Perché abbiamo bisogno dei pirati

Prefazione a ‘Sotto il vessillo di Re morte. Un mondo alla rovescia’

Marcus Rediker

2023-11-16

traduzione di Elena Cantoni.

INDICE DEL LIBRO:

PREFAZIONE Perché abbiamo bisogno dei pirati di Marcus Rediker // CRONOLOGIA L’epoca d’oro della pirateria: 1660-1730 // GLOSSARIO // Sotto il vessillo di Re Morte // POSTFAZIONE I pirati così come li abbiamo visti. Postille a una storia della cultura popolare di Paul Buhle

Provate a immaginare un «pirata». La prima immagine che vi verrà in mente sarà quella di un uomo con una qualche disabilità – una gamba di legno, un uncino al posto della mano, un occhio bendato – che tiene un pappagallo appollaiato sulla spalla. È palesemente un tipo ruvido, volgare, a volte beffardo, altre terrificante. Dall’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson [1883] ai film hollywoodiani come Pirati dei Caraibi, questa immagine ormai secolare del pirata ha impregnato di sé la cultura popolare, dapprima quella americana, poi sempre più quella globalizzata.

L’immagine è un mito, ma non per questo è meno potente. Come ogni mito contiene un nocciolo – piccolo ma essenziale – di verità. I pirati dell’«epoca d’oro», che imperversarono nei mari tra il 1660 e il 1730, erano perlopiù semplici marinai, uomini privi di mezzi, provenienti dai ceti sociali più infimi, che con un corpo segnato dalle cicatrici di un mestiere pericoloso avevano deciso di superare il confine della legalità.

All’epoca, le battaglie navali si combattevano a colpi di cannone, e il fasciame centrato dalle palle schizzava tutt’intorno schegge e pezzi di legno, accecando gli uomini, mutilandoli di braccia e gambe. Non solo, ma i marinai precipitavano dal sartiame, si procuravano ernie sollevando carichi molto pesanti, si ammalavano di malaria e di altre malattie debilitanti, perdevano le dita schiacciate sotto un barile rotolato sul ponte. Molti morivano, e i loro corpi venivano gettati in quel vasto cimitero grigio-verde chiamato oceano Atlantico. Non è dunque sorprendente che la stragrande maggioranza dei mendicanti che affollavano le città portuali del mondo atlantico fosse costituita da ex marinai storpiati in mare.

Il corpo devastato del pirata è la chiave per comprendere la vera storia di quanti navigarono «sotto il vessillo di Re Morte», il famigerato drappo nero dei pirati noto come Jolly Roger. Intrappolati in quelle macchine letali che erano i velieri d’alto mare, i marinai convertiti alla pirateria ingaggiarono una lotta furiosa per la semplice sopravvivenza. Devastati nel fisico, truffati della paga, nutriti con cibi guasti e percossi senza ritegno da capitani dotati di poteri tirannici, questi uomini di mare (insieme ad alcune donne) si costruirono una vita radicalmente «altra» sulle navi pirata.

Una frase ricorrente tra i pirati era: «Una vita felice e breve» o, come disse uno di loro, «Vivremo finché sarà possibile», ma in libertà, dignità e abbondanza, tutti lussi negati ai marinai di un normale equipaggio.

La «vita felice» inventata sulle navi pirata permetteva di eleggere il capitano e gli altri ufficiali, e questo in un tempo in cui le classi subalterne non godevano di diritti democratici in nessuna parte del mondo. Quella vita prevedeva anche una redistribuzione delle risorse – e delle opportunità – ed era caratterizzata da un egualitarismo davvero sbalorditivo rispetto alle prassi gerarchiche dell’industria mercantile o delle marine militari. I pirati crearono persino un rudimentale sistema di welfare, riconoscendo quote del bottino ai compagni inabili al lavoro a causa di problemi di salute o in seguito a una ferita.

L’ordine sociale alternativo della nave pirata colpisce ancora di più se si pensa che fu creato dalle «canaglie di tutto il mondo», da proletari di molte razze ed etnie che secondo il pensiero convenzionale – al loro tempo e al nostro – non avrebbero dovuto avere le capacità per intendersi e cooperare. L’equipaggio di una qualsiasi nave pirata poteva infatti includere inglesi, irlandesi, greci, olandesi, francesi e persino nativi americani. Ma furono in particolare gli africani e gli afroamericani ad avere un ruolo preminente, solcando da uomini liberi le acque dei Caraibi e del Nord America, in piena vista e in aperta sovversione del sistema schiavistico delle piantagioni, da cui molti di loro erano fuggiti.

Del resto, il mercato atlantico della manodopera marittima e l’esperienza dei marinai erano da tempo transnazionali. E la composizione sociale della nave pirata ne era la controprova, come pure il pappagallo sulla spalla del pirata, emblema di una consorteria eterogenea – la ciurma – che insieme si era spinta fino ai confini più esotici della Terra.

Quei fuorilegge sapevano bene che ad aspettarli c’era il patibolo – d’altronde nel loro mestiere rischiavano ogni giorno l’osso del collo e una morte prematura – e lo dichiaravano con grande spavalderia nel Jolly Roger, non a caso contrassegnato dal teschio. Ma se certamente questo simbolo di mortalità era stato scelto per incutere terrore ai capitani delle navi prese di mira e incoraggiarne una rapida resa (e quasi tutti i capitani recepivano il messaggio e si adeguavano), era anche un modo per raffigurare la paura dei pirati di diventare a loro volta prede. D’altronde il simbolo l’avevano ripreso dai propri capitani, che lo disegnavano sul diario di bordo quando un marinaio moriva. Oltre al teschio, spesso gli equipaggi aggiungevano alla bandiera l’immagine di un pugnale conficcato in un cuore umano e di una clessidra, emblemi rispettivamente di una vita violenta e di un tempo limitato: le tremende verità alla base delle loro precarie esistenze.

Ma la loro bandiera era anche un messaggio in codice per i ricchi, ben consapevoli che il verbo to roger significasse «copulare». Il Jolly Roger era di fatto un «fottiti» lanciato alle classi dirigenti. D’altronde, la rabbia e l’umorismo sono stati i tratti distintivi di questi fuorilegge dei mari: la rabbia bruciante contro i potenti e l’umorismo di chi alla sottomissione preferisce la libertà. A qualsiasi costo.

È possibile che qualcuno resterà deluso dal fatto che nelle pagine seguenti non si parli di cacce a tesori sepolti, navi fantasma, aristocratici costretti ad andare per mare a causa di un torto ricevuto o pirati innamorati della bella figlia del governatore. Ma la vicenda storica della pirateria è ben più articolata e complessa del mito hollywoodiano. Quella che segue è la storia autentica di quei marinai comuni che issando il vessillo nero crearono in mare aperto un sistema inedito di democrazia diretta. È la storia di una confraternita itinerante di uomini destinati a una fine violenta, e che tuttavia non avrebbero voluto vivere in nessun altro modo.

In questo adattamento del mio Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria [elèuthera, 2020], David Lester ha illustrato con grande sensibilità e maestria una «storia dal basso» dei pirati capace di restituirci, in tutta la loro umanità, i motivi reali – le condizioni di lavoro, la frusta, la morte prematura – che indussero quegli uomini a diventare fuorilegge, a costruire per se stessi una società che fosse fuori dalla portata della legge. Qui David li riporta in vita non soltanto come proletari oppressi e sfruttati che ribellandosi riescono a lanciare una sfida al capitalismo globale, ma anche come persone in grado di immaginare un altro mondo possibile, e di crearlo. E tuttavia la cosa più importante che David ci mette davanti agli occhi è il motivo per cui ameremo sempre i pirati: li ameremo fino a quando esisteranno potenti ai quali opporre resistenza e cause di giustizia sociale per le quali lottare.