonista di uno spettacolo globale della rivoluzione, in quanto nessuna classe di individui garantisce di per sé un’etica politica di liberazione in libertà se non dis-assoggettandosi dalle dinamiche verticali di dominio che cristallizzano le trame di potere. Del resto, nomen omen non a caso: soggetto a e soggetto di coincidono nell’effetto che il sociologo Mühlmann definì diversi anni addietro per rendere conto, in maniera non psicologicamente riduttiva, del fallimentare tradimento di ogni avanguardia politico-rivoluzionaria17.

Il secondo slittamento nel gioco tra anarchismo e filosofia radicale del XX secolo, a mio avviso non il più rilevante, concerne una mal posta concettualizzazione della rivoluzione nella contrapposizione tra evento e processo. La prima, tipica di una certa classicità politica, si innesta nell’alveo della traduzione secolare moderna della teologia politica classica, che individua la rottura di continuità esclusivamente, ma anche ossessivamente, in una cesura taumaturgica riassumibile in un solo nome: la rivoluzione, appunto, contraltare secolare dell’avvento della rivelazione. Privata della ciclicità di stampo astronomico, la storia del Novecento ci ha consegnato un evento temibile e terribile al contempo, più per le vittime che per i pretesi protagonisti, come se la sua politicità intima premiasse le élite in cerca di successione e non coloro nel cui nome veniva perseguito l’evento che avrebbe dovuto cambiare per sempre la qualità della vita. La seconda, di contro, catturata entro una cornice di moderazione, denega la rottura in una sorta di continuità in perenne metamorfosi, delle cui trasformazioni qualitative non riesce però a rendere conto. La fluidità del processo attira l’attenzione sulle segmentazioni ininterrotte che segnano l’esistenza di un consesso sociale, laddove lo sguardo calibrato su di esse ci priva della percezione di rotture qualitative che concorrono a mutare la grana della società, anche senza toccare la sfera separata della politica. Evento e processo come emblemi del concetto di rivoluzione subiscono la divisione del lavoro: il primo rientra nella scissione dell’autonomia del politico, laddove il secondo registra le trasformazioni innegabili delle epoche storico-materiali, sottolineando le diffuse mutazioni tecnologiche, etiche, sociali, spirituali, intellettuali, culturali.

Insomma, le società cambiano di continuo, a prescindere da tutti coloro che lottano per le grand soir, ma senza offrirne una consapevolezza cosciente per tutti coloro che partecipano, quasi senza accorgersene, alle trasformazioni di cui sono attori non protagonisti, per così dire. Il pensiero postmoderno opera una sorta di interpolazione incrociata: per un verso, si accorge che entro la sfera scissa della politica non è più pensabile, forse anche perché inopportuno visti i danni della storia del Novecento, collocare il pilota collettivo della trasformazione sociale; per l’altro, si limita a registrare, con qualche punta di insofferente lucidità, che entro il processo della mutazione sociale il dettato dell’orientamento generale resta ancora affidato alle formazioni sovrane tese a catturare tale mutazione per volgerla secondo interessi strategicamente precisi, ora nell’ambito del capitalismo globale, ora nella sfera della politica di potenza, ora nell’aura della strumentalizzazione religiosa e spirituale.

L’anarchismo contemporaneo sembra oscillare tra queste due interpolazioni, in una pratica discorsiva che rimane ancora ambigua o ambivalente, ma non ancora ibridata a tal punto da offrire una capacità analitica e strategica alle mutazioni che comunque si danno a vari livelli, su piani differenziati e in snodi cruciali. Tale incertezza è globale, non solo nel senso della latitudine in cui essa si presenta, bensì nel senso di un’insufficienza di pensiero e di pratica che è legata alla condizione mondiale in atto, in cui si esita a sciogliere la sfida decisiva della critica della politica, tanto nelle sue forme specifiche, quanto nella sua logica che informa un’organizzazione della vita che penetra sin dentro la comune grammatica dell’azione collettiva, in un’espressione: il primato dello statuale.

Decostruirlo significa innanzi tutto esibirne le fragili fondamenta sull’abisso del vuoto, significa evidenziare le aporie costitutive che non obbediscono alle logiche della contraddizione, bensì al mero tentativo di colmare quel vuoto riempiendolo di immaginari, sogni, necessità da spacciare per naturali, bisogni da soddisfare, orizzonti da conseguire, splendore gratificante da raggiungere a ogni costo, e via dicendo. Ma significa altresì, sulla scia di Foucault, dimostrare come lo Stato non saturi ogni forma vitale della società pur tentando continuamente di catturarla al proprio interno, come le relazioni di potere conoscano diverse forme di realizzarsi non sempre verticali e gerarchiche, come il governo della società civile non abbia seguito la volontà sovrana e da esso sia plausibile, seppur arduo, ricavare le risorse per l’autogoverno di una società che si scrolli di dosso il modello statuale internalizzato nelle condotte quotidiane.

Ciò che è possibile moltiplicare ibridando anarchismo e pensiero filosofico radicale del XX secolo, non sono esclusivamente le categorie che si sono rivelate usurate dal tempo, per via di un naturale logorio dovuto all’uso costante, quanto i modi della narrazione del discorso anarchico, teorico e pratico insieme, che nel farsi si avvii a modificare in parte quegli aspetti della grammatica che non rispondono più alla responsabilità cui siamo chiamati a tenere nel XXI secolo, che non rispondono più alle istanze globali e territoriali per la cui lettura occorre uno sforzo analitico senza dubbio diverso dal recente passato, che non rispondono più ai livelli comunicativi degli interlocutori virtuali con cui potenzialmente dialogare tenendo conto della differenza demografica, culturale, esistenziale già in atto.

Del resto, qualunque significato assumerà l’anarchismo del XXI secolo, in ragione dei luoghi ove esso risponderà alle aspettative diffuse di cambiamento qualitativo della vita singolare e plurale sotto il segno dell’egual-libertà, esso emergerà comunque sulla capacità tutta affermativa1818 di esortare alla passione del vivere liberi secondo un immaginario da proiettare in maniera pur approssimativa, ma sulla scia di oltre un secolo di sperimentazioni sociali all’insegna dell’autogoverno, dell’autogestione, dell’orizzontalità delle forme organizzative, e così via; solo parallelamente e in sua funzione l’anarchismo saprà affermarsi come analisi radicale del presente e quindi come spazio di mobilitazione e di partecipazione consapevole alla trasformazione orientata della società in cui ognuno di noi si trova a vivere, proseguendo il sempiterno conflitto estraneo e ostile al contempo con l’autorità ovunque essa si annidi, sia pure in forma germinale. Infatti, essa sorge sempre da un tessuto relazionale contingente e mobile che cerca di bloccare e congelare in un ordine ferreo e inamovibile, servendosi di una forma del pensare che l’Occidente ha forgiato sin dall’inizio della riflessione metafisica, contro cui è necessario attivare interruzioni di memoria storica (Nietzsche) e deviazioni tangenziali che la facciano debordare e delirare dal perimetro pre-determinato, per inaugurare un’avventura in sintonia con le forme sperimentali della libertà e dell’eguaglianza radicali.

Note all’Introduzione


  1. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. Einaudi, Torino, 1966, p. 6. Secondo Adorno, solo la chiave estetica riuscirà a dischiudere la conciliazione in quanto unità non totalizzante del molteplice (Teoria estetica, trad. it. Einaudi, Torino, 1975, in particolare p. 227). A tal proposito, cfr. Albrecht Wellmer, Verità, parvenza, conciliazione, trad. it. in La dialettica moderno-postmoderno, Unicopli, Milano, 1987.↩︎

  2. John Caputo, Justice, if Such a Thing Exists, cap. V in Deconstruction in a Nutshell. A Conversation with Jacques Derrida, Fordham UP, New York, 1997, p. 125. Cfr. dello stesso John Caputo, Beyond Aestheticism: Derrida’s Responsible Anarchy, «Research in Phenomenology», 18, 1988, pp. 59-73.↩︎

  3. Jacques Derrida, Posizioni, trad. it. Bertani, Verona, 1975, p. 46.↩︎

  4. Jacques Derrida, Negotiations: Interventions and Interviews, 1971-2001, Stanford UP, Stanford, 2002, p. 22. «Il pensiero esige sia il principio della ragione, sia ciò che oltrepassa il principio della ragione, l’arché e l’an-archia»; Jacques Derrida, The Principle of Reason, «Diacritics», XIII, 1983, n. 3, pp. 18-19.↩︎

  5. Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, trad. it. in Microfisica del potere, Einaudi, Torino, 1977, p. 53.↩︎

  6. Ibidem, p. 32.↩︎

  7. Ibidem, p. 38.↩︎

  8. Gilles Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, trad. it. Ombre corte, Verona, 2007, in particolare la IV lezione del 12 dicembre 1980 dalla quale è tratta la seguente citazione: «Ogni ente effettua la quantità d’essere che gli è propria, punto. È una prospettiva antigerarchica, che al limite può essere definita anarchica: l’anarchia degli enti nell’essere. L’assunto di base dell’ontologia è che tutti gli enti si equivalgono dal punto di vista dell’essere: la pietra, il folle, l’uomo razionale, l’animale. Ogni ente effettua la medesima quantità d’essere che possiede, e l’essere avrà un unico e medesimo senso per tutti. È l’entusiasmante idea di un mondo estremamente selvaggio» (p. 90).↩︎

  9. Henning Teschke, What is difference? Deleuze and Saint Thomas, «Verbum», VI, n. 2, Budapest 2004, pp. 413, 421. «Deleuze e Guattari sono, se non altro, filosofi di un tipo di libertà per il quale non abbiamo ancora elaborato un concetto – a meno che non sia l’anarchismo; Gerald L. Bruns, Becoming-Animal, «New Literary History», XXXVIII, 2007, p. 716 (che a p. 705 parla esplicitamente di «anarchia del divenire»). Cfr. altresì Gilbert Simondon, L’individu et sa genèse physico-biologique, Millon, Paris, 1995.↩︎

  10. «Proudhon, d’ailleurs, écrivait aussi an-archie pour marquer l’absence de principe directeur centralisant, le défaut d’arché» (René Schérer, Visions croisées, «Le Portique», n. 20, 2007).↩︎

  11. Mitchell Verter, The Anarchism of Other Person, http://www.waste.org/~roadrunner/writing/Levinas/Anarchism, pp. 8-9; The Production and Consumption of Self and Property in Locke, Hegel and Lévinas, http://www.waste.org/~roadrunner/writing/Levinas/SelfAndProperty, p. 30.↩︎

  12. Francis Guibal, Commandement, anarchie, ambiguïté. La pratique philosophique de l’excès chez E. Lévinas, «Archives de philosophie», LXIX, 2006, n. 4, in particolare p. 558.↩︎

  13. Simon Critchley, Responsabilità illimitata, trad. it. Meltemi, Roma, 2008, pp. 143-144.↩︎

  14. Jacques Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 63-64. «Ora l’operazione consistente nel fondare, inaugurare, giustificare il diritto, nel fare la legge, consisterebbe in un colpo di forza, in una violenza performativa e dunque interpretativa che in sé non è né giusta né ingiusta e che nessuna giustizia, nessun diritto preliminare e anteriormente fondatore, nessuna fondazione pre-esistente, per definizione, potrebbe garantire né contraddire o invalidare. Nessun discorso giustificativo può né deve assicurare il ruolo di metalinguaggio rispetto alla performatività del linguaggio istituente o alla sua interpretazione dominante» (pp. 62-63).↩︎

  15. Michel Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, postfazione a Hubert L. Dreyfus, Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, trad. it. La casa Usher, Firenze, 2010, p. 280.↩︎

  16. Ibidem, p. 283. «Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di ‘doppio legame’ politico, costituito dall’individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere moderno. La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi non è tanto di liberare l’individuo dallo Stato, e dalle sue istituzioni, quanto di liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato» (p. 287).↩︎

  17. «L’effetto Mühlmann descrive un aspetto troppo spesso trascurato dell’istituzionalizzazione: il simulacro di realizzazione del progetto iniziale accompagna forzatamente il crollo di tale progetto. L’accettazione del simulacro, e la sua valorizzazione man mano che la profezia si allontana, è un tormento dell’inconscio, un prodotto dell’immaginario che va a colmare il vuoto conseguente al fallimento dell’immaginario profetico»; René Lourau, Lo Stato incosciente, trad. it. Antistato, Milano, 1980, p. 90; elèuthera, Milano, 1988.↩︎

  18. Daniel Colson, nel suo Petit lexique philosophique de l’anarchisme. De Proudhon à Deleuze (Le livre de poche, Paris, 2001), ci rammenta come sia stato Proudhon a parlare per primo di anarchia positiva (pp. 27-28), cioè «la capacità di un ordine fondato sulla molteplicità di esprimere, senza morire, la potenza del fuori» (p. 323).↩︎