Introduzione a ‘Central Park un’isola di libertà’

Marco Sioli

2023-08-28

INDICE DEL LIBRO:

Introduzione // CAPITOLO PRIMO Il progetto di Frederick Law Olmsted // CAPITOLO SECONDO Il parco del popolo // CAPITOLO TERZO Gli orsi e i rivoluzionari // CAPITOLO QUARTO Un’oasi verde // CAPITOLO QUINTO Contro le guerre e le armi // Conclusioni

Born to Be Wild (Nato per essere selvaggio) non è solo il titolo di una canzone di grande successo, originalmente composta nel 1968 dagli Steppenwolf e replicata nei decenni successivi da gruppi di musica rock, country e pop. Born to Be Wild è anche una parte fondamentale della colonna sonora del film Easy Rider, uscito nelle sale cinematografiche l’anno successivo. Il film mette in scena l’essenza della controcultura americana nella ricerca di libertà, quella libertà che gli Stati Uniti stessi all’epoca rappresentavano, un simbolo per una generazione di giovani in fuga dalla guerra del Vietnam che interpretava il desiderio di evasione dal conformismo della middle class americana tradizionalista e ultraconservatrice1.

Due motociclisti hippie, Peter Fonda e Dennis Hopper, e un avvocato alcolizzato in giacca e cravatta, Jack Nicholson, iniziano il loro itinerario on the road da Taos, in New Mexico, dove Hopper aveva acquistato la casa della facoltosa scrittrice Mabel Dodge Luhan, che da New York si era trasferita lì, con il marito pittore Maurice Sterne, per fondare negli anni Venti del Novecento una comunità di artisti e intellettuali2. Un viaggio verso il carnevale di New Orleans e poi oltre sulle strade del Sud dove i due motociclisti si scontreranno inevitabilmente con l’America violenta e intollerante. Qui Peter Fonda, alias Captain America, incontrerà la morte colpito da un colpo di fucile partito dal finestrino di un camioncino scassato di rednecks, i proletari bianchi che abitano nelle aree rurali e suburbane, l’America profonda che ancora oggi segna il tempo politico della nazione, un mondo splendidamente raccontato da Joe Bageant nel volume La Bibbia e il fucile3.

Ma «Nato per essere selvaggio» potrebbe essere anche una formulazione valida per Central Park, il primo parco pubblico urbano negli Stati Uniti, così come lo aveva immaginato il suo creatore, l’architetto del paesaggio Frederick Law Olmsted, che insieme all’inglese Calvert Vaux disegnò il progetto originale. Il piano «Greensward» (manto erboso), da loro proposto nell’aprile 1858, vinse il concorso ufficiale cui parteciparono ben trentatré progetti molto diversi tra loro che preferivano all’interno dello spazio verde musei e giardini botanici ma anche un ippodromo per la corsa dei cavalli. Anche se il progetto fu firmato da entrambi, era Olmsted che aveva preso il sopravvento nella definizione degli spazi verdi, mentre a Vaux erano rimaste le incombenze che riguardavano la costruzione degli edifici. È quindi corretto affermare che Central Park è «una creazione straordinaria di un uomo straordinario», Frederick Law Olmsted4.

Anche Olmsted, come i protagonisti di Easy Rider, aveva viaggiato negli Stati del Sud, ma lo aveva fatto quando ancora esisteva la schiavitù. Nel 1856, proprio prima di impegnarsi nel progetto di Central Park, era stato incaricato dal «New York Daily Times» di raccontare la condizione, sia economica sia sociale, della società sudista. In questi articoli per un giornale che sarebbe diventato il «New York Times», un pilastro del giornalismo americano, Olmsted aveva commentato gli sviluppi dell’economia sudista, evidenziando l’assenza di strade che potessero supportare un commercio dedicato alle produzioni del tabacco e del cotone. Tuttavia, il limite principale per lo sviluppo di queste regioni per Olmsted era proprio l’istituzione della schiavitù5.

Olmsted non era l’unico a pensarla in questo modo. Molti osservatori del Nord consideravano il mondo delle piantagioni come «una barriera a un sano e completo percorso di crescita e relativo processo di accumulazione», anche se di questo gli abitanti di quegli Stati non erano così convinti. Tutt’altro, la loro idea era di difendere con le armi e la violenza il loro mondo fatto di catene e linciaggi, anche se i grandi piantatori commissionavano agli artisti quadri in cui gli schiavi comparivano come servi devoti, oppure come «minuscole figure che brandivano qualche attrezzo agricolo»6. Secondo il giornalista della Virginia George Fitzhugh, autore del volume Sociologia del Sud pubblicato nel 1854, la presenza degli schiavi svincolava i bianchi del Sud dai lavori umili e servili preservandoli dal divenire «schiavi del capitale» com’era successo ai lavoratori del Nord. Questo, a suo parere, originava una società violenta in una civiltà bianca egualitaria e dedita all’autogoverno, guidata da un’aristocrazia agraria benevola con chiaro senso dell’onore e della famiglia7.

Nato il 26 aprile 1822 a Hartford, nel Connecticut, da Charlotte Law e John Olmsted, il padre della Landscape Architecture, la disciplina che si occupa della progettazione degli spazi verdi, era l’espressione del New England rurale. Non a caso aveva firmato come Yeoman gli articoli per il «New York Daily Times», quindi un semplice agricoltore, un piccolo contadino proprietario del terreno che lavorava. Un Yeoman illuminato che aveva studiato orticoltura per migliorare le produzioni del territorio. Erano anni di grande trasformazione per le campagne del New England, un tempo che Ralph Waldo Emerson, il celebre filosofo trascendentalista, ha chiamato l’età della Rivoluzione, in cui «le storiche glorie del vecchio possono essere compensate dalle ricche possibilità della nuova era, le scienze moderne si sposano con l’agricoltura e la campagna interagisce con la città, rendendo possibile la creazione di una società industriale»8.

L’intensificazione del lavoro nelle fattorie accelerò il rapporto d’interscambio tra città e campagna. I contadini del New England cominciarono a reclamare il diritto a utilizzare i numerosi acri di terreno paludoso rimasto incolto e la domanda di legna esplose con il rischio di un diboscamento delle foreste. Il colpo della scure e il frastuono degli uomini al lavoro nei campi erano i suoni che imperavano nel libro Walden di Henry David Thoreau, il pupillo di Emerson9. Per Thoreau il nuovo ordine delle cose non lasciava spazio al verde pubblico e il capitalismo agricolo toglieva indipendenza alle persone. La gente era ridotta a mero strumento degli attrezzi che utilizzava e l’intensificazione del lavoro significava una riduzione dell’autonomia individuale. Inoltre, la commercializzazione della vita portava al dominio della merce sull’uomo e le persone passavano la vita ad ammucchiare cose che non avrebbero mai usato. Tutto questo conduceva a un’ineguaglianza di risultati: l’accumulazione portava alla disparità negli standard di vita generando il lusso, che per Thoreau aveva come fondamenta lo sfruttamento dei tanti da parte dei pochi. Dal materialismo imperante derivava una decadenza dello spirito: si spendevano i denari per case sfarzose, ma si lesinavano i mezzi per le biblioteche e le scuole10.

Thoreau ed Emerson esaltavano la natura. Emerson aveva dedicato addirittura un intero saggio a proporre un modello di relazione dell’uomo con la natura basato sul pensiero anti-utilitarista. «La natura è amata dalla nostra parte migliore» scriveva Emerson11. Pubblicato nel 1836 al ritorno dal viaggio in Italia, Natura descriveva il fascino che il mondo rurale rivestiva per gli abitanti del New England. Un’attrazione che non nasceva da un ingenuo culto della natura, ma fin dall’inizio era parte integrante della retorica americana, fissando alcuni luoghi comuni condivisi sia dalla cultura alta sia da quella popolare. Vedere e memorizzare i tratti della natura equivaleva ad avvicinarsi allo spirito divino.

«Cos’è mai la natura, se non l’attraversa una rigogliosa vita umana?» si chiedeva invece Thoreau nei suoi diari12. Dal suo laghetto di Walden, a due passi da Concord, egli osservava una natura diversa, più politica, che metteva in scena in due scritti come Disobbedienza civile del 1849 e In difesa del capitano John Brown del 1860. In queste due brevi opere dense di contenuti, egli teorizzava non solamente la resistenza passiva all’autorità costituita, come nel caso della notte trascorsa in prigione per l’obiezione fiscale contro il finanziamento della guerra contro il Messico, ritenuta profondamente immorale13, ma anche il diritto di rispondere con la forza all’ingiustizia perpetrata a danno della natura e dell’uomo, che doveva essere libero. Libero come John Brown che entrò nella leggenda per aver cercato di emancipare gli schiavi con la forza assaltando l’arsenale militare di Harper’s Ferry, in Virginia, nell’ottobre 1859 e dando loro le armi per l’insurrezione. Per Thoreau, John Brown era «un contadino del New England, un uomo di grande buon senso, prudente e concreto… franco nel parlare e nell’agire… un uomo di idee e principi», e dopo la sua impiccagione, il 2 dicembre, era diventato un martire della libertà. Quando la schiavitù non esisterà più in America, scrisse Thoreau: «Allora saremo liberi di piangere per il capitano Brown. Allora, e solo allora, ci riprenderemo la nostra rivincita»14.

Quando nel luglio 1862, solo qualche mese dopo la morte a soli quarantaquattro anni, l’«Atlantic Monthly» pubblicò il lungo scritto Camminare, le riflessioni di Thoreau erano ritornate alla natura. «Vorrei spendere una parola in favore della natura, dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio, contrapposti a una libertà e una cultura puramente civili» esordiva lo scritto. Nel continuo girovagare nei dintorni di Concord, da cui non si muoveva mai, l’autore esaltava la natura selvaggia da cui dipendeva la sopravvivenza del mondo. «La mia esistenza dipende in gran parte dalle paludi che circondano la città, e non dai giardini ben coltivati nel villaggio» chiosava ancora Thoreau in questo testo carico di significati15. Niente aiuole fiorite o vasi ordinati dunque, ma una vera e propria wilderness – letteralmente un’area incontaminata e selvaggia – all’interno della città per sopperire al degrado ambientale e alla sempre maggiore estensione delle aree edificate.

Il senso di libertà che l’individuo realizzava all’interno degli ampi spazi naturali, proprio di Thoreau ed Emerson, ispirò Frederick Law Olmsted. Un senso di libertà che egli mise in pratica quando si cimentò con il progetto di Central Park. Il luogo destinato al parco non era altro che un’area desolata abitata da squatters che avevano costruito una baraccopoli spontanea. La città di New York – a quel tempo semplicemente composta dall’isola di Manhattan, «un’isola lunga 16 miglia, solida di fondamenta», come il poeta Walt Whitman l’aveva raccontata16 – stava crescendo a dismisura riempiendosi di masse d’individui che la saturavano di voci e suoni, lingue e dialetti incomprensibili agli abitanti delle vecchie fattorie, prima olandesi e poi dal 1664 inglesi. Un costante afflusso di persone provenienti dall’Europa e afroamericani in fuga dagli Stati del Sud, neri liberi e schiavi, spesso capro espiatorio di politiche d’insediamento fallimentari, confinati dal pregiudizio che li considerava esseri inferiori.

Unire le persone e attutire le tensioni: ecco l’ipotesi di lavoro di Olmsted. Creare un territorio di mezzo, un middle ground, fra il ricco uptown, dove si trovavano all’epoca le ville dei politici facoltosi, come lo era stato Alexander Hamilton, il primo segretario del Tesoro americano, e il misero downtown, abitato da miriadi di nuovi immigrati, vomitati dalle navi nel caotico Lower East Side. Luoghi che, come ci ha raccontato il sociologo danese Jacob Riis, potevano ospitarti per una notte a 5 centesimi a posto, ma anche taverne che ti lasciavano dormire sulla sedia per tutta la notte a 1 centesimo a posto17. Nell’inverno del 1891 Riis ritornò a visitare i luoghi che aveva raccontato nel suo How the Other Half Lives, scattando altre fotografie. Era palese il desiderio di integrare questo mondo dei nuovi immigrati con il mondo wasp, bianco, anglosassone e protestante. Figlio di un maestro, lo stesso Riis era stato uno studente ribelle e appunto per questo pensava che l’istruzione non era solo una via per un miglior impiego, ma un modo per divenire un buon cittadino americano.

Central Park dunque come un territorio di mezzo dove queste persone potessero incontrarsi per poi tornare ciascuna nella propria zona: il povero proletario immigrato e il ricco borghese ormai affermato. Queste due anime s’intersecano nel definire uno spazio di libertà allargata, in cui si accede senza barriere né cancelli; il cortile di casa per generazioni di newyorkesi, ma anche un luogo di svago per i visitatori che si spostano lungo i percorsi tortuosi voluti dal fondatore in cui è facile perdersi e ritrovarsi, ammirando statue come quella del repubblicano Giuseppe Mazzini, del rivoluzionario cubano José Martí o del naturalista Alexander von Humboldt. Un paesaggio composito, lungo più di 4 chilometri e largo circa 1, fatto di alberi e colline, ponticelli e laghetti immersi in un’immensa distesa agreste.

Oggi Central Park rimane un progetto civico per la città, ma anche il parco americano più visitato dai turisti: 340 ettari di boschi e di piccole montagne, di sentieri e di prati, di rocce antiche e piccoli canyon. Il tutto circondato dai grattacieli di Manhattan, e segnato a nord dal quartiere di Harlem ormai ampiamente gentrificato. Nonostante il tempo trascorso dalla fondazione, l’isola verde si staglia ancora come un simbolo di libertà assoluta e nello stesso tempo un luogo di placida solitudine: un luogo di incontri, matrimoni, set cinematografici, concerti, opere in bronzo e Land Art, come quella temporanea dell’artista Christo nel 2005, ma anche uno spazio legato alle numerose proteste contro le guerre, per la difesa dell’ambiente, per i diritti civili e contro la diffusione delle armi nella società americana.

Bisogna smarrirsi nei luoghi, scriveva Walter Benjamin nel 1929, per raccontarci un’altra città di mare, Marsiglia. Bisogna perdersi in una città come «ci si smarrisce in una foresta» chiosava ancora riferendosi a Berlino18. Penso che lo stesso valga anche per New York e in particolare per Central Park; anzi, in questo caso, città e foresta coincidono. L’invito dunque è a perdersi in questo libro, nella storia del parco e nei percorsi tortuosi nel verde disegnati da Frederick Law Olmsted, tra alberi e arbusti, per poi ritrovarsi improvvisamente nella rumorosa e caotica Manhattan.

Note all’Introduzione


  1. Salvatore Proietti, Hippies! Le culture della controcultura, Cooper & Castelvecchi, Roma, 2003, pp. 129-131.↩︎

  2. Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrittori nel Sudovest, Giunti, Firenze, 1999, p. 237.↩︎

  3. Joe Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Bruno Mondadori, Milano, 2010.↩︎

  4. Roy Rosenzweig, Elizabeth Blackmar, The Park and the People. A History of Central Park, Cornell University Press, Ithaca-London, 1992, p. 121.↩︎

  5. Frederick Law Olmsted, A Journey in the Seaboard Slave States, Dix & Edwards, Sampson, Low & Son & Co., New York-London, 1856.↩︎

  6. Robin Blackburn, Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, Einaudi, Torino, 2020, p. 413.↩︎

  7. Arnaldo Testi, La formazione degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna, 2013, pp. 181-182.↩︎

  8. R. A. Gross, «Concord, Massachusetts: cultura e coltivazioni nella città di Thoreau», in Marco Sioli (a cura di), Metropoli e natura sulle frontiere americane, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 104.↩︎

  9. Henry David Thoreau, Walden. Vita nel bosco, Feltrinelli, Milano, 2021.↩︎

  10. Gross, «Concord, Massachusetts», cit., p. 119.↩︎

  11. Ralph Waldo Emerson, Natura, Ortica, Aprilia, 2021, p. 19. Sul viaggio in Italia di Emerson si veda Id., Dalla Sicilia alle Alpi, a cura di Marco Sioli, Ibis, Como-Pavia, 2003.↩︎

  12. Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, La semplice verità. I diari inediti, a cura di Stefano Paolucci, Piano B, Prato, 2012, p. 250.↩︎

  13. Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, a cura di Franco Meli, SE, Milano, 1992.↩︎

  14. Ibid., pp. 55, 90.↩︎

  15. Henry David Thoreau, Camminare, a cura di Franco Meli, SE, Milano, 1989, pp. 11, 37.↩︎

  16. Walt Whitman, «Mannahatta», in Foglie d’erba, a cura di Mario Corona, Mondadori, Milano, 2017, p. 1077.↩︎

  17. Jacob August Riis, How the Other Half Lives. Studies Among the Tenements of New York, Charles Scribner’s Sons, New York, 1890.↩︎

  18. Walter Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino, 2007, pp. 72, 103.↩︎