Una critica della disgiunzione anarchica

Salvo Vaccaro

2024-01-19

È facile pensare all’anarchismo come a una teoria politica nell’irruzione moderna del rischiaramento razionale contro l’oscurità dei dogmi religiosi, della teologia politica che ispirava la teoria e la pratica della sovranità assoluta prima, e costituzionale in seguito. Una forma estrema della carica politica dei Lumi, rispetto alle altre teorie politiche ad esso coeve, il liberalismo e il socialismo utopistico prima, marxiano poi. E come tale, a distanza di oltre un paio di secoli, destinato all’usura del tempo, alla vanificazione post-moderna con cui si pretende liquidare le certezze di una ragione cieca e iper-potente già denunciata nella sua aporia costitutiva da Adorno e Horkheimer.

Questa facile profezia viene puntualmente smentita da Catherine Malabou, che nella sua ricerca culminata nel libro Al ladro! Anarchismo e filosofia dimostra come, nonostante l’egemonia del marxismo nella cultura europea del Novecento, nonostante la liquidazione dell’anarchismo tanto dal punto di vista teorico – l’accusa di infantilismo lanciata da Lenin, da quale pulpito! – quanto dal punto di vista politico – dalla machnovščina nella Russia rivoluzionaria alla Spagna del 1936 la cui rivoluzione libertaria fu soffocata dallo stalinismo spalancando la strada al secondo conflitto mondiale – un segmento consistente della filosofia e della filosofia politica del XX secolo, e di quel segmento la sezione più radicale a ben vedere, abbia intrattenuto una riflessione corposa con il pensiero anarchico, miscelandosi ad esso, succhiandone linfa vitale, rielaborandolo e innovandolo in modo interessante e fecondo, «rubandone» elementi cruciali, infine denegando il côté tutto politico dell’anarchismo stesso.

Se osserviamo questo stesso trend culturale sul versante dell’agire politico, ciò non desta sorpresa perché ormai da decenni ogni azione sociale e politica che irrompe sulla scena della storia e sulla geografia dei territori del pianeta con una qualche novità tale da stagliarsi nel panorama degli eventi degni di essere presi in considerazione si veste di metodi e di ethos libertari, sia nelle modalità organizzative, sia nelle forme associative, sia nei costumi e nelle pratiche discorsive, soprattutto nella fetta di civiltà occidentale che a partire dalla caduta del muro di Berlino segna, simbolicamente, la fine del bipolarismo geopolitico, l’evanescenza della seduzione marxista, il collasso dei sistemi di partito. I movimenti emergenti sull’onda lunga dell’anno convenzionale del 1968 – al netto della torsione autoritaria impressa dalla tattica leninista della lotta armata – hanno adottato pratiche libertarie: dai Black Bloc sparsi ovunque, ad Occupy Wall Street, dagli Indignados ai Sìglobal (ostili alla finta globalizzazione tutta mercatista, del neoliberalismo che negava la globalizzazione planetaria dei nessi umani, sociali e di specie oggi così tanto evidenti da mettere in discussione il futuro della terra), da Marcos nelle alture del Chiapas al Rojava nelle alture curde.

Malabou registra la scissione di ciò che dovrebbe trovare congiunzione, ossia il piano filosofico dell’anarchia come negazione del fondamento originario che ispira la narrazione sempiterna del privilegio altrettanto originario del comando, ed il piano discorsivo della pratica anarchica che si effettua soprattutto sul versante della negazione dell’autorità, tralasciando, riterrei colpevolmente, il piano della riflessione filosofica che tuttavia è imprescindibile per dischiudere un immaginario forcluso dall’arkhé. E indaga le motivazioni per cui Reiner Schürmann, Emmanuel Lévinas, Jacques Derrida, Michel Foucault, Giorgio Agamben e Jacques Rancière, affrontano nei propri e specifici percorsi di ricerca la questione dell’arkhé e delle ragioni della sua negazione an-archica, rintracciandone le faglie filosofiche che impediscono a questi pensatori di declinare la filosofia an-archica con la pratica teorica dell’anarchia politica, sociale ma innanzitutto, a mio parere, etica. Quanto all’assenza di una pratica anarchica, un tempo si sarebbe detto militante, in tali autori, contesti storici, formazioni teoriche, esperienze politiche potrebbero intervenire per suggerire una qualche spiegazione de facto, di superficie, che però Malabou correttamente non prende in considerazione soffermandosi sulla denegazione prettamente filosofica.

Ovviamente, a tali autori individuati da Malabou farebbero buona compagnia Walter Benjamin, Simone Weil, Hannah Arendt, Claude Lefort, Gilles Deleuze, Cornelius Castoriadis, Miguel Abensour, Judith Butler, ossia altri filosofi e filosofe del Novecento, altrettanto non anarchici come i primi, che però hanno riflettuto e pensato l’anarchismo senza ostracismi pregiudiziali. La denegazione non è solo riconducibile a una fascinazione fantasmatica da buco nero per cui occorre preoccuparsi di non precipitarvi. Essa è rinvenibile altresì sul versante della pratica politica, della costruzione cioè di un regime discorsivo anarchico effettuato più o meno consapevolmente dai movimenti anarchici, i quali dal loro canto hanno allargato, e non ristretto, la forbice tra anarchia filosofica e anarchia politica.

In primo luogo, infatti, va registrata e non sottovalutata la sfasatura temporale e contestuale della concettualizzazione dell’anarchia che risale alla filosofia greca e si prolunga per i secoli sino alla definizione della pratica politica anarchica che risale all’era moderna quando il pensiero acquista la legittimazione a tradursi in pratica trasformatrice del mondo, e non solo in attività contemplativa. Proprio questa sfasatura ha consentito l’affermazione di una concezione non solo lessicale distorta e falsificatrice dell’anarchia e dell’anarchismo, operata non tanto da improbabili «rivali» politici ma anche e soprattutto da filosofi inorriditi di fronte all’abisso di una negazione radicale dell’arkhé funzionale a servire da pilastro di legittimità del comando politico in senso stretto. La difesa moderna del significato etimologico corretto dell’anarchia ha quindi rintracciato in certa pratica filosofica l’obiettivo di contrasto, date le precedenti perversioni semantiche, arrivando alla maturazione di una attitudine teorica in cui l’aggancio all’agire politico fosse premiante rispetto all’attività riflessiva della filosofia, peraltro spesso confusa con la mera contemplazione passiva dell’esistente e del modo di stare al mondo.

In secondo luogo, non va trascurato il dato che l’ipotesi di s-fondamento anarchico di ogni cornice normativa che fissa lo statuto filosofico di una pratica politica priva l’anarchismo politico di un criterio univoco di assegnazione di identità sicura ad ogni forma di pensiero-azione che ad esso si richiami. Così, è maturata la convinzione che nessun anarchico assegna patenti identitarie e che il criterio discernente non è di segno politico o teorico, bensì squisitamente etico, ossia l’anello di congiunzione tra agire e pensiero nel senso della sua intrinseca coerenza. Etica nel senso di ethos, ossia di condotta individuale e collettiva in linea con il diagramma di stili e forme di vita – per certi versi ascetico – valorizzati nella significazione anarchica.

In terzo luogo, pertanto, non è mera casualità che nel «pantheon» dell’anarchismo politico risultino autori, alcuni dei quali anche filosofi ma non necessariamente, la cui produzione teorica è strettamente connessa e ne risulti legittimata da una coerente pratica politica di tipo militante: è il caso di Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Goldman, Malatesta, per citare i più significativi, accreditati e riconosciuti maestri di anarchismo i quali, nell’unire pensiero e azione, declinavano la loro stretta identificazione nella propria persona(lità) di anarchici – oggi potremmo aggiungere, sebbene meno «classici» per ovvie ragioni, Clastres (forse), Bookchin e Graeber. Il che non è riconosciuto, invece, per esempio a Godwin, a Stirner, a Sorel, e più indietro nel tempo a de La Boétie (che pure è il più innovativo, dati i tempi in cui elabora e scrive, nonché il primo che intravede la fragilità contingente e costitutiva dell’autorità politica che si regge sulla volontà di servire, tolta la quale il sovrano resta nudo e solo).

Altrettanto non riconosciuti gli autori presi in considerazione da Malabou che hanno affrontato la filosofia an-archica senza essere anarchici, senza posizionarsi in una qualche maniera all’interno della costellazione anarchica – che è plurale e variegata per definizione e per contesto storico-geografico – e senza praticare lotte libertarie (ma con l’eccezione di Foucault, a ben vedere).

Ci troviamo dunque di fronte a una doppia denegazione, che indebolisce la potenza della critica anarchica sia sul versante filosofico che sul versante più strettamente politico. Come ha dimostrato Malabou, l’incompletezza della critica filosofica an-archica si arresta alle soglie di un immaginario radicalmente aperto sull’abisso dell’assenza di fondamento, mentre l’incertezza dell’anarchismo politico nei confronti dell’approccio teorico-filosofico tronca la critica dell’autorità politica di fronte ad una risorsa di legittimità radicata nell’inconscio collettivo, ossia l’arkhé come origine inaggirabile del comando sempiterno giusto perché risalente alla notte dei tempi che furono. La mancata declinazione congiunta e convergente, pur nella rispettiva autonomia di strategia concettuale di destituzione di senso, tra arkhé filosofica e arkhé politica ridimensiona la potenza del negativo, relegando soprattutto la critica filosofica ad una delle varianti di pensiero tuttavia ineffettuale sul mondo, laddove la critica politica viene ridotta a una delle ideologie della modernità e come tale superate dall’iper-modernità in cui perde di senso e di presa sul mondo.

Non credo sia un azzardo intellettuale ritenere che l’unico, tra gli autori analizzati da Malabou, che si sia sforzato concettualmente, prima ancora che politicamente, a colmare lo iato tra filosofia e politica sia stato Foucault. Nel declinare il nesso tra filosofia e politica, rispettivamente sotto il segno della verità del sapere e della necessità del potere, in maniera originale, è arrivato persino a coniare un inedito lemma di anarcheologia, una ulteriore crasi lessicale come, ad esempio, nell’altro caso della governamentalità. Si interroga infatti Foucault: «il legame volontario con la verità, che cosa può dire sul legame involontario che ci fa aderire e ci piega al potere?». Ma, con maggiore vigoria, immediatamente dopo ribalta l’interrogativo e si domanda: «che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza e al legame con la verità con cui egli si trova involontariamente annodato? […] Essendo dati la mia volontà, decisione e sforzo di sciogliere il legame che mi lega al potere, che ne è allora del soggetto di conoscenza e della verità? […] È il movimento per liberarsi del potere che deve fare da rivelatore delle trasformazioni del soggetto e del rapporto che mantiene con la verità».

Il legame tra sapere e potere, tra soggetto e verità viene così ad essere analizzato da una prospettiva radicale, in senso letterale, che si differenzia dallo scetticismo o dalla sospensione di giudizio, e che attiene a una postura ethopolitica, un «atteggiamento che consiste innanzitutto nel dirsi che nessun potere va da sé, nessun potere, qualunque esso sia, è evidente o inevitabile, nessun potere, di conseguenza, merita di essere accettato fin dall’inizio del gioco. Non c’è una legittimità intrinseca del potere, dal momento che nessun potere è fondato di diritto o per necessità, dato che ogni potere poggia sempre e solo sulla contingenza e sulla fragilità di una storia, che il contratto sociale è un bluff e la società civile una favola per bambini, che non c’è alcun diritto universale, immediato ed evidente che sia in grado di sostenere dovunque e sempre un rapporto di potere, qualunque esso sia».

La congiunzione tra ricerca filosofica e critica politica si deposita così nell’affermazione secondo la quale il percorso filosofico altro di Foucault, «laterale e controcorrente», anche rispetto alle filosofie del dubbio metodico che minano la granitica indissolubilità delle verità ereditate, «consiste nel cercare di far giocare sistematicamente non la sospensione di tutte le certezze, ma la non-necessità del potere, qualunque esso sia». «È l’anarchia, l’anarchismo», anticipa Foucault stesso l’idea, la concettualità, il nome che immagino i presenti al Collège de France quel 30 gennaio 1980 avranno bisbigliato a se stessi o al vicino ascoltando questo ribaltamento prospettico.

Pur non trovandoci nulla di male nell’usare quei termini – l’aveva già detto in occasione di una conferenza alla Société Française de Philosophie quasi un paio di anni prima, esattamente il 27 maggio 19781 – e ammettendo di poter ridiscutere una interpretazione «un po’ grossolana» e approssimativa, Foucault rigetta lo stereotipo per cui la tesi anarchica postula una essenza malvagia del potere, ponendosi come fine ultimo la sua abolizione definitiva. «Innanzitutto, non si tratta di tendere a una società senza rapporti di potere come conclusione di un progetto. Al contrario, si tratta di mettere il non-potere o la non-accettabilità del potere non a conclusione dell’impresa, ma all’esordio del lavoro, nella forma di una messa in questione di tutti i modi con cui effettivamente si accetta il potere. In secondo luogo, non si tratta di dire che ogni potere è malvagio, ma di partire dall’idea che nessun potere, qualunque esso sia, sia accettabile a pieno diritto e sia assolutamente e definitivamente inevitabile».

L’atteggiamento anarchico in Foucault sente il morso della lucidità di un ethos che muove da una postura filosofica a una pratica politica, da una negazione filosofica a una negazione politica senza soluzione di continuità, se non una sfumatura con il sentire tradizionale dell’anarchismo, ma sempre interna alla sua aria familiare. «In altre parole, la posizione che assumo non esclude assolutamente l’anarchia – e in fondo, ancora una volta, perché l’anarchia sarebbe così deprecabile? Lo è automaticamente, forse, soltanto per coloro che ammettono che c’è sempre necessariamente, essenzialmente, qualcosa come un potere accettabile. […] Si tratta di un atteggiamento teorico-pratico che riguarda la non necessità di ogni potere, e per distinguere questa posizione teorico-pratica sulla non-necessità del potere come principio di intellegibilità del sapere stesso, invece di usare il termine ‘anarchia’ o ‘anarchismo’ che non sarebbe adeguato, farò un gioco di parole… Vi proporrei, allora, una sorta di anarcheologia»22.

Al di là del gioco linguistico, il termine designa proprio tanto la negazione filosofica dell’arkhé come sostrato fondativo di ogni azzardo di pensiero che pretenda di negare la sua contingenza per auto-definirsi universale e sovra-storico, quanto, nel contesto delineato da Foucault – le cui lezioni, vale la pena ricordare, erano lungi dall’essere frutto di una oralità spontanea ancorché erudita, essendo per lo più meditate e scritte in anticipo – l’ethos affermativo di una posizione teorico-pratica, quindi politica, che sutura quello iato denunciato da Malabou. Rifiutando che l’anarchia sia un telos più o meno raggiungibile, una ou-topia che un giorno diverrà eu-topia realizzata, Foucault attua uno spiazzamento cruciale, ponendo l’anarchia come rigetto dell’arkhé al tempo stesso in cui si pone l’arkhé come strategia concettuale e politica insieme per imporre una condizione di dominio di pochi sui molti. Nel cuore di questa stessa strategia si dà la risorsa per confutarla filosoficamente e contrastarla politicamente.

Molto probabilmente, Foucault è l’unico tra i filosofi radicali che hanno costellato il panorama europeo nella seconda metà del XX secolo ad aver maturato un anarchismo filosofico e politico, con qualche «discesa in campo» con lotte libertarie contro i manicomi, le carceri, l’oppressione politica, rilanciando e sapendo rinnovare anche terminologicamente un arsenale teorico risalente almeno al secolo precedente, lungo un percorso di continuità e discontinuità che non può che fare bene sia al pensiero sia all’agire anarchico.

Note


  1. Si tratta della conferenza Qu’est-ce que la Critique? [Critique et Aufklärung], rintracciabile in italiano in Michel Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma, 1997, sulla quale mi sono soffermato in un paio di occasioni: Foucault: dall’etopoiesi all’etopolitica, in «Materiali foucaultiani», nn. 7-8, IV/2015; «De l’éthopoiesis à l’éthopolitique», in La pensée politique de Foucault (s. d. O. Irrera, S. Vaccaro), Kimé, Paris, 2017.↩︎

  2. Tutte le citazioni foucaultiane sull’anarcheologia sono tratte da Michel Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 84-85-86.↩︎