Con tante scuse a Tucidide

Introduzione a ‘Nonostante Tucidide la storia come cultura’

Marshall Sahlins

2023-10-18

traduzione di Andrea Aureli.

INDICE DEL LIBRO:

Introduzione Con tante scuse a Tucidide // CAPITOLO PRIMO La guerra della Polinesia // CAPITOLO SECONDO Cultura e agentività nella storia // CAPITOLO TERZO La cultura di un assassinio // Bibliografia // Ringraziamenti // Terminologia figiana essenziale

L’argomento affrontato da questo libro è la rilevanza delle concezioni antropologiche di cultura per lo studio della storia – e viceversa, poiché nel corso della trattazione emergerà anche la rilevanza di alcuni aspetti della storia per lo studio della cultura. Ciascuno dei tre lunghi capitoli che seguono intende affrontare, dal punto di vista etnografico, taluni aspetti di interpretazione storica posti dal grande testo di Tucidide sulla guerra del Peloponneso. Questo libro è dunque un omaggio a Tucidide in quanto antenato di una storiografia che a tutt’oggi ci accompagna. Le «scuse» del titolo si riferiscono alle critiche mosse dalla moderna antropologia ai venerabili insegnamenti di Tucidide – nei confronti del quale noi continuiamo a essere debitori.

Il libro ha avuto origine da una conversazione che ebbi alcuni anni fa, forse nel 1987, con un collega e amico, James Redfield, del dipartimento di antichità classiche dell’Università di Chicago. Quando gli raccontai che stavo lavorando su una guerra nelle isole Figi avvenuta alla metà del XIX secolo, che assomigliava molto alla guerra del Peloponneso, aveva subito mostrato un vivo interesse. Tra il 1843 e il 1855 i regni di Bau e di Rewa, il primo una potenza marittima, il secondo una potenza terrestre, entrambi regnanti su varie isole minori dell’arcipelago, scatenarono un conflitto di una tale intensità che finì per diventare una guerra per il dominio dell’intero arcipelago. Le similitudini con la famosa lotta tra Atene e Sparta erano tali che Redfield e il sottoscritto concordarono di discuterle in un corso congiunto su «Guerre del Peloponneso e della Polinesia». La comparazione si rivelò molto fruttuosa sia per la Grecia sia per le Figi. Fui perfino spinto a scrivere un lungo saggio sulla doppia monarchia spartana, mettendola a confronto con le diarchie complementari delle Figi e con altri ordinamenti simili. Invece di un re sacro e un re guerriero, ciascuno con le sue funzioni e i suoi ambiti giurisdizionali, i re spartani erano gemellati e inseparabili, l’uno il duplicato dell’altro, se non per il fatto che uno era più anziano dell’altro. Per sintetizzare un ragionamento complesso – che includeva Castore e Polluce e altri gemelli reali della mitologia greca, uno dei quali solitamente figlio di una divinità – concludevo che i re spartani rappresentavano una sorta di versione empirica del doppio corpo del re, uno di origini relativamente divine, l’altro relativamente umane, ma comunque uno la versione speculare dell’altro: stava qui la definitiva conferma del carattere divino della monarchia. Quando mostrai questo saggio a Redfield, lui mi rispose che con qualche revisione l’avrei potuto pubblicare – sotto pseudonimo.

Forse sarebbe stato saggio fare la stessa cosa con questo libro. Anch’esso è caratterizzato da avventate incursioni nel territorio disciplinare degli studi classici. Stando alle osservazioni di Max Weber (così come riportate da Paul Veyne) sulla legittimità di comparare gli Ateniesi ai (cosiddetti) barbari, come i Figiani, tale pratica sarebbe non solo offensiva per la sensibilità degli studiosi classici ma anche platealmente ingenua: «Il principio di una specie di giustizia ‘politico-sociale’, che venga a considerare le tribù così sdegnosamente dimenticate degli Indiani e dei Kaffiri almeno altrettanto importanti – finalmente, finalmente! – degli Ateniesi, è semplicemente puerile» (Veyne 1984: 52)1.

Ma io qui non sono tanto un lobbista del relativismo culturale quanto della rilevanza culturale. Se il passato è un paese straniero2, allora è un’altra cultura. Autre temps, autres moeurs. E se è un’altra cultura, per scoprirla c’è bisogno di un po’ di antropologia – il che vuol dire, un po’ di comparazione culturale. A maggior ragione se l’argomento concerne gli Ateniesi così come li ha descritti Tucidide. Nel testo che segue, cito la domanda pertinente posta da Simon Hornblower: «Tucidide ha mai immaginato un tempo in cui gli esseri umani civilizzati non avrebbero parlato quello che noi chiamiamo greco classico?». Il problema non è tanto che Tucidide dia per scontata la cultura di cui sta scrivendo la storia, quanto la sua supposizione che la cultura non abbia importanza. Non ritiene infatti rilevante la cultura, se confrontata con una soggiacente natura umana cui i costumi e le leggi non possono resistere; una natura umana tale da garantire che in circostanze simili le persone si comporteranno in maniera altrettanto simile e saranno governate dai medesimi desideri di potere e profitto, dalla medesima speranza di ottenerli e dalle medesime paure di perderli. Come gli Ateniesi dissero allo sventurato popolo di Mileto che erano in procinto di sterminare: «Le nostre opinioni sugli dèi, la nostra sicura scienza degli uomini, ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o dèi, sono più forti, dominano» (Tuc. v.105.2). Si potrebbe concludere che Tucidide viva ancora tra noi, non solo perché ha sollevato importanti questioni riguardo la società e la storia, ma perché le ha concepite come le concepiamo noi: facendo riferimento alla razionalità pratica universale degli esseri umani, scaturita dal loro innato egoismo.

Non è un caso se nel XVII secolo, con lo sviluppo del moderno capitalismo, in Europa occidentale ci fu un rinnovato interesse per Tucidide da parte di autori come Thomas Hobbes. (A quanto pare, nell’Italia del Rinascimento erano più popolari Plutarco, Senofonte e Tito Livio, insieme a Platone e Aristotele, mentre Tucidide venne celebrato più tardi da Hobbes e Hume, e da molti altri dopo di loro). Anche senza considerare gli specifici passi di Tucidide echeggiati nella concezione hobbesiana dello stato di natura, non possiamo non riconoscere in noi stessi il lavorio dello spirito insieme agonistico e creativo dei Greci, come osserva Vernant (1968: 10), non solo nelle lotte tra le città ma «in tutte le relazioni umane e perfino nella natura stessa». E oggi, all’inizio del nuovo millennio, Tucidide sembra più attuale che mai. In un’epoca segnata dal trionfo globale dell’ideologia neoliberale, per non parlare dello sfacciato imperialismo americano, è confortante sapere che la nostra passione per l’accumulazione è una disposizione umana inevitabile. Non c’è niente di cui vergognarsi, dunque. Pur essendo il peccato originale, ammesso con un certo compiacimento in varie versioni scientifiche moderne (dalla sociobiologia e dalla psicologia evolutiva, alle scelte razionali dell’economia e al realismo delle relazioni internazionali), si è di fatto rivelato un vizio provvidenziale. Da qui l’attuale popolarità di Tucidide: «Benché l’insistenza di Tucidide per l’egoismo possa offendere la sensibilità di qualcuno, la sua idea che dall’egoismo nasca l’impegno e da esso si generino opzioni, rende questa storia della guerra del Peloponneso vecchia di 2.500 anni un correttivo all’estremo fatalismo tipico del marxismo e del cristianesimo medievale» (Kaplan 2002: 45-46).

Sarebbe stato interessante mettere gli Spartani – avversari degli Ateniesi – di fronte al medesimo «correttivo». Stando a come Tucidide descrive il carattere degli Spartani, essi mancavano di avidità e di volontà di potenza: ne dovremmo allora desumere che ciò che un popolo ritiene carico di valore e meritevole di interesse sia culturalmente costruito e non naturalmente determinato, e che qualunque sia la (presunta) natura umana, essa possa essere variamente e significativamente sublimata. Date le differenze tra gli austeri e conservatori Spartani e gli intraprendenti Ateniesi, l’aspetto interessante del testo di Tucidide potrebbe essere la sua dimostrazione della relatività culturale della ragione pratica piuttosto che la sua universale validità. È possibile che la concezione egoistica della natura umana come motore della storia sia essa stessa un’ideologia generalmente greca e specificamente ateniese, di cui Tucidide è stato un eloquente interprete. A ogni modo, il fatto che io intenda condurre uno studio antropologico del testo di Tucidide non vuol dire che si debba assumere il tanto celebrato «punto di vista del nativo» – quanto meno non quello di un così celebrato nativo.

Come nel caso dell’etnografia, per condurre un’antropologia della storia bisogna collocarsi fuori dalla cultura in questione per conoscerla meglio. È in qualche modo paradossale ritenere che Erodoto, che mentre scriveva dei costumi e miti di Persiani ed Egizi non ha mai perso la propria identità, sia considerato più antropologo di Tucidide, la cui storia della guerra del Peloponneso fu scritta dal punto di vista di un partecipante nativo (generale ateniese in congedo). L’implicazione è che ci vuole una cultura per conoscerne un’altra. Ovviamente non c’è mai un unico punto di vista nativo, solo una varietà di «posizioni soggettive» ognuna con la propria visione interessata di un fenomeno esso stesso intersoggettivo e più grande di ciascuna di esse. Da qui la necessità di un’intelligenza esterna. Peraltro, tenendo a mente l’osservazione di Ruth Benedict che l’ultima cosa che un pesce intelligente potrà mai nominare è l’acqua in cui nuota, quanto sono in grado i partecipanti di conoscere la cultura mediante la quale essi conoscono? E qui assumo una posizione alquanto eretica, ovvero che dovremmo richiamare dalla Siberia epistemologica in cui è stata esiliata quella «autorità etnografica» prematuramente censurata (cfr. Clifford 1983). È certamente importante cogliere il punto (o i punti) di vista del nativo (o dei nativi). Ma per far questo c’è bisogno di ciò che Michail Bachtin elogiava come «the creative understanding» [la comprensione creativa] dell’esterno antropologicamente competente. C’è bisogno di ciò che Bachtin chiamava «exotopia», una visione complessiva esterna alla cultura.

Come ricostruito criticamente da Tzvetan Todorov (1984: 107-12), il concetto di exotopia di Bachtin si riferiva inizialmente al rapporto indipendente tra il lettore di un testo letterario e il suo autore. Nel conservare la propria integrità interpretativa il lettore o la lettrice intensifica i significati e le intenzioni dell’autore stesso. L’esperienza del testo viene arricchita dall’esperienza di chi legge. Tuttavia, a un certo punto Bachtin cambia il registro del dialogo. Oltrepassa la relazione tra soggetto e soggetto e si sposta sul livello dell’interpretazione interculturale. A questo punto la questione è l’esteriorità dell’etnografo, e quello che assume rilevanza nell’interpretazione della cultura osservata è l’esperienza di altre culture – in primo luogo quella dello stesso osservatore. Una determinata forma di vita diventa comprensibile calibrandola sugli schemi di un’altra cultura. Come osserva Todorov, Bachtin fornisce all’antropologia basi più solide di quanto gli antropologi stessi siano stati in grado di fare. Qui di seguito il passaggio cruciale di Bachtin, citato nella sua interezza, che inizia dalla sua critica a un’etnografia dal punto di vista dei nativi:

C’è l’idea molto tenace, ma unilaterale e quindi falsa, che per meglio comprendere un’altrui cultura ci si deve, per così dire, trasferire in essa e, dimenticata la propria, guardare il mondo con gli occhi di questa cultura altrui… questa idea, come ho detto, è unilaterale. Certo, una certa immedesimazione nella cultura altrui, la possibilità di guardare il mondo coi suoi occhi è un momento necessario del processo della sua comprensione; ma se la comprensione si esaurisce in questo solo momento, essa sarebbe una semplice duplicazione e non porterebbe in sé nulla di nuovo e di arricchente. La comprensione creativa non rinuncia a sé, al proprio posto nel tempo, alla propria cultura e non dimentica nulla. Di grande momento per la comprensione è l’exotopia del comprendente, il suo trovarsi fuori nel tempo, nello spazio, nella cultura rispetto a ciò che egli vuole creativamente comprendere. L’uomo non può veramente vedere e interpretare nel suo complesso neppure il proprio aspetto esteriore e non c’è specchio e fotografia che lo possa aiutare; il suo vero aspetto esteriore lo possono vedere e capire solo gli altri, grazie alla loro exotopia spaziale e grazie al fatto di essere altri. Nel campo della cultura l’exotopia è la più possente leva per la comprensione. Una cultura altrui soltanto agli occhi di un’altra cultura si svela in modo più completo e profondo (ma non in tutta la sua pienezza, poiché verranno ancora altre culture che vedranno e capiranno ancora di più) (Bachtin in Todorov 1984: 109-10).

Ci vuole un’altra cultura per capire una cultura altra. Ecco una piccola dimostrazione etnografica (o etnostorica) che ha anche il pregio di illustrare che il dialogo è reciproco, dato che riguarda i commenti rivelatori di un grande capo delle isole Tonga dei primi dell’Ottocento su questa cosa che gli europei chiamano «denaro». L’esempio ha un interesse ulteriore nel nostro caso dato che gran parte di questo libro riguarda proprio l’interpretazione dal punto di vista della cultura figiana delle pratiche degli antenati europei, incluse le inclinazioni pecuniarie degli antichi Ateniesi. (Tonga distava pochi giorni di canoa dalle Figi). In questo caso, Finau, il capo tonga, replica a una descrizione del denaro fatta da William Mariner, un giovane inglese che da mesi abitava nell’arcipelago, assistito da un altro Tonga che un po’ conosceva per sentito dire le usanze dei Papalagi (uomini bianchi). La conversazione si deve essere svolta nella lingua tonga3. Ma quello che aveva sentito fino a quel momento non aveva soddisfatto Finau, che «continuava a pensare che fosse una cosa stupida che delle persone dessero così tanto valore al denaro, quando non potevano o non volevano utilizzarlo per fini (concretamente) utili» (Martin 1827, 1: 213). Il racconto continua in forma di discorso indiretto:

«Se [il denaro]», disse, «fosse fatto di ferro e potesse essere convertito in coltelli, asce e scalpelli, avrebbe senso dargli un valore; ma così com’è, non ne vedo alcuno». Poi aggiunse: «Se un uomo ha più ignami di quanti desidera, ne può scambiare un po’ con del maiale o con dello gnatoo [tessuto di corteccia]. Certamente il denaro è più maneggevole, e più conveniente, però, dato che non va a male se lo si conserva, le persone lo metteranno da parte invece di condividerlo, come un capo dovrebbe fare, e così diventano egoiste; mentre se le provviste fossero la principale proprietà di un uomo, essendo le più utili e le più necessarie, lui non le potrebbe mettere da parte, perché andrebbero a male, e così sarebbe costretto a scambiarle con qualcosa di utile o condividerle con i suoi vicini, con i capi minori e i sottoposti in cambio di niente». E concluse dicendo: «Adesso capisco cosa rende i Papalagi così egoisti: è il denaro» (Martin 1827, 1: 213-14)

La «scoperta dell’economia» di Finau è molto simile a quella più famosa di Aristotele: «Certo strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza, lascia morir di fame» (Pol. 1257b; cfr. Polanyi 1957). E nel corso dell’acuta disquisizione del capo sui costumi economici degli europei, uno capisce molto di quelli dei Tonga. (Il pronome «uno» dell’ultima frase non è casuale: le relazioni epistemologiche sono ora almeno triadiche, coinvolgendo anche l’antropologo). Finau descrive il sistema tonga di produzione e l’economia politica della chefferie il cui potere è fondato sulla redistribuzione della ricchezza più che sulla sua redditizia accumulazione (come capitale produttivo). In modo simile a quanto Aristotele afferma nel suo elogio funebre di un’economia ateniese ormai al tramonto, anche Finau parla di una vita materiale organica a uno specifico ordine sociale, e dunque di un sistema produttivo qualitativamente orientato ma con limiti ben definiti. «E in realtà di siffatti beni sufficienti alla vita beata non è illimitata», scriveva Aristotele, «come pretende Solone nei suoi versi: ‘Limite alcuno di ricchezza non c’è né si scorge per gli uomini’» (Pol. 1256a).

Mi si permetta di anticipare alcuni risultati delle comparazioni analoghe che ho di seguito azzardato – finalmente! – tra la guerra del Peloponneso così come è stata descritta da Tucidide e la guerra polinesiana del XIX secolo tra i regni figiani di Bau e Rewa.

Una prima scoperta riguarda il peculiare carattere degli imperi di Atene e di Bau, simile sia nella forma politica sia nella modalità di dominio. Al di là delle loro similitudini in quanto potenze marittime, Atene e Bau esercitavano entrambe un’egemonia imperiale senza una reale sovranità. Le popolazioni assoggettate erano tributarie dal punto di vista economico e politicamente asservite, ma rimanevano in gran parte o del tutto indipendenti dal punto di vista amministrativo. Atene e Bau interferivano con l’esterno per creare regimi politici assoggettati simili o quanto meno compatibili con il proprio. Ma al contrario degli imperi conquistatori, come quello romano o come i regimi coloniali europei dei tempi moderni (per quanto assomigliassero in alcuni significativi tratti all’attuale impero americano), essi controllavano altre comunità politiche senza però governarle. In assenza di controllo diretto, con quali mezzi dunque?

Bau e Atene non sono certo state le uniche potenze egemoniche a governare con l’intimidazione, ma la loro anomalia risiede nell’affidarsi a una politica fatta più di ostentazione che di amministrazione. Sono imperi di segni basati su uno sfoggio confidente di grandiosità e cultura, alternato ad azioni draconiane di violenza e terrore; sempre eccessive, poiché tali dimostrazioni di forza avevano lo scopo di indurre gli altri popoli a una sottomissione più o meno volontaria. Se nelle pagine di Tucidide Atene appare da una parte come la «scuola dell’Ellade», dall’altra appare come la città tiranna. Se i suoi monumenti, il suo teatro e le sue cerimonie sono di gran lunga più imponenti di quelle delle città rivali, soprattutto di quelle dell’austera Sparta, anche la sua crudeltà verso chiunque le opponga resistenza lo è, proporzionata all’ulteriore finalità di terrorizzare «gli altri». «Subiscano ora il castigo pari al delitto» [III 39:6], così Cleone esorta gli Ateniesi in risposta a una ribellione a Mitilene: «Dimostrate con chiaro esempio agli altri alleati che chi si staccherà sconterà con la morte»[III 40:7]. Di fronte a un analogo disprezzo verso la propria autorità, il signore della guerra di Bau, Ratu Cakobau, disse a un visitatore europeo che se non avesse ucciso e mangiato il capo ribelle, tutte le Figi avrebbero riso di lui. In simili imperi, l’ostentazione della superiorità era un’ossessione, quasi fosse un fine in sé – e in effetti fu la loro fine.

Il caso delle Figi ci indica la strada verso un’altra questione di interesse storiografico: una critica all’eccessiva fiducia accordata alla «storia-tradizione» a spese della «storia-dialettica». I sistematici contrasti di ordine culturale tra Bau e Rewa mettono in evidenza il processo oppositivo complementare – definito da Gregory Bateson «schismogenesi complementare» – come un modo di produzione storica. I due regni sono antitipi strutturali, trasformazioni l’uno dell’altro. In effetti, le grandi genealogie delle Figi, secondo le quali la dinastia regnante di Bau è quella del figlio della sorella che ha usurpato l’antico lignaggio reale in cui erano inclusi i re rewa, esplicitano in maniera letterale che le loro differenze sono similari. È questo un caso di differenziazione da competizione, del tipo che recentemente è stato identificato come «politica dell’identità culturale», con il risultato che le istituzioni e i valori principali di una società appaiono forme capovolte dell’altra.

E se le famose opposizioni tra la cosmopolita Atene e la xenofoba Sparta fossero parimenti interdipendenti? Molte delle più lampanti differenze tra le due nell’età classica erano forme relativamente recenti: il loro sviluppo coincideva più o meno con il periodo della loro rivalità. Così, contrariamente alla visione comune, secondo la quale le ragioni del presente di un popolo debbano essere collocate nella specificità del suo passato, io sostengo che queste due società in competizione dovrebbero essere considerate in un rapporto di opposizione, come il sistema delle loro differenze. Il recente dibattito teorico ha imputato all’ascesa del nazionalismo la colpa di aver trattato le società nel loro isolamento, come se fossero entità a sé stanti. Ma le ideologie nazionaliste non sono state le prime a conferire alle società una loro peculiare tradizione culturale e a concepirle storicamente come società sui generis. Anche gli antropologi e gli storici moderni sono inclini a privilegiare narrazioni autosufficienti di culture tra loro indipendenti; e hanno peraltro incontrato molte varianti dello stesso modello nelle storie che quasi tutti i popoli raccontano della propria aderenza a tradizioni ancestrali che risalgono a un passato remoto. La logica della storia-tradizione, ovvero rintracciare la derivazione delle pratiche culturali esistenti in forme precedenti, è una semplice forma di successione diacronica. In modo simile ad Aristotele, che rinveniva i precedenti della costituzione di Sparta a Creta, la storia di questo tipo si basa sulle similitudini del presente con il passato. Da questo punto di vista, le storie-tradizione sono spesso storie dei tempi immemorabili. Grazie a una celebre «invenzione della tradizione», gli Spartani attribuivano un’origine veneranda alla propria costituzione, unica nel suo genere, che sarebbe stata loro donata, già bella e pronta, dall’eroe culturale Licurgo. Se però si mettono da parte tali remote tradizioni di autodeterminazione, emergono sempre più prove che molte delle decisive differenze tra gli Spartani e gli Ateniesi all’epoca della guerra del Peloponneso si erano palesate nel corso del secolo precedente, forse solo cinquant’anni prima, e in relazione l’una con l’altra. Ciascun popolo dimostrò così che era uguale all’altro ma migliore, simile ma diverso. Si dovrebbe prestare la massima attenzione a questi processi sincronici di opposizione complementare. Il passato, per la storia-dialettica, è qualcosa di più di un secolo diverso.

La sezione centrale del libro affronta un’altra questione posta dal testo di Tucidide, e l’etnografia impiegata per affrontarla è ancor più ardita della comparazione tra gli antichi Greci e i Figiani classici. Lì evoco infatti, tra altri improbabili esempi, un famoso evento della storia del baseball americano, la struttura delle rivoluzioni scientifiche (à la Thomas Kuhn), Napoleone Bonaparte, e il bambino naufrago cubano Elián González, in un tentativo affrontare una questione fondamentale sulla natura dell’agentività storica. È di ordine individuale o collettiva? Per quale ragione Tucidide racconta talvolta la guerra del Peloponneso nei termini di una relazione distintiva tra persone, come Pericle e Alcibiade, e talvolta come l’azione di entità collettive, come Spartani e Ateniesi? Se la creazione, da parte di Temistocle, di una flotta formidabile mise Atene sulla strada dell’espansionismo imperiale, fu comunque (consequentemente) la «potenza affermatasi degli Ateniesi e la paura derivatane ai Lacedemoni» [I 23:6] «la ragion più vera» della guerra. Certamente Tucidide non è l’unico storico che, senza un motivo apparente, cambia registro passando da personaggi che fanno la storia – i «racconti dei comandanti» secondo la definizione di W. R. Connor – a resoconti in cui interi popoli o Stati costituiscono le forze attive della storia. Del resto, è un’inclinazione folklorica comune e diffusa, un habitus culturale, parlare a volte di un George Bush o di un Bill Clinton che hanno creato questo o quel problema, a volte di un’«economia» che va a rotoli o di un’«America» che si sente insicura di fronte a una minaccia terroristica. C’è saggezza in questa alternanza o solo confusione?

Credo saggezza, traendo ispirazione da un’astuta osservazione di J. H. Hexter sulla retorica della storia del baseball americano. Tutto dipende dal tipo di cambiamento retorico in questione, se si tratta di una tendenza evolutiva o di un evento rivoluzionario che cambia l’ordine delle cose. Si noti che quando Thomas Kuhn parlava di cambiamenti di paradigma scientifico, dava loro nomi propri come «rivoluzione newtoniana» o «rivoluzione einsteiniana». Ma quando parlava del normale corso del progresso scientifico, all’interno del paradigma, il soggetto attivo era «la professione», i fisici in generale, o addirittura la «scienza» stessa. Le questioni riguardanti «l’individuo e la società», apparentemente lasciate morire dal XIX secolo, tornano così nell’agenda storiografica. Provo dunque ad affrontarle: prima in astratto, con un’altisonante discussione teorica sulla «soggettività» e sul «determinismo culturale», e poi con un approccio antropologico volto a integrare le principali opposizioni in gioco, specificando le condizioni strutturali coinvolte nel potenziamento di alcuni individui come attori storici significativi. Alcuni, come Napoleone o i re sacri delle isole Figi, sono autorizzati in modo sistemico a fare la storia dalla loro posizione di comando in un ordine strutturale progettato per realizzare la loro volontà; altri, come Elián González e i suoi parenti, hanno la grandezza imposta dalla loro posizione in una situazione data, una struttura congiunturale che rende ciò che fanno fatale per la società più ampia. Scrivo quindi di agentività sistemica e congiunturale o di produzione culturale di celebrità più o meno probabili.

Nell’ultima metà del libro Jean-Paul Sartre è una presenza teorica importante che entra ed esce di scena, in particolare per quanto riguarda la sua idea che le società devono vivere storicamente le idiosincrasie degli individui in cui si impersonano. Sulla base dell’intuizione sartriana, l’ultimo capitolo, «La cultura di un assassinio», affronta le annose questioni dell’ordine e dell’evento, della struttura e della contingenza. Ritorna anche alle Figi e a qualcosa di simile a «Shakespeare nella savana»: una storia drammatica di intrighi politici e fratricidi nella casa regnante del regno di Bau che per essere degnamente raccontata avrebbe bisogno del talento del Bardo più che del mio. La lunga storia delle contese per il dominio di Bau tra i figli e gli eredi dell’anziano re guerriero Ratu Tānoa culminò nel 1845 con l’uccisione di uno dei fratelli, Ratu Raivalita, per ordine dell’altro, Ratu Cakobau. Quest’ultimo nome, che ancora oggi viene evocato nelle isole Figi, contribuisce a far capire che questo evento è stato un momento decisivo nella storia di quelle isole. La morte di Ratu Raivalita spianò la strada all’ascesa di Ratu Cakobau alla regalità di Bau, e sotto la sua egida Bau raggiunse una supremazia in tutte le Figi che continuò durante il periodo coloniale britannico e fino al xx secolo. Ma non c’è bisogno di molte speculazioni antistoriche per sostenere che le cose sarebbero andate diversamente, molto diversamente, se il complotto di Ratu Raivalita per uccidere Ratu Cakobau non fosse stato smascherato e neutralizzato, rendendo lui la vittima. Tra le varie questioni in gioco c’era infatti anche il destino della grande guerra polinesiana allora in corso tra Bau e Rewa.

Se il complotto di Ratu Raivalita, che coinvolgeva anche il re rewa, fosse riuscito a eliminare Ratu Cakobau, la guerra si sarebbe conclusa in quel momento e senza gravi conseguenze per entrambe le parti. L’esito più probabile sarebbe stato il ritorno allo status quo ante. In realtà, la morte di Ratu Raivalita rese il regno rewa vulnerabile a un attacco devastante che incluse il re tra i caduti e creò le condizioni per altri dieci anni di sanguinose battaglie. Per capire come questi diversi esiti fossero in gioco nell’inimicizia tra i fratelli occorrerà indagare sui privilegi figiani del vasu, il sacro nipote uterino. Basti dire che Ratu Raivalita, la cui madre era sorella del re di Rewa, era quindi, in quanto nipote sacro, il partito di Rewa all’interno di Bau; mentre Ratu Cakobau era un vasu (figlio della sorella) nativo di Bau, poiché sua madre proveniva dall’antica regalità bau, il che lo rendeva un capo tra i più alti in grado nel sistema locale e di indiscussa lealtà. In virtù di questi rapporti di parentela, la grande lotta collettiva tra Bau e Rewa si è trasferita nella rivalità interpersonale dei fratelli, moltiplicando l’animosità di quest’ultimo conflitto con la lotta per il dominio delle isole Figi, che costituiva la reale posta in gioco. Le forze sociali più vaste si sarebbero ora manifestate nelle ambizioni e nelle contese personali dei giovani capi bau. Ma poi, essendo il destino degli Stati così personificato, la struttura si sottomette alla contingenza.

Infatti, nulla nella congiuntura più ampia, nell’organizzazione e nella situazione di Bau e Rewa, specificava che Ratu Cakobau sarebbe sopravvissuto a Ratu Raivalita piuttosto che il contrario. Il «sistema» può aver intensificato la loro contesa fino all’odio omicida, ma non poteva stabilire chi avrebbe ucciso chi. Certamente non in quel periodo, quando i rivali potevano essere facilmente eliminati con un colpo di pistola o di moschetto. I resoconti contemporanei della morte di Ratu Raivalita indicano che uno qualunque dei due capi avrebbe potuto essere ucciso, se non fosse stato per il malfunzionamento di una pistola o per la volontà di alcuni astanti. La struttura e la contingenza si determinano a vicenda, senza per questo essere riducibili l’una all’altra. Le relazioni tra i due regni hanno costituito le condizioni degli eventi che, a loro volta, hanno influenzato fatalmente le rispettive fortune storiche. È solo perché entrambi gli esiti sarebbero stati strutturalmente coerenti – la fine della guerra se fosse succeduto Ratu Raivalita o la sua brutale continuazione con l’avvento di Ratu Cakobau – che la storia, in retrospettiva, sembra totalmente ordinata dallo schema culturale. Ma coerenza e continuità culturale non significano che i risultati storici siano culturalmente prescritti. Il dialogo tra il collettivo e l’individuale, la struttura e l’evento, la categoria e la pratica, indica che la continuità dell’ordine culturale è uno stato alterato dalle contingenze dell’azione umana. Ciò che sostengo non è che la cultura determini la storia, ma solo che la organizza.

Note all’Introduzione


  1. Peggio ancora, sto paragonando gli Ateniesi ai famosi cannibali delle Figi senza nemmeno conoscere il greco antico. Non conoscendo la lingua, si ha poca speranza di essere presi sul serio dai classicisti. Ma se non vogliono che gli antropologi e simili commentino i testi greci, perché si preoccupano di fare tante traduzioni?↩︎

  2. Un implicito riferimento a The Past is a Foreign Country (1985) di David Lowenthal (1923-2018), geografo di formazione e figura centrale degli heritage studies. Il filo conduttore delle sue ricerche, dal carattere fortemente interdisciplinare (dall’antropologia culturale, alla storia, all’archeologia, allo studio del paesaggio, alla letteratura, alla psicoanalisi), è stato l’utilizzo pubblico/politico del passato e la tensione tra ricostruzione storica e «monumentalizzazione» del passato nel discorso pubblico da un lato e l’ambivalenza, specificamente moderna, verso il passato dall’altro; ciò da cui prendere le distanze ma al tempo stesso luogo della nostalgia [N.d.T].↩︎

  3. Il successo comunicativo dovrebbe comunque far riflettere sulla presunta impossibilità della traduzione, anche se in ogni caso il progetto antropologico è più di esegesi che di traduzione, ben diverso nella sua economia epistemologica e nei suoi obiettivi trascrittivi.↩︎