2023-01-23
traduzione di Andrea Aureli.
INDICE DEL LIBRO:
Da oltre duemila anni, coloro che chiamiamo «occidentali» vengono periodicamente tormentati dallo spettro del proprio essere interiore. È la manifestazione di una natura umana talmente avida e litigiosa che, se non viene governata in qualche modo, può far precipitare la società nell’anarchia. In linea generale, la scienza politica di questo riottoso animale ha oscillato tra due contrastanti forme: la gerarchia o l’eguaglianza, l’autorità monarchica o l’equilibrio repubblicano; in altre parole, un sistema di dominio (idealmente) in grado di contenere il naturale egoismo delle persone mediante un potere esterno, oppure un sistema autoregolato di poteri liberi ed eguali la cui reciproca opposizione è (idealmente) in grado di riconciliare interessi privati e interesse collettivo. È un movimento che esprime una vera e propria metafisica dell’ordine che va ben oltre la sfera della politica. La medesima struttura di base di un’anarchia originaria risolta dalla gerarchia o dall’eguaglianza la si può infatti ritrovare nell’organizzazione tanto dell’universo quanto della città, e ancora nelle concezioni terapeutiche del corpo umano. Intendo sostenere che questa è una metafisica prettamente occidentale, poiché non solo presuppone una opposizione tra natura e cultura tipica del nostro folclore, ma si differenzia altresì dai tanti popoli che considerano le bestie fondamentalmente umane invece che gli umani fondamentalmente bestiali. Questi popoli non riconoscerebbero alcuna «natura umana» primordiale, e tanto meno una da sottomettere. E hanno le loro ragioni, soprattutto se si considera che la moderna specie umana Homo sapiens è emersa in tempi relativamente recenti sotto l’egida di una cultura umana ben più antica. Infatti, in base alle nostre stesse scoperte in paleontologia, anche noi siamo creature animali culturali, dotate della biologia del nostro simbolismo. L’idea che siamo schiavi delle nostre predisposizioni animali, è una illusione essa stessa originata nella cultura.
Vado dunque contro il senso comune del determinismo genetico, oggi così popolare negli Stati Uniti per la sua apparente capacità di spiegare ogni genere di forma culturale con l’innata predisposizione all’egoismo competitivo. Oltre al diffuso senso comune, vado inoltre contro una scienza economica che analogamente concepisce solo individui autonomi, tutti singolarmente tesi a ottenere soddisfazioni mediante la «scelta razionale» su ogni cosa, per non parlare di discipline quali la psicologia evolutiva e la sociobiologia che hanno sviluppato, a partire dal «gene dell’egoismo», una scienza sociale buona per tutte le occasioni. Come ebbe a dire Oscar Wilde a proposito dei professori, la loro ignoranza è il frutto di lunghi anni di studio. Ignari della storia e della diversità culturale, gli entusiasti dell’egoismo evolutivo non sono in grado di riconoscere nella loro rappresentazione della natura umana i tratti classici del soggetto borghese. Altre volte essi celebrano il proprio etnocentrismo prendendo alcune delle nostre pratiche culturali a prova delle loro teorie universali sul comportamento umano. Per questo genere di etnoscienza, l’espèce, c’est moi, la specie sono io.
Contro il senso comune, e ora mi riferisco alla pervicace brama postmoderna per l’indeterminatezza, vanno anche le stravaganti affermazioni sull’unicità delle idee occidentali a proposito dell’innata malvagità umana. Qui devo essere più specifico: concezioni simili potrebbero ben essere individuabili anche presso altre forme statuali nella misura in cui sviluppano un analogo interesse a sottomettere le proprie popolazioni al proprio controllo. Perfino la filosofia confuciana, nonostante gli assunti che gli uomini siano intrinsecamente buoni (Mencio) o intrinsecamente capaci di esserlo (Confucio), ha elaborato opposte concezioni sulla loro naturale malvagità (Hsün Tzu). Mi sentirei comunque di affermare che né quella cinese, né qualsiasi altra tradizione culturale, eguagliano quel profondo disprezzo per l’umanità proprio dell’Occidente, per il quale l’innata avidità umana trarrebbe la sua motivazione dalla supposta antitesi tra natura e cultura.
D’altra parte, non sempre siamo stati così sicuri della nostra depravazione. Concezioni alternative dell’essere umano sono, per esempio, implicite nei nostri rapporti di parentela, e alcune delle nostre concezioni filosofiche ne hanno tenuto conto. Eppure per lungo tempo siamo stati bestie, almeno per metà; e ciò, in quanto dato della natura, ci è apparso più immodificabile di qualsiasi altro artificio della cultura. Per quanto non intenda proporre alcun racconto esaustivo della lugubre visione che abbiamo di noi stessi, né desidero farne una storia intellettuale o un’«archeologia», vorrei sottoporre, a riprova della sua persistenza, il fatto che alcuni dei nostri antenati intellettuali – da Tucidide a sant’Agostino, a Machiavelli, agli autori dei Federalist Papers, fino ai nostri sociobiologi contemporanei – hanno tutti ricevuto l’etichetta di «hobbesiani». Che fossero monarchici o partigiani di repubbliche democratiche, hanno tutti condiviso la medesima sinistra visione della natura umana.
Vorrei però iniziare dal ben più solido collegamento tra le filosofie politiche di Hobbes, Tucidide e John Adams. Le curiose relazioni esistenti tra questi tre autori ci permetteranno di tracciare le principali coordinate del triangolo metafisico composto da anarchia, gerarchia ed eguaglianza. Per quanto diverse fossero le rispettive soluzioni al fondamentale problema della malvagità umana, tanto Hobbes quando Adams avevano trovato nel testo di Tucidide sulla guerra del Peloponneso, soprattutto nel suo cruento resoconto della rivoluzione a Corcira (Corfù), la fonte di ispirazione per le loro idee sugli orrori a cui la società andrebbe incontro qualora i naturali desideri dell’umanità non venissero controllati: dal potere sovrano per Hobbes, dal bilanciamento dei poteri per Adams.