Illuminismo dal basso. Pirati e democrazia radicale in Madagascar

Recensione di ‘L’Utopia pirata di Libertalia’

Marcus Rediker

2023-08-31

traduzione di Andrea Libero Carbone.

David Graeber è stato un anarchico, un attivista e un antropologo, oltre che un narratore di prim’ordine. Nel corso della sua carriera, ha esplorato tematiche legate al potere, alla libertà e alla giustizia sociale, spesso su un arco di tempo molto lungo, accompagnando le sue analisi con aneddoti densi ed evocativi. In Il debito: i primi 5,000 anni (Debt: The First 5,000 Years) ha raccontato il «comunismo quotidiano» che sta alla base della società umana e le modalità attraverso le quali diversi tipi di debito hanno finito per sovrastarlo come strumento di potere e di ingiustizia. In L’alba di tutto (The Dawn of Everything), scritto insieme a David Wengrow, ha proposto niente meno che una origine e una storia alternative della civiltà umana. Ogni cosa scritta da Graeber è al contempo una genealogia del presente e un quadro di come potrebbe essere una società giusta.

Graeber ha anche messo in pratica le sue idee. Ha partecipato attivamente alle proteste anti-globalizzazione e alle azioni dirette degli anni Novanta del XX secolo e dei primi anni Duemila, e nel 2011 è diventato un attivista e teorico di spicco del movimento Occupy. Ha contribuito a coniare l’espressione «Siamo il 99%» e si è spesso dedicato all’attivismo in modo molto simile al suo lavoro di antropologo: cercando di raccontare la storia dell’umanità, dell’agentività e della resistenza, delle democrazie radicali e della ricerca dell’emancipazione.

L’Utopia pirata di Libertalia (Pirate Enlightenment), un nuovo libro postumo a cui Graeber stava lavorando prima della sua morte nel 2020, intreccia molti di questi temi in una grande narrazione. Ma a differenza del suo attivismo giramondo e di quanto fatto in passato nel campo dell’antropologia, in questo caso le sue riflessioni sono collocate in un luogo specifico, il Madagascar, e in un arco di tempo molto più breve, all’incirca tra il 1690 e il 1750. Anche entro questi confini, tuttavia, L’Utopia pirata di Libertalia è un racconto entusiasmante che, come scrive l’autore nella prefazione del libro, parla di «magie, menzogne, battaglie navali, principesse rapite, rivolte di schiavi, cacce all’uomo, reami inventati, ambasciatori fasulli, spie, ladri di gioielli, avvelenatori, culti satanici, ossessioni sessuali», il tutto avvolto in un ricco racconto marinaresco sui pirati e «le origini della libertà moderna». È un libro che parla del processo decisionale democratico e delle forme di libertà create dal basso. Ci chiede anche di ripensare l’idea di «Illuminismo» e le origini della democrazia. Piuttosto che guardare all’Europa, Graeber colloca la nascita di entrambi su un’isola al largo delle coste dell’Africa orientale.

Che la storia della pirateria attragga una persona del talento di Graeber è un fatto notevole. Quando iniziai a occuparmi di marinai e pirati negli anni Settanta, fu un’impresa solitaria. Poco lavoro accademico serio era stato svolto, né sui marinai d’alto mare – che all’epoca non erano nemmeno considerati come un elemento della storia del lavoro dalla maggior parte degli storici – né sui pirati, che attiravano molti storici dilettanti (alcuni dei quali piuttosto bravi) ma pochi studiosi preparati.

L’ascesa della «storia dal basso» ha segnato poi una svolta. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta – le lotte per i diritti civili, il Black Power, la guerra in Vietnam e i diritti delle donne – richiesero nuove storie che si concentrassero non solo sugli Stati e sui politici, ma anche sugli attori politici di tutti i giorni. Queste storie hanno finito per democratizzare il modo in cui molta storia è stata scritta a partire da quel momento. Influenzati da opere come The Making of the English Working Class di E.P. Thompson e Black Jacobins di C.L.R. James, una nuova schiera di storici ha studiato l’«agency» e la «self-activity» della classe operaia in senso lato. Tutti, dai lavoratori dell’industria agli indigeni, fino agli schiavi, potevano fare la storia.

La pirateria, ovviamente, era solo una piccola parte di queste nuove storie, ma via via che gli storici dal basso hanno iniziato a rivolgere la loro attenzione a una più ampia gamma di persone, hanno anche iniziato a concentrarsi su una estensione geografica molto più vasta, ad andare oltre i confini di un singolo stato e ad attraversare gli oceani del mondo. Le prospettive atlantiche e globali hanno iniziato a sostituire i racconti nazionali e nazionalisti. Gli studi sui lavoratori marittimi, che di solito erano marginali nelle storie nazionali, hanno cominciato a svolgere un ruolo fondamentale nella comprensione del passato. The Common Wind: Afro-American Currents in the Age of the Haitian Revolution di Julius Scott non è che un esempio di questa svolta, che ripensa la Rivoluzione di Haiti in un contesto più ampio di lotte marittime atlantiche. Come The Common Wind, anche L’Utopia pirata di Libertalia di Graeber è una storia dal basso, che guarda oltre i confini tradizionali dello Stato-nazione. Il libro è un saggio, il che significa, letteralmente, un primo tentativo di comprensione. Non è affatto definitivo, come sottolinea lo stesso Graeber. Tuttavia, il libro ha anche dei punti di forza inusuali: si basa non solo sulla raffinata abilità di Graeber nel raccontare storie e sul suo occhio attento ai dettagli, ma anche sul suo ampio lavoro sul campo in Madagascar tra il 1989 e il 1991.

Al centro di L’Utopia pirata di Libertalia c’è il racconto di una «vera Libertalia». La stessa Libertalia era un insediamento mitico che si diceva fosse stato costruito dai pirati in Madagascar come esperimento di democrazia radicale per vivere liberamente circondati dalle brutalità del capitalismo nascente. Graeber non vuole sostenere che questo particolare insediamento sia realmente esistito, ma si interessa piuttosto a una comunità reale e altrettanto sovversiva che, sebbene non si sia mai chiamata Libertalia, ha comunque prosperato tra i Betsimisaraka tra il 1720 e il 1750 circa ed era fondata su principi pirateschi.

Come racconta Graeber, la storia di questa Libertalia reale iniziò nel 1691, quando alcuni pirati si stabilirono a Sainte-Marie, sposarono donne malgasce e intrapresero il commercio di schiavi, destinando gran parte del loro traffico umano alla colonia di New York. I capi dell’etnia locale attaccarono e sradicarono l’insediamento nel 1697. Nel 1698 Nathaniel North e la sua ciurma di pirati costruirono un nuovo insediamento ad Ambonavola, ispirandosi alle pratiche democratiche ed egualitarie delle navi pirata. Anche loro presero mogli malgasce e formarono alleanze che sarebbero durate fino alla morte di North nel 1712. Le donne malgasce sfruttarono il bottino dei pirati per diventare mercanti e per garantirsi l’autonomia. Graeber vede queste donne come artefici di un colpo di Stato contro le restrizioni patriarcali della loro cultura.

L’eroe del racconto di Graeber è un giovane carismatico di nome Ratsimilaho, figlio di un marinaio diventato pirata e di una donna malgascia, figura di spicco tra i Betsimisaraka. Tra il 1712 e il 1720, Ratsimilaho guidò i Betsimisaraka in una serie di guerre contro un capo rivale, Ramanano, e gli Tsikoa, un clan del sud che aveva preso il controllo di diverse città portuali sulla costa nord-orientale dell’isola per commerciare con gli europei. Ratsimilaho ricordava i capitani pirata che facevano sfoggio di grande potere e ricorrevano alla violenza contro i loro rivali politici, pur guidando la propria comunità con deliberazioni collettive e democratiche. Utilizzò il kabary, un’istituzione di discussione e dibattito, nello stesso modo in cui i pirati ricorrevano al consiglio comune per governare le loro navi. Utilizzò anche gli strumenti di guerra dei pirati, compresi i moschetti. Ratsimilaho sconfisse presto gli Tsikoa, chiamandoli «Betanimena» – coloro che si ricoprono di fango rosso – mentre si ritiravano sconfitti.

La vittoria di Ratsimilaho su Ramanano nel 1720 consolidò quella che divenne la Confederazione Betsimisaraka, che per i successivi trent’anni avrebbe condotto quello che Graeber definisce un «esperimento proto-illuminista». Basandosi sulle pratiche piratesche di uguaglianza e avversione per l’autorità centralizzata e arbitraria, Ratsimilaho e i Betsimisaraka crearono e mantennero un «finto regno» decentralizzato, non gerarchico e partecipativo che si oppose alla tratta degli schiavi, stabilì pratiche egualitarie e visse decenni di prosperità.

A differenza della maggior parte dei recensori di L’Utopia pirata di Libertalia, ho letto la maggior parte delle fonti primarie utilizzate da Graeber. Siamo d’accordo su questioni fondamentali: in primo luogo, la stessa Libertalia era una finzione, un’invenzione letteraria. Questo non è un punto controverso. In secondo luogo, siamo d’accordo sul fatto che le pratiche sociali dei pirati, reali ed empiricamente provate, hanno ispirato e plasmato la storia di Libertalia. Le idee incarnate in Libertalia erano concezioni reali e vive. Non erano utopiche, che significa «senza luogo»; un luogo ce l’avevano e, come Graeber dimostra abilmente, avevano anche una storia.

Su aspetti minori, potremmo invece essere in disaccordo: Daniel Defoe era «Charles Johnson», l’autore di Storia generale dei pirati (General History of the Pyrates) e della sua sezione su Libertalia? Graeber suggerisce che probabilmente lo era, ma io non la penso così: Il libro di Johnson conteneva conoscenze marittime più dettagliate di quelle che Defoe avrebbe potuto possedere o comprendere. La parte dedicata a Libertalia fu probabilmente opera di un team di scrittori di Grub Street a Londra che avevano contatti con pirati veri e propri che intervistarono per il libro, oltre ad avere accesso a manoscritti inediti che circolavano nei circuiti ufficiali. Tuttavia, nulla di tutto ciò pregiudica l’argomentazione più ampia di Graeber: tra il 1720 e il 1750, una società democratica radicale è spuntata come una testa d’idra in Madagascar.

L’Utopia pirata di Libertalia presenta però altri limiti. Gran parte della storia trattata da Graeber non solo è sconosciuta ma è anche inconoscibile, come lui stesso ammette. Inoltre, dubito che in Madagascar ci fossero tanti pirati quanti sostiene; «diverse migliaia» mi sembra del tutto impossibile. Dubito anche che il numero fosse di «molte centinaia», dato che i pirati che solcavano i mari nel periodo studiato da Graeber non erano più di 5.000. Questi numeri sono importanti perché l’argomento dell’impatto dei pirati sulle culture del Madagascar nord-orientale dipende in qualche modo dalla densità della loro presenza fisica: più basso è il numero di ex pirati, meno probabile e meno duratura sarà stata la loro influenza. Aggiungo che i pirati che si stabilirono in Madagascar erano solo una piccola minoranza della popolazione pirata totale tra il 1650 e il 1730, la cosiddetta «età dell’oro», e che i pirati dell’Atlantico erano molto meno coinvolti nel commercio di schiavi rispetto a quelli che si stabilirono nell’Oceano Indiano.

È anche importante ricordare che la «cultura pirata» (il modo di gestire una nave) era un fenomeno dinamico che cambiava nel tempo. L’«età dell’oro» ha visto succedersi tre diverse generazioni di pirati. C’era una certa continuità nelle loro culture, ma non erano affatto identiche. Mentre i bucanieri del 1660 e del 1670 lasciavano il posto ai pirati del 1690, seguiti da quelli del 1710 e del 1720, la cultura piratesca divenne più egualitaria e democratica nel corso del tempo, poiché le élite abbandonarono l’attività di rapina in mare e i marinai comuni acquisirono un maggiore controllo sulle operazioni delle navi pirata. È fondamentale sottolineare che i pirati che si stabilirono in Madagascar negli anni Novanta del XVII secolo (per quanto numerosi fossero) lo fecero in un periodo in cui i grandi mercanti e i commercianti di schiavi avevano ancora molto potere sulla loro attività.

Una questione ricorrente nella narrazione di Graeber, ma mai affrontata a fondo, è la pratica della schiavitù tra i Betsimisaraka. Graeber sostiene che parte del successo del progetto di Ratsimilaho fu dovuto al fatto che la sua regione e il suo popolo si allontanarono dalla sempre più aggressiva tratta degli schiavi nell’Oceano Atlantico e Indiano. Tuttavia, Graeber rivela le prove che Ratsimilaho e i suoi compagni guerrieri possedevano schiavi, il che, se fosse vero, renderebbe il suo «esperimento» meno democratico di quanto sostiene e non estraneo ai sistemi di schiavitù praticati negli oceani Atlantico e Indiano.

Nonostante queste riserve, ritengo che L’Utopia pirata di Libertalia sia uno dei libri più creativi mai pubblicati sulla storia della pirateria. Il motivo principale è che Graeber presenta nuove idee e nuovi spunti di riflessione sulla storia di questi fuorilegge del mare. La maggior parte dei libri sui pirati non ha idee nuove e alcuni non ne hanno affatto, limitandosi ai risultati di ricerche utili ma limitate. La novità offerta da Graeber è un’analisi del modo in cui un processo di cambiamento che ha coinvolto la cultura dei pirati ha funzionato tra i Betsimisaraka: i popoli del Madagascar nord-orientale sono stati agenti consapevoli della storia e hanno fatto scelte di inclusione e trasformazione a partire dai propri valori e della propria cultura. Uno dei punti di forza del libro di Graeber è l’analisi della struttura e della cultura della società Betsimisaraka e di come sia cambiata nel tempo. Anche quando manca di fonti su persone, eventi e tempi specifici, trovo Graeber convincente. Ha svolto il suo lavoro sul campo; aveva una conoscenza pratica della lingua malgascia; aveva un impegno intellettuale e culturale di lunga data in Madagascar. È riuscito a mettere insieme due tipi di storia dal basso: marittima e indigena. Si tratta di una combinazione insolita e vincente. Tratta le persone comuni, soprattutto le donne, come pensatori, creatori e artefici della storia. La sua teoria e i suoi metodi sono democratici ed egualitari come la cultura che cerca di indagare.

Aggiungo subito che non sono uno specialista della storia del Madagascar e che il peso del libro di Graeber dipenderà in larga misura da ciò che gli studiosi dei Betsimisaraka avranno da dire al riguardo. Graeber ha offerto un’interpretazione che cerca di dare il massimo peso alle testimonianze disponibili sui pirati e sui Betsimisaraka in un lungo arco di tempo. Potrebbe sbagliarsi su alcuni dettagli, ma ritengo che nel complesso la sua interpretazione sarà difficilmente confutabile.

Come le sue storie del debito e dell’alba di «tutto», L’Utopia pirata di Libertalia di Graeber invita alla riflessione. Allo stesso tempo, alcune delle idee di Graeber non sono così nuove come lui sostiene, mentre altre sono più profonde di quanto lui stesso non ammetta. Affermare, per esempio, che l’egualitarismo dei pirati non era un ideale «occidentale» non è un’idea nuova. Più di venti anni fa, Peter Linebaugh e io abbiamo sostenuto nel nostro libro I ribelli dell’Atlantico (The Many-Headed Hydra Sailors) che questi principi di organizzazione sociale e politica sono stati ideati, conservati e rielaborati da un proletariato multirazziale dell’Atlantico in una lunga serie di lotte che vanno all’incirca dal 1600 agli anni Trenta del XIX secolo. Per tutto il XVIII secolo, una tradizione di radicalismo marittimo ha offerto costantemente nuove possibilità politiche: tra i pirati negli anni Dieci e Venti del XVIII secolo; nelle ribellioni delle città portuali degli anni Trenta del XVIII secolo; nella Rivoluzione Americana degli anni Sessanta e Settanta del XVIII secolo; e nei massivi ammutinamenti navali in tutto l’Atlantico degli anni Novanta del XVIII secolo. Graeber non indaga sulle origini della cultura piratesca, anche se nota che i filibustieri offrivano «una visione profondamente proletaria di liberazione».

D’altra parte, il punto di vista di Graeber sull’«Illuminismo» è molto più ampio di quanto egli sostenga. L’idea di un «Illuminismo dal basso» è molto più antica dei pirati dell’Oceano Indiano della fine del XVII e dell’inizio del XVIII secolo. Un momento chiave di questo tipo di Illuminismo risale ai primi contatti tra i navigatori europei e i popoli dell’Africa e delle Americhe. I resoconti transoceanici di società senza Stato e senza classe ebbero un profondo impatto sullo sviluppo del pensiero sociale europeo. Il secondo libro dell’Utopia di Thomas More è narrato da un marinaio di nome Raphael Hythloday, appena tornato dal mare per condividere la sua conoscenza di un popolo che viveva senza proprietà privata. Michel de Montaigne pubblicò nel 1580 Dei cannibali, il suo grande saggio «umanista» sul popolo Tupinambá in Brasile, in cui rovesciava il senso comune dell’epoca sostenendo che i veri cannibali non erano gli indigeni ma gli europei. La sua argomentazione si basava sulle storie raccontategli dal suo servitore, che aveva lavorato come marinaio durante un viaggio in Brasile. Nel frattempo, mentre scriveva La Tempesta, Shakespeare si recò al porto e parlò con i marinai del naufragio della Sea-Venture, che fornirono la cornice della sua opera. I marinai furono vettori dell’Illuminismo molto prima della Confederazione Betsimisaraka. Se la formazione di quella confederazione fu un «esperimento proto-illuminista», come dice Graeber, fu uno dei tanti.

Un ultimo ironico paradosso: a suo tempo i pirati persero la battaglia. Le classi dirigenti dell’Atlantico li impiccarono a centinaia in deliberati atti di terrorismo di Stato. I loro corpi penzolavano nelle città portuali di tutto il mondo come monito a chi attaccava la proprietà mercantile e osava gestire le proprie navi in modo nuovo e democratico. Molti pirati schernirono le autorità dal patibolo; abbracciarono «una vita allegra e breve». Ma eccoci qui, trecento anni dopo, a discutere ancora sul significato di ciò che fecero i pirati e sul perché lo fecero tuttavia non ricordiamo i nomi dei capitalisti e degli imperialisti che li impiccarono. In questo senso, i pirati possono aver perso la battaglia, ma hanno vinto la guerra della memoria storica. È giusto che sia così, ed è anche giusto che questo sia il messaggio finale che si ricava dall’ultimo libro di David Graeber.