2020-08-10
INDICE DEL LIBRO:
Italiani brava gente? Più di vent’anni fa David Bidussa scriveva un pamphlet sul mito del buon italiano, un mito nazionale che si era sviluppato soprattutto negli anni del dopoguerra a opera di storici e giornalisti del tipo Indro Montanelli (il quale, in Abissinia, proprio bravo non era stato). Il mito fu riaffermato in un film del 1964 di Giuseppe De Santis chiamato appunto Italiani brava gente. Poi un libro «revisionista» (nel senso migliore della parola) a opera di Angelo Del Boca apparve nel 2005 con il titolo Italiani, brava gente? che smontava non pochi dei luoghi comuni che ancora sussistono.
I «bravi italiani», descritti dalla mitologia, non sono eroi, sono gente normale, non sono fanatici, e neanche idealisti o ideologi. Sono quelli che si incontrano per la strada, né belli né brutti, né intelligenti né stupidi; una volta, forse, avrebbero perfino aiutato gli ebrei o i partigiani, oggi danno una monetina ai poveracci. Insomma, sono «come noi». Gli «altri», di solito stranieri, erano i veri colonialisti, gli autentici razzisti, i truculenti antisemiti. Noi no. Certo c’era stata la Libia, poi l’Abissinia, c’erano le leggi razziali, ma non eravamo noi i veri responsabili, erano i fascisti, erano quelli che comandavano, insomma, erano gli «altri».
Ogni paese ha i suoi miti autoconsolatori. Le colonie venivano acquisite non per fare soldi o carriera o coprirsi di gloria, ma per aiutare, civilizzare, portare al «nostro» livello i colonizzati che avrebbero dovuto essere grati ai colonizzatori. I francesi avevano una mission civilisatrice, i portoghesi molto prima la loro abbastanza ridicola Missão civilizadora. I britannici credevano di portarsi dietro il fardello dell’uomo bianco (White Man’s Burden), sebbene Rudyard Kipling, che coniò quest’espressione, pensava che quel peso dovesse ormai essere portato dagli Stati Uniti. Ma ancora adesso, secondo un sondaggio, ben il 55% della popolazione delle isole britanniche pensa che l’impero fu «a good thing» mentre solo il 19% lo considera «a bad thing».
Molte delle grandi (eroiche?) figure del pensiero occidentale (e non) condividevano i pregiudizi più comuni e banali. Il grande liberale John Stuart Mill, nel suo Considerations on Representative Government (1861), faceva notare che gli orientali sono i più invidiosi tra tutti gli esseri umani, seguiti dagli europei meridionali (italiani, spagnoli, greci, ecc.), mentre inglesi e americani hanno il merito di possedere uno spirito imprenditoriale di progresso. Prima ancora dichiarava che gli irlandesi (come i toscani e i francesi) sono più dediti al piacere che al lavoro, mentre «la razza negra» (the negro race) ama il riposo e i giochi animali. Mahatma Gandhi, oggi riverito (giustamente) da tutti, in un discorso del 1896 lamentava che in Sud Africa le leggi britanniche trattassero gli indiani come lui come se fossero kaffir (negri), e cioè gente la cui unica occupazione – secondo lui – era quella di ottenere abbastanza denaro per procurarsi una moglie e poi vivere nella pigrizia. Churchill spiegava che per aiutare i negroes occorreva colonizzarli perché da soli non sarebbero stati in grado di progredire. Quelli che non potevano essere civilizzati era meglio sistemarli in riserve con un po’ di terra e un po’ di acqua e lasciarli vivere in pace.
Gli italiani non sono «brava gente», alcuni lo sono e altri no, così come gli americani o gli inglesi o i francesi non sono tutti razzisti. Chiamare gli italiani «brava gente», tuttavia, vuol dire ignorare quelli che sono razzisti e crogiolarsi nella propria superiorità morale, essendo quella militare e politica ovviamente più difficile. Vuol dire tollerare il razzismo.
Il bel libro di Luca Borzani e Marco Aime si inserisce nella lotta contro il razzismo e la xenofobia, e con coraggio e intelligenza smonta, l’uno dopo l’altro, i numerosi luoghi comuni che prevalgono nel «Bel Paese», a cominciare dall’ipotetico rischio che la «razza» italiana possa scomparire travolta da un’ondata di «diversi» che arrivano dall’estero. Questo mito della «sostituzione etnica» viene anch’esso dall’estero, un isterismo sviluppato dalla destra francese e da pseudo maître à penser come Renaud Camus (ex-socialista), con la sua tesi del Grand Remplacement accolta successivamente da vari gruppi dell’estrema destra americana (un paese costruito interamente «da fuori»); una tesi che ormai ha un solido ancoraggio italiota, da Umberto Bossi a Matteo Salvini per non parlare di Giorgia Meloni. Le cause che stanno dietro a queste paure sono molteplici: gli autori ricordano il rapporto CENSIS del 2013, che descrive come molti italiani siano «malcontenti, quasi infelici, segnati da accidia, furbizia generalizzata, passiva accettazione della pervasiva comunicazione di massa». Questo malessere porta molti laureati ad andare all’estero. Una volta gli emigrati italiani andavano a cercare lavori umili negli Stati Uniti, in Belgio, in Francia (dove spesso dovevano subire il razzismo degli altri). Oggi molti emigrati italiani sono laureati che, con spirito cosmopolita, vanno a far fortuna all’estero e spesso la fanno, mentre l’Italia dovrebbe fare grandi sforzi per tenerli a casa essendo tra i paesi europei con il più basso tasso di laureati.
Tra gli italiani «infelici» che rimangono «a casa» trovare un nemico è quasi imperativo. Una volta (ma ancora adesso) si imprecava contro i politici, «la casta», i potenti. Ma se il nemico è «in alto», vuol dire che ci si sente inferiori. Molto meglio trovarsi un nemico povero e discriminato che difficilmente è in grado di difendersi: uno straniero, un diverso, una persona di colore costretta a fare lavori umili. In questo modo ci si può sentire superiori.
Per il momento questi «diversi» sopportano gli insulti. È il prezzo da pagare per poter stare un po’ meglio di prima e raccogliere un po’ di soldi da mandare alle famiglie lasciate nel paese di origine. Ma i figli e le figlie di questi, nati in Italia, acquisteranno un senso della propria dignità, sapranno rivendicare i loro diritti, vorranno, e giustamente, essere italiani a tutti gli effetti, non sopporteranno di essere paragonati ai «vu’ cumprà» o di essere trattati male. Riusciranno a farsi strada, come molti lo hanno fatto in Gran Bretagna, malgrado il razzismo britannico: il sindaco di Londra è un musulmano figlio di immigrati, il sindaco di Bristol, dove la statua del trafficante di schiavi Edward Colston è stata rimossa da una folla di giovani di tutte le razze, è figlio di un immigrato della Giamaica (dove Colston trasportava i suoi schiavi), il Cancelliere dello Scacchiere (conservatore) ha nonni indiani, così come la ministra degli Interni. Questo aiuta a far sì che i razzisti comincino a sentirsi in minoranza, sanno che non è bello dire in pubblico quello che pensano, che il disprezzo che manifestano verso gli «altri» diventa un segno di bassezza sociale, di ignoranza, di cialtroneria. Prima o poi anche i razzisti italiani impareranno che dichiarare, come fece alcuni anni fa un vicepresidente del senato, che una ministra nata nel Congo gli ricordava un orangutan non fa ridere, fa pena, e che chi lo dice ha poco cervello e adopera un linguaggio da osteria malfamata. Giustamente il libro denuncia anche atteggiamenti «tra il giullaresco e il provocatorio» che consentono espressioni razziste «con il sorriso sulla bocca e con apparente bonarietà».
Quelli che si proclamano eredi dell’Illuminismo, e cioè la sinistra sociale e liberale, hanno oggi troppo spesso paura di essere definiti «buonisti» (ma perché questo è diventato un insulto?). Diceva Matteo Renzi, riferendosi ai rifugiati dalle coste libiche, «aiutiamoli a casa loro», come se così facendo non si condannassero i rifugiati in lager orribili nell’Africa del Nord. Papa Francesco, che in quanto sommo pontefice non dovrebbe certo essere un rappresentante dell’Illuminismo, è «l’unica voce che esce da questo coro conformista», dichiarando che respingere gli immigrati «è un atto di guerra».
Nel frattempo non serve cercare di pacificare i sovranisti come aveva fatto Walter Veltroni quando era sindaco di Roma, secondo il quale, cito dal libro, Roma era stata «la città più sicura del mondo prima dell’ingresso della Romania nella UE», denunciando «un’immigrazione che ha come caratteristica la criminalità». Questo, in alcuni paesi, sarebbe caratterizzato come hate speech.
Ma non serve soltanto indignarsi al palese razzismo. Occorre invece contrastare tali ragionamenti con fatti e statistiche, come fanno i nostri autori, i quali con questo libro hanno dato un eccellente contributo alla battaglia per un paese civile.