Introduzione a ‘Il piano aperto’

Stefania Proli

2021-10-25

INDICE DEL LIBRO:

Nota della curatrice // Introduzione di Stefania Proli // CAPITOLO PRIMO Il piano e l’indagine // CAPITOLO SECONDO A quale piano miriamo e come ci vogliamo arrivare // CAPITOLO TERZO Il piano della vita // CAPITOLO QUARTO Elementi per l’identificazione del soggetto della pianificazione territoriale // CAPITOLO QUINTO Della metropoli come mercato e del territorio come merce // CAPITOLO SESTO Il piano armonico // CAPITOLO SETTIMO «Pianificatori»… di che cosa? // CAPITOLO OTTAVO Il primo immobile // CAPITOLO NONO Forme sociali e forme architettoniche // CAPITOLO DECIMO Storia di Fantaghirò isola bella // CAPITOLO UNDICESIMO La fionda sicula // Nota agli scritti scelti

Londra, 13 novembre 1960

Caro Danilo,

[…] mi sembra che il momento è venuto in cui tu vuoi immettere degli «esperti» nel lavoro che fai, senza però perdere quello slancio, quello spirito missionario, e men che meno quella tecnica «dal basso» che ha contraddistinto tutta la tua fatica sin adesso. Sono anni che io, come tanti altri beninteso […], dico le stesse cose e soprattutto vorrei mettermi a praticarle: ho il vantaggio che in teoria sono un esperto, e che comunque conosco e so parlare la loro lingua, nel contempo rifiutandomi a qualsiasi ossificazione tecnica. Il «ponte», insomma, credo che saprei farlo e nella maniera migliore. Di più, leggendo il materiale che mi hai mandato ritrovo tante delle cose che facemmo – o meglio cercammo di fare – a Ivrea. L’esperienza di allora, più quella acquisita all’Ufficio Urbanistico della Contea di Londra, mi dovrebbero servire assai, e servirti assai. Anch’io vedo il mio lavoro come tu lo descrivi: essere il segretario nel senso di essere il motore e il meccanico che quel motore fa andare avanti, procurando anche i pezzi necessari e nel caso facendosi «lui» pezzo. Sai, a Ivrea era tutto facile dal punto di vista finanziario, ma difficilissimo dal punto di vista umano a causa delle pressioni di interessi divergenti (la fabbrica, la città, la campagna, la montagna), e anche perché, ahimè, la tendenza degli uomini di cultura era di stare lì come in una mongolfiera a «studiare» il terreno non a identificarcisi: spero che da te sia proprio l’inverso, cioè si studia identificandosi, obbligando gli esperti, chiamati di volta in volta, a identificarsi tramite noi1.

Carlo D.

Nell’autunno del 1960 Carlo Doglio, «esperto» in pianificazione, si appresta a raggiungere la Sicilia per guidare il gruppo di volontari impegnati in un «piano di sviluppo organico» promosso dal sociologo e attivista Danilo Dolci in un’area conosciuta, in quel momento, per la sua condizione di arretratezza e miseria2. Si trova da cinque anni a Londra, dove si è recato per studiare pianificazione urbanistica grazie a una borsa di studio finanziata da Adriano Olivetti, per il quale ha lavorato come coordinatore del piano regolatore per il Canavese3. Ha dunque maturato una consolidata esperienza urbanistica, acquisita tuttavia senza aver ricevuto una formazione accademica.

Nato a Cesena nel 1914, Carlo Doglio ha alle spalle una laurea in Legge e un passato da militante politico all’interno del movimento anarchico italiano, che ha contribuito a rifondare nel dopoguerra attraverso un’intensa attività pubblicistica e culturale4. Così è nato il suo interesse per l’urbanistica: attraverso la lettura dei grandi pensatori anarchici, in particolare degli scritti di Pëtr Kropotkin, e l’incontro con la tradizione regionalista di Patrick Geddes e Lewis Mumford, autori che scopre grazie anche al sodalizio intellettuale con l’architetto Giancarlo De Carlo5. Nell’autunno del 1960, quando decide di lasciare Londra per la Sicilia, è già una personalità riconosciuta all’interno del panorama disciplinare per le sue idee «radicali» ma acute in ambito urbanistico. Nel 1952 ha infatti vinto il premio INU-Della Rocca per una monografia sulla città giardino (L’equivoco della città giardino, 1953), libro con cui, analizzando il modello howardiano, muove una forte critica all’urbanistica del tempo, accusata di utilizzare gli schemi tecnico-funzionali dei modelli esemplari dell’urbanistica anche sul piano sociale, e dunque di eliminare quelle tensioni che caratterizzano la creatività umana e permettono di realizzare un vero cambiamento nella società6.

Per questo motivo si è trasferito in Inghilterra, paese in cui il town planning, come scritto da Giovanni Astengo nel suo celebre saggio per l’Enciclopedia universale dell’arte, ha da tempo affermato la propria autonomia individuando nel processo di coordinamento fra discipline il «principio di coesione dell’urbanistica», e nella formazione del piano «il processo di sintesi risultante dalla raccolta, confronto e valutazione di tutte le correlazioni, possibilità e conflitti, posti in luce dalle indagini»7.

Carlo Doglio approfondisce questi temi dall’interno, attraverso i lavori della divisione urbanistica del London County Council, negli anni in cui è in corso il processo di costruzione delle nuove città. Studiando l’urbanistica del welfare state, il soggiorno a Londra tuttavia evidenzia tutte le contraddizioni e i limiti di un sistema decentrato di città diretto «dall’alto»8, spingendolo a trovare risposte su altri terreni. Si avvicina così ai temi del sottosviluppo, che esamina non tanto attraverso gli strumenti dei programmi di assistenza tecnica sperimentati nel processo di decolonizzazione, ma attraverso la tradizione nonviolenta di Jayaprakash Narayan ed Ernst Schumacher, autori che lo portano a riflettere con grande anticipo sul concetto di sviluppo in relazione alle nozioni di limite, di misura, di bisogno, di risorse rinnovabili, di tecnologie appropriate, applicate all’ideale comunitario9.

Quando, tra il 1958 e il 1959, il direttore del Centro Studi e Iniziative per la piena occupazione di Partinico, Danilo Dolci, si rivolge all’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, affinché indichi un giovane urbanista «tecnicamente competente», dotato di «requisiti spirituali e morali» e disposto a trasferirsi in Sicilia per partecipare alla redazione di un «piano organico di sviluppo» per le aree depresse della Sicilia centro-occidentale10, Carlo Doglio risponde senza indugio all’appello. Vede in questa occasione la possibilità di mettere alla prova le proprie «idee e abilità»11 in un contesto territoriale in cui, a fronte di un’organizzazione statale assente, è tuttavia ancora attiva una forte eredità di tradizioni comunitarie e di strutture materiali, lasciando prefigurare la possibilità di costruire un diverso modello di sviluppo. Trascorrerà in Sicilia sette anni. Anche se il sodalizio con Danilo Dolci si conclude solo due anni dopo, è da questa esperienza che si forma la sua identità più matura di planner, grazie alle riflessioni che solo il lavoro sul campo può generare. È da qui, dunque, che partono gli scritti di questa antologia.

Dall’attività lavorativa con Dolci si innescano altri eventi che segneranno in maniera altrettanto forte la sua biografia, come l’incontro con il pastore valdese Tullio Vinay, che lo porta a riflettere su come trasferire in forme progettuali le attività di sviluppo comunitario12; o l’amicizia con Edoardo Caracciolo, che gli apre i rapporti con la Facoltà di Architettura di Palermo e lo avvicina al «mondo degli architetti»13, in particolare a Giuseppe Samonà e a Leonardo Urbani, personaggi con cui instaura un profondo rapporto umano e professionale. Il lavoro sul territorio e l’impegno diretto sono in quegli anni così intensi da indurlo, nel 1967, a tradire le sue posizioni anarchiche e candidarsi alle elezioni regionali nelle file del PSIUP, uscendone amaramente sconfitto14. L’evento contribuisce alla decisione di lasciare l’Isola e la militanza professionale per dedicarsi all’attività di insegnamento dell’urbanistica nelle scuole di Architettura, alternandosi per alcuni anni fra Venezia e Napoli15. Trova una collocazione finale in età molto matura quando, nel 1974, raggiunti ormai i sessant’anni, è chiamato a Bologna all’istituto di Sociologia diretto da Achille Ardigò per occupare la cattedra di Pianificazione e organizzazione territoriale, che ricoprirà senza incasellarsi in un ruolo ma aprendosi alle contaminazioni con le altre discipline. Rimangono infatti nella memoria dei suoi numerosi studenti i corsi trasversali tenuti con i colleghi delle Facoltà di Lettere, Ingegneria e Agraria, dove la dimensione sociale del territorio si confronta con l’ecologia, l’architettura, la linguistica16. A Bologna conclude la sua attività intellettuale con numerosi progetti editoriali (si richiamano, fra gli altri, «Parametro», «La ricerca sociale» e «Il Mulino») e culturali fino alla sua scomparsa nell’aprile 1995.

Il ponte

L’attività urbanistica di Carlo Doglio si contraddistingue sin dai suoi esordi per una forte dimensione critica, condividendo con tanti altri intellettuali della sua generazione quella incessante ricerca, tipica del dopoguerra, mirata allo studio e all’individuazione di possibili nuovi modelli sociali e degli approcci disciplinari più adatti a interpretare il territorio e dar voce alle comunità insediate.

In un clima urbanistico che si confronta con l’ormai pienamente avvertita crisi del funzionalismo, e che si misura in maniera allargata con tutte le tematiche sociali e politiche necessarie per la ricostruzione di un’Italia uscita dopo la guerra dal lungo ventennio fascista, Doglio vede nell’urbanistica la sede più adatta per denunciare «che le cose non vanno e che bisogna mutarle»17.

A questo fine insegue i luoghi in cui si sta attuando il cambiamento, prendendo parte a veri e propri progetti sociali accomunati, seppur in diversa misura, dalla prospettiva dell’edificazione di una nuova società. È muovendosi fra queste esperienze «eccentriche» che matura la sua coscienza urbanistica, in cui egli si ritaglia una libertà d’azione che, se da un lato gli permetterà di confrontarsi in maniera diretta con il problema dello sviluppo secondo nuove discorsività, dall’altro non gli darà mai la possibilità di trovare un ruolo pienamente riconosciuto all’interno della comunità urbanistica del tempo, distinguendolo (secondo un’espressione dell’amico Bruno Zevi) sia «dai comuni professionisti» sia «da quelli del filone mumfordiano» come un urbanista «sui generis»18.

In un periodo in cui l’urbanistica ufficiale è impegnata a sperimentare attraverso il piano regolatore le finalità e i contenuti degli strumenti urbanistici e ad avviare la stagione delle grandi (seppur mancate) riforme, Doglio si muove infatti su altre direzioni. Egli sostiene che le potenzialità della tecnica decadono se a essa non viene associata una «scoperta del territorio», ovvero una presa di coscienza che passa attraverso il riconoscimento del ruolo di ciascun attore all’interno della società, di una consapevolezza della propria presenza all’interno di una riconosciuta comunità, di un ritrovato «senso del luogo»19.

La Sicilia si presenta perciò come il territorio ideale in cui dimostrare questa tesi e assumere attraverso la sua attività il ruolo di «ponte» fra abitanti ed esperti, una missione che egli inizia a realizzare innanzi tutto prendendo la residenza a Partinico, dove si trasferisce in una casa molto modesta («una stanza, una cucina e un ingresso e l’acqua», ma con «una terrazza da cui si vede il mare», come specifica in una lettera che precede il suo arrivo)20, con l’intenzione di diventare parte del territorio in cui dovrà poi operare, riscattando un obiettivo rimasto incompiuto anni prima ad Ivrea:

Conoscere una città vuol dire risentirne dentro se stessi la storia; ma non come un’esercitazione erudita, e nemmeno come un’intuizione, un’emozione personale. Bisogna ricrearla, dentro di sé, come se ci venisse per tradizione, per sempre: essere coloro che vi hanno sempre abitato, di padre in figlio, coloro che a un certo momento (cento, duecento, trecento… dieci anni fa) vi sono stati trapiantati; e le fantasie dell’infanzia, i timori dell’adolescenza, l’auto dell’età matura in quelle strade, dentro quelle case, tramite quel paesaggio… e quel lavoro (ogni tipo di lavoro) che si subì o si creò21.

Essere «ponte» per Doglio significa dunque riconoscere nell’attività professionale dell’urbanista un atto di responsabilità nei confronti della società rappresentata dal piano. Se dunque pianificare è presa di responsabilità, non bisogna incorrere, con la propria attività di pianificazione, in deleghe e l’urbanista non deve mai sostituirsi a quelle forze sociali da cui l’attuazione del piano dipende, ma può tutt’al più mettersi al servizio di tali forze per aiutarle a «imparare come scegliere»22

Pianificare vuol dire scegliere, vuol dire decidere, vuol dire prendere su di sé la responsabilità, come fa un poeta quando scrive una poesia: e quando scrive una poesia, se è una bella poesia egli ha preso su di sé responsabilità enormi, la responsabilità di aprire agli altri certi mondi che essi non potevano attingere e che fanno fatica a fare propri, e la pianificazione, l’urbanistica, l’architettura è la stessa cosa23.

Attraverso la sua attività interpretativa l’urbanista ha dunque il potere e il dovere non solo di suggerire un’alternativa alla forma costruita, ma di indurre una società alternativa, grazie alla capacità di applicare l’intelligenza tecnico-scientifica in un processo di autotrasformazione che mira «direttamente ai sentimenti» delle forze sociali, senza la necessità di offrire spiegazioni empiriche elaborate né concetti teorici o interpretazioni astratte, ma instaurando con esse un dialogo diretto che si consuma con la vita.

La «bellezza dell’urbanistica»

Gli scritti che accompagnano l’attività intellettuale e lavorativa di Doglio in Sicilia portano avanti una denuncia molto chiara: le riforme di struttura non sono affatto garanzia di un cambiamento nella qualità della vita; vi è un rischio, quello di tramutare tutto in procedura, a cui la pianificazione non può sottrarsi se tali principi non vengono caricati di contenuti, di senso di responsabilità, di esperienze condivise. Una critica forte ai colleghi impegnati in quegli anni nella progettazione di nuovi quartieri e parti di città, con cui si sostiene al contrario che la bellezza dei luoghi significa innanzi tutto recuperare la bellezza dei rapporti diretti, dello stare insieme, del lavorare per il bene comune, dell’ascolto: in altre parole in una ritrovata solidarietà24.

Questa posizione, che appare come un leitmotiv nell’antologia di scritti qui presentata, si sviluppa dall’assunto che esiste un modello giusto di società: un modello basato sull’idea che l’azione sociale è un mezzo per modificare le relazioni di potere e realizzare una società basata sulla cooperazione all’interno della prospettiva anarchica di liberi pensatori come Kropotkin e Reclus25. Se quindi il modello di società è questo, la pianificazione urbanistica si identifica come una dottrina radicale di azione sociale fondata sulla piena corrispondenza tra fini e mezzi della ricerca, ovvero, seguendo l’insegnamento di John Dewey, da un uso dei fini come «mezzi procedurali», ossia risorse per agire con modalità coerenti rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere, e dei mezzi come «fini in vista», cioè strumenti indirizzati dall’obiettivo da raggiungere26.

L’originalità di Doglio, osserva Bruno Zevi, deriva infatti dalla convinzione che raccogliere e incasellare cifre sia un esercizio necessario ma non sufficiente per rispondere al problema dello sviluppo se non accompagnato da una «volontà di liberazione dal basso»27. Questa visione si lega a un importante tema messo in discussione da Doglio, quello del «potere», inteso non come «esercizio di autorità», ma al contrario come «facoltà di fare, di agire secondo la propria volontà»28.

Seguendo l’insegnamento di Lewis Mumford, Doglio ritiene infatti che la pianificazione possa svolgere un ruolo importante nel processo di produzione della cittadinanza, così come predicato dal concetto greco di Paideia: attraverso il dialogo aperto, la partecipazione e l’esperienza, un uomo può raggiungere un processo di autotrasformazione che porta alla pienezza personale e alla competenza29.

Ne fa esperienza prendendo parte agli incontri settimanali organizzati da Danilo Dolci a Spine Sante, in cui gli abitanti, guidati dal «metodo maieutico», riconoscono l’importanza di condividere ogni settimana la propria storia personale in riferimento al contesto territoriale di appartenenza, prendendo così gradualmente coscienza delle cause dei problemi esistenti30.

Altra occasione importante per la definizione di cittadinanza attiva a cui Doglio contribuisce è la nascita dei Comitati Cittadini, laboratori di «autoanalisi popolare» attraverso cui, in continuità con il lavoro già sperimentato da Aldo Capitini nei COS (Centri di Orientamento Sociale) «chiamare a raccolta gli abitanti […], essere con loro continuamente in contatto e […] sollecitarli strada per strada a dire quali sono i loro bisogni, a rivelare se stessi», e di qui «avviare il dialogo fra cittadino e Stato»31.

La presa di consapevolezza e la responsabilità sono ritenute da Doglio premesse necessarie per realizzare un vero senso di comunità e dunque un prerequisito per impostare un processo di pianificazione «che sale dal basso»:

Perché, vedete, nel momento in cui ci si incomincia a occupare dei problemi del proprio paese, si constata che essi non possono avere soluzione se non c’è azione collettiva, se non c’è mutuo appoggio, se non si esce dalla prigionia dell’egoismo individuale32.

Con riferimento ai principi della nonviolenza di Narayan e Schumacher e al federalismo comunitario di Kropotkin, Doglio vuole comunicare l’importanza del piano non «come un disegno sovrapposto a meccanismi, funzioni e oggetti […] ma come struttura interna a una pratica sociale, dei modi della convivenza e delle modalità con cui queste si ‘comunicano’ come tessuto comune dell’agire»33.

Il mezzo-fine della pianificazione urbanistica è perciò un piano che si sviluppa dall’osservazione dell’uomo come essere «che agisce, si muove, e interagisce». Un piano frutto del lavoro di chi è consapevole, come richiamato da Doglio attraverso le parole di Lucien Febvre, che «per agire sul proprio ambiente, l’uomo non vi si mette al di fuori. Non ne sfugge alla presa, nel preciso momento in cui tenta di esercitare la propria». Di conseguenza i contenuti del piano devono essere «contenuti costituiti […] dalla presa di coscienza da parte della gente di che cosa si può fare, cioè contenuti in azione, dialettica di tesi e antitesi non immobilizzata scenograficamente […] ma continuamente reinventata dagli uomini nel proprio vivere»34.

Per Doglio quindi la «bellezza dell’urbanistica» si fonda sulla qualità politica del processo, da cui dipende la qualità del progetto e dunque dello spazio e, di conseguenza, delle relazioni sociali che si innescano in quello spazio. Se la pianificazione è parte della sfera politica, e se la politica ha il compito di educare gli uomini facendoli cittadini, anche la pianificazione assolve perciò una funzione democratica, in quanto esprime l’aspirazione della collettività al suo miglioramento e sviluppo.

Gli scritti di questa antologia si presentano quindi come delle critiche pungenti che Doglio lancia a una cultura disciplinare ufficiale che si ostinava a rimanere estranea alla natura politica dell’urbanistica, anticipando la necessità di portare all’attenzione tematiche che solo dopo lungo tempo inizieranno a essere affrontate dalla disciplina, come «l’interazione necessaria fra interessi plurali e spesso divergenti; la dimensione deliberativa, come confronto argomentativo fra voci diverse; la possibilità di apprendimento tramite negoziati o argomentazioni; l’importanza della riflessività come risposta attiva delle parti agli eventi e agli esiti emergenti; il problema della formazione di scelte cooperative, sulla base di valori condivisi o di intese contrattuali»35.

Il piano aperto

È così che Carlo Doglio riconosce, a margine dell’esperienza maturata in Sicilia, l’impellenza di stendere un nuovo programma per l’urbanistica capace di superare quell’equivoco, attribuito alla pianificazione a lui contemporanea, che assegna «capacità ordinatoria» a elementi del tutto estrinseci al territorio36.

Prima ancora di un libro di pianificazione urbanistica e territoriale, La fionda sicula, volume che Doglio scrive a due mani con l’amico e collega Leonardo Urbani, rappresenta metaforicamente quel piano perseguito nel corso della sua lunga e variegata attività con il fine di creare un ambiente adatto a sostenere e guidare le trasformazioni sociali in atto. Un piano che coniughi la dimensione regionale dell’urbanistica, allora governata dagli strumenti della programmazione economica (la «fionda»), la quale presuppone l’esistenza di un sistema completo di pianificazione (nazionale, regionale e locale) e dunque di una rete multiscalare di rapporti, con la sua dimensione comunitaria, basata sul coinvolgimento sociale nel disegno dell’azione collettiva incentrata sull’autodeterminazione e sull’autogoverno (la componente «sicula», e dunque identitaria).

Il luogo scelto per avanzare questa proposta è la Sicilia, «luogo del cuore» di Doglio37 perché esemplificativo di una condizione, quella del Sud, in cui la necessità di trovare un giusto equilibrio fra preservazione dei valori tradizionali e interessi del sistema economico appare come l’unica soluzione percorribile per uscire dalla condizione di sottosviluppo:

Che cosa ha voluto dire? Che cosa significa? Ha voluto dire che è possibile pianificare in maniera organica a differenza di come accade […]. Ma che per farlo bisogna mirare alto, anche al costo di errare forte. Che bisogna pensare non già in termini di compiti professionali, ma di visione del mondo. E che la Sicilia è una «occasione» per ripensare non solamente i modelli dello sviluppo usuali, ma per fornirne di diversi38.

La fionda sicula è perciò una metafora utilizzata per sollecitare la necessità di avere uno sguardo integrato nella disciplina urbanistica attraverso una nuova organizzazione territoriale che si muove su un doppio binario: pressione sulle istituzioni e azione dal basso. La strategia proposta nel libro è, da questo punto di vista, innovativa: come osservato al tempo da Bruno Zevi, viene prospettato «un mutamento radicale, pur restando in essere, ‘apparentemente’, le strutture sociali presenti»39 : una rilettura in chiave libertaria delle strutture e dei modelli istituzionali esistenti da effettuare gradualmente, a partire da una rinnovata idea di regione. Secondo la visione degli autori, la scala regionale permette infatti di gestire e governare quei territori della prossimità nei quali possono essere affrontati problemi più ampi quali la conservazione delle risorse territoriali e un’equa distribuzione dei benefici fra le comunità. A tal fine viene prefigurata un’organizzazione territoriale che si struttura su forme di cooperazione, rete e lavoro volontario fra le autorità locali, dando vita a «comprensori mutevoli», ovvero unità territoriali a confine variabile che disegnano e caratterizzano in modi diversi il territorio a seconda delle relazioni e delle azioni determinate dai cittadini con la loro vita di tutti i giorni40.

All’interno di questa struttura il ruolo dell’urbanista si viene a caratterizzare per la sua capacità di leggere e interpretare le azioni dei cittadini e di usarle in maniera coerente come mezzo per dare compimento e attuazione all’attività di pianificazione. Analogamente all’interpretazione data in quegli anni da John Friedmann41, la pianificazione definita in La fionda sicula si configura come un’attività principalmente orientata all’applicazione dell’intelligenza tecnica e scientifica a una serie di azioni organizzate o potenzialmente organizzabili. Portando avanti un tema caro a Geddes, ovvero i processi di costruzione del futuro come possibilità evolutiva di un contesto42, il metodo teorizzato da Doglio e Urbani implica che l’attività dell’urbanista si organizzi lavorando per «fenomeni» piuttosto che per «momenti strutturali»; in altre parole, secondo un metodo di lavoro incentrato su uno schema aperto e non chiuso capace di accogliere anche quella dimensione spontanea che caratterizza la vita dell’uomo e che è dunque essa stessa parte dei bisogni.

L’urbanista di Carlo Doglio non è quindi uno spettatore distante e tantomeno distratto: è un urbanista militante, un intellettuale impegnato che si apre alla vita delle persone e partecipa egli stesso al farsi del suo ambiente perché «operare con la gente è condizione per entrare a far parte del territorio»43.

Bertinoro, 31 gennaio 2021

Note all’Introduzione


  1. Carlo Doglio, Lettera a Danilo Dolci, 13.11.1960 (Archivio Carlo Doglio; successivamente indicato come ACD). Grassetto di Doglio.↩︎

  2. Come ben noto, dopo aver preso parte all’esperienza di don Zeno a Nomadelfia, nel 1952 Danilo Dolci si trasferisce a Trappeto, vicino a Trapani, dove ha inizio la sua attività sociale per riscattare la condizione di miseria e sottosviluppo della popolazione siciliana. Si cfr. Danilo Dolci, Banditi a Partinico, Roma-Bari, Laterza, 1955 e Danilo Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco della Sicilia occidentale, Torino, Einaudi, 1960. Sul Centro Studi e Iniziative promosso da Dolci si cfr. Chiara Mazzoleni, Un laboratorio di sviluppo comunitario: il centro per la piena occupazione di Danilo Dolci a Partinico, «Urbanistica», 108, 1997, pp. 135-155.↩︎

  3. Inizialmente Doglio approda all’Olivetti come direttore del «Giornale di fabbrica»; successivamente viene rimosso da questo ruolo e conferito dell’incarico di segretario del GTCUC – Gruppo Tecnico per il Coordinamento Urbanistico del Canavese. Si cfr. a riguardo Carlo Doglio, Viaggio alla ricerca della pianificazione urbanistica, «Comunità», 30, 1955, pp. 42-57. Il periodo olivettiano di Doglio è descritto in: Stefania Proli, Un tentativo di pianificazione urbanistica su scala umana: Carlo Doglio e il progetto comunitario di Adriano Olivetti, in: Mario Piccinini (a cura di), Adriano Olivetti: il lascito. Urbanistica, Architettura, Design e Industria, Roma, INU edizioni, 2014, pp. 88-98. Sull’esperienza urbanistica comunitaria di Olivetti si cfr.: Carlo Olmo (a cura di), Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica, Torino, Edizioni di Comunità, 2001; Fabrizio Brunetti, Paolo Milani, Perché si pianifica? I lavori del Gruppo Tecnico per il Coordinamento Urbanistico del Canavese. Una cronaca ragionata (1951-1954), Ivrea, Fondazione Adriano Olivetti, 1995.↩︎

  4. Doglio aderisce ufficialmente al movimento anarchico negli anni della Resistenza a Milano, dove emigra per sfuggire al regime. Qui contribuirà attivamente alla stesura dei suoi giornali clandestini, in particolare «Il Comunista Libertario». Nel dopoguerra aderisce al Gruppo «Milano 1», associazione milanese dei giovani della FAI (Federazione Anarchica Italiana), e collabora a periodici di stampo marxista come «Società Nuova» ma soprattutto di stampo radical-libertario come «Gioventù Anarchica» (di cui diviene responsabile, insieme a Pier Carlo Masini, nel primo periodo), «Lavoro e Libertà», «La Verità» e «La Cittadella». Il legame di Carlo Doglio con il movimento anarchico è approfondito in: Alberto Ciampi, La «gioventù anarchica» di Carlo Doglio ad un anno dalla scomparsa, «Rivista Storica dell’Anarchismo», 2, 1996, pp. 119-142; Alberto Ciampi, Gianpiero Landi, Doglio, Carlo, voce del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, vol. I (A-G), Pisa, BFS, 2003, pp. 536-538; Carlo Dolcini, Carlo Doglio e Giuseppe Aventi. La scoperta dell’anarchia, in Pier Giovanni Fabbri (a cura di), Le Vite dei Cesenati, vol. 6, Cesena, Stilgraf, 2012, pp. 182-195; Gianpiero Landi, Stefania Proli (a cura di), Dossier Carlo Doglio, «A rivista anarchica», 403, 2015-2016, pp. 101-139. Per un ritratto biografico più completo di Carlo Doglio si cfr.: Chiara Mazzoleni, Un «eretico» tra gli urbanisti, Introduzione a Carlo Doglio, Per prova ed errore, Genova, Le Mani, 1995, pp. 7-83; Stefania Proli, Carlo Doglio, in Pier Giovanni Fabbri (a cura di), Le Vite dei Cesenati, vol. 6, Cesena, Stilgraf, 2012, pp. 152-182.↩︎

  5. Questo debito culturale viene riconosciuto anche nella dedica che compare nel frontespizio di Dal paesaggio al territorio: «A Giancarlo De Carlo / perché se mi occupo di queste cose / – ma il modo, certo, fatto mio è – / lo devo a lui». Carlo Doglio, Dal paesaggio al territorio: esercizi di pianificazione territoriale, Bologna, il Mulino, 1968.↩︎

  6. Carlo Doglio, L’equivoco della città-giardino, Napoli, Edizioni RL, 1953. Il libro, che era stato precedentemente pubblicato, a puntate, sulla rivista «Volontà», verrà ristampato altre due volte (Carlo Doglio, L’equivoco della città giardino, Firenze, CP Editrice, 1974, con una Introduzione di Roberto Calandra; Carlo Doglio, La città giardino, Gangemi, Roma, 1985, con una Introduzione di Marcello Fabbri). Si tratta della pubblicazione di maggiore successo dal punto di vista editoriale.↩︎

  7. Giovanni Astengo, Urbanistica, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. XIV, Venezia, Sansoni, 1966, pp. 541-642. In questo passaggio Astengo si avvale del supporto delle definizioni di sir William Holford (Town and Country Planning Textbook, 1950) e Lewis Keeble (Principles and Practice of Town and Country Planning, 1952), professori alla University College London, con i quali Doglio avrà modo di approfondire l’urbanistica nei suoi due anni da studente di town planning.↩︎

  8. Le sue analisi critiche arrivano periodicamente in Italia attraverso gli articoli redatti per «Comunità», di cui è corrispondente ufficiale, e nei canali radiofonici della sezione italiana della BBC, con la trasmissione London calling Italy. I suoi scritti sulla politica inglese sono inoltre pubblicati nei periodici «Mondo economico» e «Nuova Repubblica». Sul periodo inglese si cfr. Proli Stefania, Carlo Doglio e l’affermazione della cultura del planning in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, «PLANUM», 2014, dicembre 2014, pp. 201-207.↩︎

  9. Jayaprakash Narayan, Verso una nuova società. Tre saggi sui problemi dell’India e del socialismo, Bologna, il Mulino, 1964 (traduzione dei testi originali e Introduzione di Carlo Doglio; in appendice un intervento di Vinoba Bhave su Socialismo e sarvodaya, e uno di Ernst F. Schumacher su Principi di un’economia nonviolenta). Ernst F. Schumacher, Small is Beautiful: Economics as if People Mattered, New York, Harper & Row, 1975; trad. it. di Carlo Doglio, Piccolo è bello, Mondadori, Milano, 1978 (con la prefazione di Carlo Doglio, Come l’albero dalla terra, e dalla roccia l’acqua, e dall’uomo l’amore).↩︎

  10. Paola di Biagi, Adriano Olivetti e l’INU: l’impegno nella «comunità» degli urbanisti (1948-1960), in Olmo (a cura di), Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica, cit., p. 162.↩︎

  11. Carlo Doglio, Lettera ad Achille Ardigò, 20.12.1960 (ACD).↩︎

  12. Il pastore valdese Tullio Vinay arriva a Riesi, località remota della Sicilia centro-meridionale, nel 1961, con l’obiettivo di realizzare un progetto di rinnovamento sociale e morale in una delle zone allora più desolate e misere della regione. L’esperienza verrà accompagnata dalla realizzazione di un complesso architettonico, ad opera dell’architetto Leonardo Ricci. La storia del progetto, denominato «Villaggio degli ulivi», è raccolta nel volume di Emanuele Tuccio, Il Villaggio di Monte degli Ulivi a Riesi di Leonardo Ricci, Palermo, Est Modus, 2001; la storia dell’attività sociale svolta dal centro è invece raccolta in Marco Jourdan (a cura di), Un villaggio chiamato Riesi. I 50 anni del Servizio Cristiano, Torino, Editrice Claudiana, 2011. Questi anni, molto ricchi dal punto di vista delle esperienze comunitarie, vedono la realizzazione di un’altra iniziativa comunitaria a Palma di Montechiaro, ad opera del sacerdote gesuita Salvinus Duynstee, con cui Doglio instaura un rapporto di amicizia. Nonostante ne sia rimasta poca traccia, la storia delle vicende che hanno portato all’istituzione del Centro comunitario è ben documentata nel libro di Raffaello Rubino, Palma e Licata. Esperienze di sviluppo comunitario, Palermo, Andò, 1966; e, in forma più marginale, in Giuseppe Leone, Territorio e società in Sicilia negli anni Cinquanta e Sessanta nell’esperienza di Danilo Dolci, Salvinus Duynstee e Tullio Vinay, Palermo, ANVIED, 1993.↩︎

  13. Doglio entra nelle Facoltà di Architettura dapprima come professore incaricato di lingua inglese e successivamente come libero docente in Pianificazione territoriale urbanistica.↩︎

  14. Questo episodio è in realtà l’epilogo di un percorso professionale difficile, a fianco di Leonardo Urbani, segnato da alcuni importanti traguardi, ma anche da tante amare sconfitte. La collaborazione più proficua è quella con Unioncamere, da cui usciranno due importanti pubblicazioni scritte a quattro mani con Urbani: Programmazione e infrastrutture e La fionda sicula (Carlo Doglio e Leonardo Urbani, Programmazione e infrastrutture, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 1964; Carlo Doglio e Leonardo Urbani, La fionda sicula: piano della autonomia siciliana, Bologna, il Mulino, 1972), mentre rimarranno incompiute diverse esperienze di pianificazione, come quelle per il piano regolatore di Trapani e di S. Vito lo Capo. Anche l’esperienza per il piano regolatore di Cefalù, a cui Doglio partecipa chiamato da Giuseppe Samonà per mantenere il rapporto tra progettisti e popolazione, si presenterà come una grossa delusione in seguito alle importanti modifiche introdotte dall’amministrazione in sede di approvazione.↩︎

  15. Nel 1970 è chiamato da Giuseppe Samonà allo IUAV come professore aggregato di Urbanistica, a fianco di Giancarlo De Carlo. Vi rimarrà fino al 1972, anno contrassegnato dalla storica scissione fra il percorso formativo in Architettura e quello in Urbanistica. Si sposta quindi per due anni alla Facoltà di Architettura Federico II di Napoli, dove è titolare del Corso di Pianificazione territoriale con l’amico Leonardo Urbani.↩︎

  16. Collabora nello specifico con Giorgio Trebbi e Leonardo Lugli (Facoltà di Ingegneria); Umberto Bagnaresi e Alessandro Chiusoli (Facoltà di Agraria); Andrea Emiliani e Pierluigi Cervellati (DAMS, Facoltà di Lettere e Filosofia). Convinto del valore dell’interdisciplinarietà, nel corso degli anni Ottanta Doglio proporrà anche un unico «Dipartimento di progettazione e pianificazione urbano-territoriale» (Dipartimento di progettazione e pianificazione urbano-territoriale, dattiloscritto, s.f., s.d., ACD).↩︎

  17. Carlo Doglio, Lettera a Giancarlo De Carlo, 8.04.1954, ACD.↩︎

  18. Bruno Zevi, Un piano concepito su versi di Quasimodo, in Cronache di Architettura. Dal recupero dell’espressionismo al Piano Regolatore di Roma, 561, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 472.↩︎

  19. Si cfr. Franco Ferrarotti, Il senso del luogo, Roma, Armando Editore, 2009.↩︎

  20. Carlo Doglio, Lettera a Franco Alasia, 9.01.1961, ACD.↩︎

  21. Carlo Doglio, dattiloscritto preliminare all’articolo definitivo (s.d., ACD). Si tratta della prima stesura di un articolo che doveva raccontare ai lettori di «Comunità» l’attività di pianificazione compiuta a Ivrea. L’articolo verrà poi fortemente rivisto e pubblicato nella sua forma finale con toni decisamente diversi: Carlo Doglio, Viaggio alla ricerca della pianificazione urbanistica, «Comunità», 30, 1955, pp. 42-57. Doglio non nasconderà mai una certa dose di criticismo nei confronti dell’esperienza di pianificazione condotta a Ivrea. Si cfr. a proposito Carlo Doglio, Problemi di forma e contenuto nella pianificazione urbanistica, intervento al IV Congresso Nazionale di Urbanistica (Venezia, 1952); «La Sentinella del Canavese», 42, 31 ottobre 1952 o Doglio, L’equivoco della città giardino, cit., libro che può essere letto come una nota a margine ai lavori per il piano regolatore di Ivrea.↩︎

  22. Danilo Dolci (a cura di), Comunicare, legge della vita, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 12.↩︎

  23. Doglio, Dal paesaggio al territorio, cit., p. 320. Si tratta del testo del suo intervento al Seminario sul centro storico di Trieste organizzato dall’Associazione degli ingegneri e degli architetti nel 1967.↩︎

  24. Si cfr. a riguardo anche Ivan Illich, La convivialità, Milano, Mondadori, 1973.↩︎

  25. Si cfr. Luigi Mazza, Technical knowledge and planning actions, «Planning Theory», 1, vol. I, 2002, pp. 12-25.↩︎

  26. John Dewey, Logic: The Theory of Inquiry, Henry Holt and Co., New York, 1938 [trad. it. di Aldo Visalberghi, Logica, teoria dell’indagine, Torino, Einaudi, 1949].↩︎

  27. Zevi, Un piano concepito su versi di Quasimodo, cit., pp. 471-473.↩︎

  28. G. Devoto, G. C. Oli, Il Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana, Milano, Le Monnier, 2010.↩︎

  29. Si cfr. Lewis Mumford, The Transformation of Man, Harper, New York, 1956 [trad. it. di Carlo Doglio, Le trasformazioni dell’uomo, Milano, Edizioni di Comunità, 1968].↩︎

  30. Il metodo maieutico di Danilo Dolci è basato sul reciproco scambio, sulla partecipazione attiva e sulla vera comunicazione tra soggetti. Un esempio dei dibattiti di Spine Sante è riportato nel brano Fare un programma, come si dice in siciliano?, in Carlo Doglio e Franco Alasia (a cura di), Come l’albero dalla terra e dalla roccia l’acqua e dall’uomo l’amore. Un dibattito sulla pianificazione regionale (I), «Comunità», 94, 1961, p. 33. Si cfr. a riguardo anche Mazzoleni, Un laboratorio di sviluppo comunitario: il centro per la piena occupazione di Danilo Dolci a Partinico, cit., in particolare il paragrafo Le peculiarità del laboratorio siciliano di Dolci, in cui viene analizzato proprio tale metodo.↩︎

  31. Carlo Doglio, Intervento al Convegno Regionale sulla Programmazione Economica, Ancona, 9-10-11 aprile 1965; in Doglio, Dal paesaggio al territorio, cit., pp. 400-401. Il legame di Doglio con Aldo Capitini, politico e filosofo della nonviolenza, risale agli anni della sua collaborazione con il periodico «La Cittadella». Capitini inoltre seguiva attivamente le attività del Centro, come riportato in Carlo Doglio e Franco Alasia (a cura di), Come l’albero dalla terra e dalla roccia l’acqua e dall’uomo l’amore. Un dibattito sulla pianificazione regionale (II), «Comunità», 95, 1961, pp. 28-60.↩︎

  32. Centro Studi e Iniziative per la piena occupazione, Cicl. 220, Relazione di Carlo Doglio, di Partinico, esperto in pianificazione regionale del Centro Studi. Relazione al Convegno di Roccamena (ACD). In: Doglio, Dal paesaggio al territorio, cit., p. 261.↩︎

  33. Marcello Fabbri, Dalla città disfatta alla città concreta, in Antonella Greco, Renato Nicolini, Maria Chiara Ghia (a cura di), Le epifanie di Proteo, Roma, Gangemi, 2008, p. 59.↩︎

  34. Lucien Febvre, A Geographical Introduction to History, London, Routledge, 1950, prima ed. 1925, cit. in Carlo Doglio, Il piano della vita, «Comunità», 109, 1963, pp. 67-77.↩︎

  35. Piercarlo Palermo, Trasformazioni e governo del territorio. Introduzione critica, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 56.↩︎

  36. Cfr. Doglio e Urbani, La fionda sicula, cit., pp. 38-39.↩︎

  37. «Lo conosci questo paese che basterebbe inclinare le vie verso la piana e l’azzurro del mare gli entra dentro a sollevarlo nel cielo; e invece s’incurva a mezzo, disperata congerie di rifiuti e di inutili strida? È il mio paese del cuore adesso». Carlo Doglio, Quaderno di Sicilia, «Comunità», 90, 1961, p. 73.↩︎

  38. Lettera a Bruno Zevi, 31.12.1972, ACD.↩︎

  39. Bruno Zevi, La fionda sicula dell’anti-città, in Cronache di Architettura. Dall’inedito di Umberto Boccioni all’autolesionismo della Triennale, n. 956, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 21-23. Come premonisce Zevi nella recensione, il lavoro sarà guardato più per le indagini sui sistemi territoriali della Sicilia (ennesimo «piano inutile») che per il suo impalcato ideologico, confermando la distanza fra Doglio e la cultura urbanistica del tempo.↩︎

  40. La proposta dei comprensori mutevoli non può non aver risentito del riavvicinamento di Doglio al movimento anarchico (che avviene intorno al 1970). È infatti dello stesso periodo la pubblicazione di Pëtr Kropotkin, La società aperta. Scelta negli scritti e Introduzione di Herbert Read con una nota di Carlo Doglio, Cesena, L’Antistato, 1973, libro in cui viene avanzato un modo di organizzazione della società secondo piccole comunità federate a seconda delle necessità.↩︎

  41. Cfr. John Friedmann, Notes on Societal Action, «Journal of the American Planning Association», 35(3), 1969, pp. 311-318.↩︎

  42. Secondo Geddes, nel gioco infinito del piano, il compito del planner è quello di chiarire ai giocatori la natura stessa del gioco, mostrando che esistono soluzioni cooperative, non autoritarie e mutualmente vantaggiose. Cfr. Giovanni Ferraro, Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India. 1914-1924, Milano, Jaca Book, 1998.↩︎

  43. Doglio, Dal paesaggio al territorio, cit., p. 13.↩︎