Introduzione a ‘La pratica (imperfetta) dell’anarchia’
2021-09-19
INDICE DEL LIBRO:
Quando era giovane, noi lo chiamavamo Kasko (sì, con la kappa). All’epoca avevamo tutti un qualche soprannome, che usavamo tra noi perché faceva tanto “banda”, o gruppo di affinità se si preferisce. Lui era Kasko perché utilizzava questo dispositivo di protezione in tempi in cui una retorica alla easy rider non contemplava atteggiamenti così prudenti. Ma il fatto di essere controcorrente non l’ha mai impressionato più di tanto. È rimasto Kasko per diversi anni, per tutto il periodo che va dalla fine del decennio Sessanta alla fine del decennio Settanta. È il periodo della militanza dura, quotidiana, della militanza come scelta di vita.
Al pari di tanti coetanei, Paolo inizia la sua traiettoria politica nel 1968, e precisamente al liceo Carducci di Milano, dove si fa le ossa come “liderino studentesco” (secondo una definizione dell’epoca). Ma già in quell’anno si avvicina al Circolo (anarchico) Ponte della Ghisolfa – le parentesi sono nella dicitura originale – come testimonia una rara foto che lo vede in prima fila alla serata di inaugurazione della nuova sede di piazzale Lugano 31. La rotta di avvicinamento prosegue serrata in quel fatidico 1969, che lo vedrà aderire al gruppo Bandiera Nera subito dopo la strage di piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli (quasi a riempire, come lui stesso racconta, il posto vuoto lasciato dalla sua tragica e assolutamente non accidentale morte).
Quella scelta di vita militante che Paolo, diciottenne, compie in un momento di straordinaria mobilitazione sociale è rimasta intatta ben oltre il decennio “ruggente”, attraversando i corsi e ricorsi storici che hanno accompagnato la sua vita e quella della rivista fino all’anno 2020. L’ultimo per entrambi. Ovviamente i modi della militanza sono cambiati nel tempo, ma quella scelta “totale” è rimasta e ha plasmato in maniera indelebile tanto il suo percorso esistenziale quanto quello di quasi tutti i membri del gruppo di affinità con cui ha condiviso, gomito a gomito, anni e vicende cruciali. Un gruppo che fa capo non solo a Bandiera Nera, ma anche ai Gruppi Anarchici Federati (GAF), che proprio in quegli anni, a lato e a sostegno della politica attiva, fondano varie iniziative culturali ed editoriali, a cominciare dal mensile “A rivista anarchica”.
È il febbraio del 1971 quando esce il primo numero di “A”. Come nasce questa testata anarchica molto innovativa per il suo tempo, lo spiega Paolo stesso nelle interviste che seguono. Ma ci sono aspetti che vanno evidenziati. Intanto si tratta di un progetto collettivo che nasce sulla spinta di un attivismo poderoso che sta investendo l’intera società, qualcosa difficile da immaginare per chi non ha vissuto quegli anni. Non è che tutto fosse magnifico e progressivo. Anzi, c’erano aspetti – anche negli ambiti “rivoluzionari” – che erano assolutamente intollerabili, e non in prospettiva o con il senno di poi, ma già nell’immediato. E la nuova rivista si rivelerà subito un ottimo strumento non solo per svelare le trame criminali dei potenti ma anche per stigmatizzare le derive autoritarie che provavano in tutti i modi a soffocare le istanze libertarie del ’68.
Nondimeno, l’atmosfera che all’epoca si respira spinge irrefrenabilmente verso l’innovazione e la creatività. Ed è proprio questa air du temps che porta la nuova testata – la prima a usare la A cerchiata come simbolo anarchico – a dare attenzione non solo a quella pluralità apparentemente infinita di movimenti, idee e sperimentazioni tipica del periodo, ma anche ai nuovi codici di comunicazione che si vanno affermando. E in questo “A” rompe consapevolmente – senza acrimonia, ma con un po’ di saccenza giovanile – con un’editoria anarchica che appare ormai vetusta nelle forme, nei toni e nelle priorità. E invece, se si vuole traghettare l’anarchismo in un’era che pone domande del tutto nuove, c’è tanto da dire e da fare, da smontare e rimontare, soprattutto perché quella gloriosa tradizione di cui “A” si sente orgogliosamente erede non sembra più in grado di fornire le risposte adeguate.
La prima sede della rivista è presso il “Ponte” (come veniva chiamato il circolo), ma già nel 1972 la rivista si trasferisce in via Rovetta 27, in uno spartano trilocale situato al piano rialzato di una palazzina d’epoca. E sarà quella la sua sede definitiva per i successivi quarantotto anni. A quel tempo il quartiere di Turro era ancora una zona operaia. All’ora di pranzo le vie si riempivano di tute blu che s’affrettavano verso le trattorie a buon mercato (primo, secondo, contorno e un quarto di vino a 600 lire) sparse tra le fabbrichette. Ce n’era una all’angolo, la Trattoria della Torre gestita da Gigi e Eugenia, che presto diventerà importante per la storia di “A”. Quei locali molto semplici, che ricordano un’osteria bavarese, si trasformano infatti in una sorta di dépendance della redazione, tanto che molte delle foto che ritraggono i collettivi redazionali e gli ospiti in visita sono state scattate proprio là, nella trattoria di Gigi e Eugenia, che magari la sera tenevano aperto solo per noi (e che spesso ci allertavano, in quella Milano ancora fortemente popolare e antifascista, quando qualcuno dell’Ufficio politico della questura faceva un giro in quartiere per raccogliere informazioni su di noi e le nostre attività).
Inizialmente “A” è concepita come un giornale in cui trovano spazio soprattutto le attività concrete – le “lotte”, nel linguaggio dell’epoca – che anarchici e libertari portano avanti nel sociale. E di conseguenza anche il formato si adegua a questa impostazione adottando un aspetto da “foglio di lotta”. Molto illustrato, però, e con un’impaginazione ben studiata. Questa attenzione alla grafica e alle immagini, intesa come modo di comunicare e non come banale estetica, è infatti uno dei tratti caratteristici di “A” e l’accompagnerà per tutta la sua vita editoriale. Che vedrà diversi cambiamenti, non tanto nel formato (che nel 1974 passa da foglio a tabloid), quanto nell’impaginazione e nella ricerca iconografica. Sono tutti mestieri – compresi ovviamente quello di giornalista o di inviato – che vengono appresi sul campo. Va quindi da sé che soprattutto agli inizi ci siano incertezze, cadute di stile, e magari anche qualche strafalcione… ma poi si è appreso il mestiere. Anche grazie a qualche buon consiglio di grafici professionisti come Ferro Piludu e il Gruppo Artigiano Ricerche Visive di Roma o alle competenze di fotografi come Roberto Gimmi e Gianfranco Aresi, che realizzano la maggior parte delle copertine della rivista e che costituiscono, nel corso dei decenni, il suo ricco fondo iconografico, dal quale provengono molte delle foto qui pubblicate. Anche la composizione della redazione cambia nel tempo in modo significativo. All’inizio è attivo un collettivo redazionale molto affine e piuttosto esteso, che segna soprattutto i primi anni della rivista. Poi nascono, sempre in ambito GAF, altre iniziative editorial-culturali – le edizioni Antistato, la rivista internazionale “Interrogations”, la rivista di approfondimento “Volontà”, il Centro studi libertari / Archivio G. Pinelli… – e quel collettivo iniziale si disperde man mano nelle nuove iniziative, mantenendo però sempre saldi i rapporti con la “casa-madre”. Non a caso nel 1977 viene fondata l’Editrice A cooperativa che raccoglie al suo interno tutte le iniziative editoriali già esistenti, e più tardi anche quelle nate successivamente come la casa editrice elèuthera (1986) e il trimestrale “Libertaria” (1999).
Ma se il gruppo fondatore si sparpaglia nelle nuove iniziative, altri collettivi redazionali nascono nei locali di via Rovetta. E le foto scattate lungo i decenni testimoniano di questo costante flusso di compagni e compagne che hanno dedicato ad “A” una parte, talvolta consistente, della propria vita. Troppi, davvero troppi per essere citati qui. Con una doverosa eccezione: Fausta Bizzozzero, presente e attiva dal primo numero, nonché direttrice responsabile della rivista per lunghi anni (dal 1976 al 2017): è lei che più a lungo di chiunque altro si è assunta – anche negli anni “caldi”, quando il rischio penale era alto – la rappresentanza legale di una testata anarchica che non si tirava certo indietro… Basti dire che la rivista non ha mai parlato di “malore attivo” ma ha sempre proclamato con forza l’assassinio nei locali della questura milanese di Giuseppe Pinelli.
Con il tempo però, come spiega Paolo, i collettivi di fatto si assottigliano, invecchiano e via via si estinguono. Eppure, per mezzo secolo, la rivista continua a uscire imperterrita proprio perché c’è una figura stabile, solida, affidabile come Paolo (o meglio, come Paolo e Aurora, quasi un binomio). Se è indiscutibilmente vero che “A” è figlia di un colossale sforzo collettivo che ha coinvolto migliaia di persone, è altrettanto vero che solo la determinazione e la tenacia di queste due persone hanno fatto sì che la sua storia durasse cinquant’anni.
Ed è appunto in questa fase che Kasko cambia soprannome e diventa il “Bertoni dell’Editrice A”. È lui stesso a raccontare la stima che prova per questo coriaceo editore anarchico italo-svizzero che per quarantasette anni fa uscire una testata bilingue (“Il Risveglio/Le Réveil”), oltretutto in epoche travagliate segnate da due guerre mondiali e dall’avvento dei totalitarismi. Quella pacata, inscalfibile determinazione editoriale lo affascina e tra il serio e il faceto si pone l’obiettivo di emularlo. Il che gli vale il nuovo appellativo, coniato con affetto e un pizzico di ironia dai suoi compagni di federazione, con cui “A” mantiene una stretta collaborazione che dura nei decenni.
Il continuo turnover di redattori e collaboratori – che per scelta militante, ricordiamolo, hanno sempre lavorato gratuitamente per la rivista, proprio come Paolo e Aurora – ha inevitabilmente fatto sì che “A” diventasse sempre più espressione di Paolo e della sua peculiare visione dell’anarchismo. Non che i vari collettivi redazionali che si sono susseguiti – a volte consistenti, a volte esigui – non abbiano lasciato una loro impronta. Tutt’altro: sfogliando le pagine di “A” appare evidente come nel corso del tempo le priorità e gli approcci si siano modificati in stretta correlazione con le sensibilità e le priorità espresse da chi in quel momento collaborava con la rivista. Anzi, è proprio questa capacità di diversificarsi – peraltro in sintonia con il costante fluire della storia – che spiega la ricchezza della rivista. È però indubbio che sempre più Paolo ne diventa il baricentro, assumendosi il rischio, di cui è ben conscio, di trasformarla in una testata personalistica.
Eppure questo non avviene, perché la concezione di fondo della rivista rimane quella di un’agorà, di uno spazio aperto a disposizione di chi – condividendo una sensibilità libertaria – ha qualcosa da dire. Quella di Paolo è infatti una gestione “ecumenica” che dà voce a tutte le correnti anarchiche e libertarie, anche a quelle più distanti dalla sua visione. Con qualche eccezione, forse, verso le posizioni che più stridono con la sua acuta (a volte troppo acuta!) sensibilità nonviolenta. Ma in generale Paolo, dotato di un formidabile spirito eclettico e curioso, dà spazio all’interno della rivista alle esperienze più varie e alla gente d’ogni tipo: intellettuali e illetterati, anarchici doc e ribelli senza etichetta, compagni di lungo corso magari disincantati e giovani irruenti tuttora convinti che cambiare il mondo nell’immediato sia non solo possibile ma inevitabile.
Via via che la rivista, nata in rottura con le strutture tradizionali e poi diventata essa stessa “istituzione”, attraversa i decenni, la postura assunta da Paolo – con un piede dentro e un piede fuori dal movimento anarchico – rimane stabile. Il che gli permette di cogliere non solo tutto ciò che avviene all’interno del mondo anarchico, ma anche tutto ciò che di libertario (nel senso più ampio del termine) si muove nella società. Ed è proprio questa postura costantemente in bilico e questa prospettiva a tutto campo che ha probabilmente reso “A” così longeva. Nondimeno, è indubbio che Paolo Finzi sia sempre stato “un uomo di movimento”: è quella la sua casa intellettuale ed emozionale.
Il luogo fisico in cui invece ha passato gran parte della sua vita è la sede di via Rovetta 27, quelle tre stanzette stipate all’inverosimile di carta e idee. Ed è lì che lo colloca la memoria: Paolo seduto davanti al computer che ti guardava di sbieco quando ascoltava qualcosa di inaspettato. Paolo con le labbra sporche di inchiostro perché aveva l’abitudine malsana di succhiare furiosamente biro e pennarelli. Paolo con la sua inesauribile (o così a noi pareva) voglia di scherzare. A volte era lì da solo, anche perché arrivava in sede a ore antelucane e a ogni festa comandata. A volte era invece in compagnia di un flusso inarrestabile di compagni e amici, di conoscenti e collaboratori, e anche di gente che gli stava francamente antipatica ma che accoglieva sempre e comunque. Lui ascoltava tutti, per principio. E non c’è un altro modo di fare una rivista aperta.
Il nostro rapporto con Paolo, che per i membri più vecchi del nostro collettivo è iniziato con la nascita di “A” e non si è mai interrotto, è stato sempre intenso, fino ai suoi ultimi giorni, con le attività svolte insieme per il progetto di ricerca “Pinelli: una storia”. D’altronde, il nostro centro studi è stato fondato nel settembre 1976 dallo stesso gruppo che cinque anni prima aveva fondato la rivista, e dunque Paolo è stato un membro fondatore della nostra associazione. Non è perciò un caso se nel 1987 il centro studi/archivio, insieme alle edizioni elèuthera e alla rivista “Volontà” (già parte dell’Editrice A), traslocano dai locali (ormai insufficienti) di viale Monza 255 a quelli di via Rovetta 27. Noi nel seminterrato e “A” nell’ammezzato della stessa palazzina: nasce così l’“Arcore libertaria” scherzosamente citata da Paolo nelle pagine che seguono. E questo trasloco ci porta a parlare della sua estrema generosità, che non si è limitata alla rivista perché quei locali sono stati acquistati da Paolo per ospitare in comodato gratuito quelle iniziative sorelle in espansione. Sarà la nostra sede per ventotto anni. Della sua generosità non ne voleva tanto parlare, e dunque ci limitiamo a citarla. Ci permettiamo solo di aggiungere che è stata straordinaria e difficilmente calcolabile.
Negli ultimi mesi Paolo era cambiato. La sua faccia era sofferente, il suo sguardo aveva perso quella luce irriverente e divertita che era una sua caratteristica. Il futuro – suo, di “A”, del mondo – lo spaventava. D’altronde, l’età che avanzava, la salute malferma, i troppi impegni rispetto alle forze anagraficamente disponibili sembravano spiegare tanto, se non tutto. Invece il malessere era più profondo, e forse, nonostante i suoi silenzi, noi l’avremmo dovuto capire. E tuttavia rispettiamo la sua scelta estrema. Quello che noi adesso possiamo fare è tramandare la memoria di una storia che merita di essere raccontata, e lo facciamo ridandogli la parola così che sia lui stesso a raccontarla. A cominciare dalle parole che ha scritto un mese prima del suicidio in una lettera di commiato che la figlia Alba ha recuperato da un cestino della carta straccia: “Curioso, ho dedicato un po’ tutta la vita a fare propaganda anarchica, a creare anarchici e anarchiche, e poi ne elimino io uno… e non dei peggiori”.