Latour e la pluralità dei mondi

Introduzione a ‘Disinventare la modernità’

Telmo Pievani

2023-08-29

traduzione di Carlo Milani.

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE Latour e la pluralità dei mondi di Telmo Pievani // Disinventare la modernità // Cenni biografici

Nel 2010, nella terza di sei bellissime lettere sull’umanesimo scientifico, Bruno Latour confessava a un’immaginaria studentessa tedesca il suo amore per i laboratori, questi eredi intellettuali delle botteghe artigiane: «Come mi piacciono i laboratori! Le giuro che mi batte veramente il cuore quando entro, anche solo per un momento, in un laboratorio di qualunque disciplina. Non c’è niente che mi appassioni, che mi emozioni a tal punto. Io fremo, capisco, ammiro, conosco»1. Che dire, dunque, della vulgata di un Latour nemico della visione scientifica, scettico a proposito di qualsiasi oggettività dei risultati sperimentali, relativista al limite dell’irrazionalismo?

Il grande antropologo e sociologo delle scienze e delle tecniche (ma non gradiva questa dizione, giacché suppone che scienza e tecnica siano domini prefissati e autonomi dell’avventura umana) aveva coltivato il suo «amor laboratoris» per lungo tempo, muovendo i primi passi come etnologo di quelle strane tribù affaccendate che popolano i dipartimenti scientifici. Nel dialogo del 2005 qui meritoriamente ripubblicato a un anno dalla scomparsa, Latour ripercorre con il filosofo François Ewald la radice antropologica della sua parabola di pensiero, a partire dalle esperienze sul campo in Costa d’Avorio e dalla svolta concettuale di immaginare un’antropologia simmetrica, che sappia cioè studiare allo stesso modo le culture moderne e quelle cosiddette altre (laddove, va da sé, noi siamo gli altri degli altri), cogliendo in entrambe il fulcro della produzione delle rispettive verità. Da qui l’incontro con le scienze sperimentali (e con il diritto), inevitabile per chi voglia praticare un’antropologia delle società moderne.

L’applicazione di metodi antropologici ed etnografici alla scienza lo aveva portato, negli anni Settanta del secolo scorso, nel laboratorio del Salk Institute di La Jolla, in California, dove stavano maturando le ricerche di neuroendocrinologia che porteranno il suo conterraneo di Borgogna naturalizzato statunitense, Roger Guillemin, al Premio Nobel per la medicina nel 1977. Qui ricostruì la febbrile vita di laboratorio tra gestione degli spazi, intrecci familiari, metodi di lavoro, scritti e corrispondenze, esperimenti, macchinari, ideologie sottese, pratiche sperimentali, mondi sociali e culturali, idiosincrasie, linguaggi, condizioni di produzione, interessi industriali. Dunque, non si concentrò soltanto sulle lotte di potere all’interno della comunità scientifica – come già avevano fatto Robert K. Merton e Pierre Bourdieu – ma più sugli oggetti su cui gli scienziati lavorano, sulle loro visioni del mondo, sui molteplici attori della scena laboratoriale. Ecco dunque un primo elemento di originalità che emerge chiaramente da questa conversazione: Latour rivendica una visione realistica della scienza, basata sulla storia materiale, poiché nessun enunciato scientifico (forse con la sola eccezione dell’astrazione matematica) prescinde dalle sue condizioni di produzione. Materializzare è socializzare, socializzare è materializzare, ripeterà poi nei suoi libri.

La carriera successiva di Latour a Parigi si muoverà lungo questo binario originario, a contatto quotidiano con gli studenti di prestigiose scuole tecniche e ingegneristiche come il Conservatoire des Arts et des Mètiers e l’École des Mines, prima di approdare a Sciences Po, ossia all’Institut d’Études Politiques di Parigi. Generazioni di giovani riceveranno da questo borgognone un insegnamento prezioso: il dono delle scienze è di introdurre nel mondo nuovi esseri – siano essi particelle elementari, microbi, macchine, algoritmi, modelli climatici, brevetti, incidenti nucleari, buco nell’ozono, ulivi pugliesi che seccano, PFAS nelle acque, organismi geneticamente editati – che si ibridano con altri esseri (provenienti dal mercato, dagli artigiani, dagli artisti, dagli orrori del tempo, dagli ecosistemi), fanno rete, si contaminano, arricchiscono le nostre società e le cambiano. Le scienze avvicinano nuovi esseri, li rendono percepibili. A noi spetta trovare, di volta in volta, nuovi modi per convivere in modo coerente con queste nuove presenze ibride, persino sognando «un cosmo armonioso». Il senso a-moderno di libertà per Latour si chiama connessione, legame, e in questo dialogo lo spiega con particolare chiarezza.

Se libertà significa essere connessi, non ha senso scegliere tra costruzioni sociali e contenuti di verità della scienza, essendo ordine del cosmo e ordine della società interdipendenti. Latour smonta le dicotomie una per una: natura/cultura; fatti/valori; soggetto/oggetto; contenuto/contesto; tecnofili/tecnofobi. Così come esiste un «parlamento del clima» che si riunisce ogni anno nelle conferenze internazionali2, il suo obiettivo era istituire un «parlamento delle cose», una democrazia allargata alle cose, a suo modo una democrazia scientifica, in cui tutti gli attori coinvolti e connessi potessero prendere decisioni consapevoli e informate attraverso procedure di rappresentanza e di apprendimento collettivo. Se escludiamo qualcuno o qualcosa dal nostro orizzonte critico – i morti sulle strade, i prioni della malattia della mucca pazza, la nostra pregnante dipendenza da dispositivi di cui non conosciamo il funzionamento – poi tornerà a ossessionarci, diceva. Da questo dialogo Latour emerge come un pensatore realista che moltiplica lo sguardo sugli esseri e sugli attori sociali, un filosofo dell’inclusione, delle associazioni, delle concatenazioni di entità diverse che ri-assemblano incessantemente il naturale e il sociale.

In che modo dunque sarebbe accusabile di relativismo? Certo, il suo punto di vista mette sempre in luce i vantaggi e gli svantaggi di essere dentro una certa visione del mondo, dalla quale in ogni caso non si può evadere. «Nessuna scienza può uscire dalla rete della sua pratica», scrive Latour3. Quando lo fa, inventa entità universali astratte e omogenee – come l’etere, la Natura unificata o l’Universo infinito – che la imprigionano. In tal senso, bisogna difendere la scienza da sé stessa. Tuttavia, quando ad esempio si instaura una controversia tra due scienziati sostenitori di modelli incompatibili (in questo dialogo riprende il suo meticoloso lavoro su Louis Pasteur e sul suo avversario, assertore della generazione spontanea, Félix Archimède Pouchet) è possibile stabilire che non necessariamente entrambi avevano le stesse ragioni e le loro teorie il medesimo valore. Alla fine, la storia della scienza emette un verdetto: ha vinto Pasteur. Storicamente si è rivelato dominante, perché lui e non l’altro ha costruito la batteriologia e la biochimica. Quindi è persino ovvio ed evidente, afferma qui Latour, che: «la scienza è vera e genera enunciati oggettivi sul mondo».

Enunciati oggettivi sul mondo: altro che Latour relativista ingenuo. I peptidi studiati da Guillemin sono peptidi davvero, non rappresentazioni. I batteri di Pasteur sono batteri veri, non invenzioni. La scienza va secolarizzata, certo, ma senza rinunciare alle conoscenze oggettive, affidabili, condivise. Importante però è non avere della scienza una visione così banale da pensare che quello fra Pasteur e Pouchet sia stato uno scontro tra razionalità e irrazionalità, tra verità e falsità, tra progresso e oscurità. Nella storia della scienza i cattivi non sono mai così cattivi, e le ragioni dei perdenti hanno sempre qualcosa da insegnare. Secondo Latour, che lo aveva studiato a lungo negli anni Ottanta, il loro confronto fu piuttosto un accumulo di piccole differenze nelle pratiche, di deviazioni e ricomposizioni, di contingenze e incidenti, di alleanze e pressioni, di dimostrazioni e retorica. Quella di Pasteur non fu l’esibizione solitaria di un’evidenza, convincente e vittoriosa di per sé, ma una strategia di convincimento, un movimento collettivo, come del resto fu una campagna culturale ben orchestrata anche la pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin4.

Latour insomma contesta la visione eterea della scienza come scambio di idee tra cervelli sconnessi dal mondo, e ancor peggio come fondamento oggettivo per l’etica e la politica. Adora «l’incredibile bellezza» dei laboratori che con tutte le loro promiscuità svelano i segreti della natura, ma non sopporta il modello dello scienziato freddo e distaccato come il dottor Spock di Star Trek. Più che relativista, è un realista attento agli aspetti costruttivi delle verità scientifiche, un pluralista immune da qualsiasi tentazione disfattista post-moderna e parimenti da ogni moda New Age. Come scriveva Giulio Giorello nella Prefazione del 1995 a Non siamo mai stati moderni, il relativismo di Latour, come quello di Paul Feyerabend, è un punto di partenza, non di arrivo. È la postura intellettuale di chi si apre alla ricchezza di cosmologie, quadri concettuali e linguaggi dell’umanità, esplorando reti di traduzioni locali fra loro, e rinunciando a una teoria della razionalità che li ricomprenda tutti. Nuotiamo sopra un relativismo ormai pregnante e irreversibile, sembra dirci Latour, sta a noi cercare di non annegarci dentro.

L’equivoco, talvolta più linguistico che sostanziale, nasce proprio da come definiamo la dimensione costruttiva del sapere di laboratorio. I fenomeni naturali, una volta scoperti dagli scienziati, cambiano. Non si manifestano nella loro purezza per come già erano prima, a prescindere dallo scopritore, come se l’attività scientifica fosse una semplice registrazione di quanto accade là fuori in natura. Poi però Latour scivola talvolta (come molti suoi epigoni) verso una tesi più radicale, così espressa: «senza i pedologi non ci sono i lombrichi», il che non è esattamente coerente con quanto ha dichiarato poco sopra. Piuttosto, senza i pedologi non ci sono i lombrichi per ciò che noi Homo sapiens occidentali intendiamo per lombrichi e per come noi ci relazioniamo a essi. Dunque la conoscenza scientifica e tecnologica è sì una costruzione sociale – frutto di alleanze e traduzioni fra attori molteplici, umani e non-umani – la quale porta però a risultati reali, consolidati e irreversibili, che a loro volta concorreranno ad aggiungere oggetti e attori al processo di costruzione di nuove conoscenze.

In altri suoi libri, Latour sul punto è chiaro. Un enunciato scientifico diventa a un certo punto «indiscutibile» proprio perché ne abbiamo a lungo discusso, perché ha attraversato le tappe successive di una serie di trasformazioni e ricomposizioni, è sopravvissuto al faticoso processo di consolidamento della prova scientifica. Lo stesso vale per la messa a punto di una soluzione per un problema, ad esempio calcolare la longitudine: dall’idea, dal laboratorio, alla capacità di modificare la realtà sul ponte delle navi di Sua Maestà, la strada fu terribilmente impervia. Per Latour, il processo di costruzione non rende un fatto scientifico meno reale e meno vero. Il punto è che quel fatto non parlerà mai da solo: avrà sempre bisogno di uno strumento e di un interprete umano per diventare scienza.

L’effetto serra di origine antropica è per sua stessa definizione un’impresa umana, in quanto opera di Homo sapiens, ma allo stesso tempo è un fenomeno naturale che ci sovrasta: è un ibrido, un quasi-oggetto, fusione di natura e società, una di quelle entità poliformi «reali come la natura, narrate come il discorso, collettive come la società, esistenziali come l’Essere»5. Giudice della verità di un’asserzione scientifica quindi non può essere una supposta Natura-in-sé preesistente, ma nemmeno la società, che Latour invita a non trasformare mai in un dato di fatto o in un’ipostasi, essendo anch’essa una costruzione continua, un movimento. Come già scriveva in Non siamo mai stati moderni, non avrebbe senso essere costruttivisti con la natura e realisti con la società. Latour rifiuta al contempo ogni naturalizzazione, ogni socializzazione e ogni decostruzione.

Del resto, le sue celebri lezioni miravano proprio ad analizzare empiricamente insieme agli studenti le dispute e gli ibridi scientifico-sociali onnipresenti sui mass media, dando cittadinanza ai quasi-oggetti, rappresentandoli anche graficamente come corsi di azioni o giochi composti da: «deviazioni» iniziali (dovuti a una novità, un incidente, un guasto, una prova da affrontare, ma soprattutto a una controversia pubblica); nuove «traduzioni» (concetto mutuato, come altri, dall’amico e maestro Michel Serres) che sovrapponendosi traspongono e trasformano i significati in un percorso continuo di metamorfosi; e successive «composizioni» di interessi e inter-essenze (un farmaco è una molecola che interessa ai chimici ma inevitabilmente un fatto sociale che interessa i comportamenti delle persone). Ma non vediamo nulla di questo intrico senza un inciampo iniziale, perché lo diamo per scontato, per automatico.

In questi guazzabugli di scienza, politica, società, economia e immaginari, l’insieme di tutti gli attori in gioco (i portavoce di umani e non-umani), dei loro mondi di significati e delle loro relazioni costituiva per Latour l’umanesimo scientifico e digitale, ovvero la rete delle umanità scientifiche al lavoro, alle prese con la dimensione al contempo intrinsecamente politica e intrinsecamente scientifica dei temi più importanti del nostro tempo e della nostra vita collettiva. Il risultato di questo metodo basato sulle reti di attori (Actor-Network Theory)6 è che ogni caso di studio, storico o di attualità, viene ancorato a un paesaggio empirico concreto e stratificato. Ciascun caso fa a sé, non esistendo un sistema che li ricomprenda tutti. Gli ibridi emergono per ciò che sono: quasi-oggetti a molte dimensioni; un po’ fatti e un po’ feticci (cioè, fatticci). Alla fine ciascuno di essi rivelerà di essere parte di un «cosmo», cioè di una disposizione di tutti gli esseri che una cultura lega insieme in pratiche di vita. Agli studenti verrà chiesto di tracciare un «cosmogramma» della disputa considerata, cioè la trama di associazioni, coesistenze, conflitti, opposizioni ed esclusioni di tutti gli esseri, umani e non-umani, che vi hanno preso parte, abbandonando le distinzioni tra razionale e irrazionale o tra moderno e arcaico.

Anche gli scienziati per Latour hanno molte dimensioni, come tutti noi, senza cadere per forza nella schizofrenia. Galileo calcolava l’oroscopo per il compleanno di Cosimo II de’ Medici nella stessa pagina di diario, del 19 gennaio 1610, in cui disegnava per la prima volta i crateri sulla Luna. Quell’oroscopo non è un errore da censurare, non è un servizio da adulatore e non è nemmeno, per Latour, un residuo di arcaismo: è il segno normale della personalità multipla di un grande scienziato immerso in un mondo plurale e contraddittorio. Galileo non è una figura di transizione dilaniata tra un passato oscuro e un avvenire radioso. Insomma, non è un mito della modernità.

Ecco che il discorso di Latour si estende così alla modernità, poiché la pratica scientifica di depurare i fatti dalle loro motivazioni profonde e dalle commistioni costitutive con il paesaggio sociale in cui sono nati è parte essenziale del processo di modernizzazione. La freccia del tempo, l’idea di progresso, la convinzione che esista una Natura universale e oggettiva, la lotta manichea tra irrazionale e razionale, la progressiva separazione di fatti e valori, l’emancipazione da miti e soggettività, la scienza come base di etica e politica, il mito della scienza libera da lobbies e ideologie, i cui enunciati siano separati dalle condizioni di produzione: tutto questo per Latour è l’incubo della modernizzazione; sogno cibernetico di controllo, allucinazione di una società ideale degli esperti. Anche qui, però, si farebbe un errore a pensare che questa deriva porti Latour al catastrofismo, al pessimismo, al sospetto fine a sé stesso, all’indifferenza post-modernista, o alla reazione anti-moderna. Semplicemente, la modernità trova in sé il suo fallimento, perché pretende la separazione di fatti e valori, ma poi li mescola nella pratica, scientifica e non. Crea continuamente ibridi, ma poi li vuole depurare, sterilizzare, separando artatamente natura e società.

Nel destino paradossale di questa modernità da sempre autocontraddittoria, Latour trova persino spiragli di ottimismo. Guardava con fiducia alla possibilità di democratizzare e civilizzare il web. Le società contemporanee sono non-moderne: sono le società dell’imprevisto (qui cita le plastiche e l’amianto; oggi gli esempi proliferano, basti pensare al ritorno della minaccia nucleare, che non se n’era mai andata), o meglio sono le società delle connessioni impreviste, poste dinanzi all’impossibilità del controllo. Se nessuno è davvero esperto di tutto, allora siamo dentro un colossale esperimento collettivo, nel quale dobbiamo imparare a sviluppare nuove preoccupazioni verso nuovi esseri. Tuttavia, la società del rischio in cui viviamo, in perenne ansia a causa degli effetti collaterali nel sistema globale, non è per Latour (come invece per molti altri del suo ambito) colpa della scienza e della tecnica. Costruttivamente – spiega in questa conversazione – se siamo la società delle conseguenze impreviste delle nostre azioni dobbiamo elaborare nuovi legami tra definizioni contraddittorie di cosmo, tra cosmogrammi alternativi. Non a caso nel dialogo Latour continua a smarcarsi dalle posizioni visceralmente anti-scientifiche di Ewald, allievo di Foucault.

Latour auspica un Antropocene non-moderno: liberandoci da ogni nostalgia per un passato armonico che non è mai esistito, abbiamo il compito di pensare che saremo sempre più mescolati, ibridi, connessi. Nella fusione di fatti e valori, lo scienziato è uno degli agenti delle decisioni, al quale non sarebbe giusto delegare il fondamento delle scelte etiche e politiche, scorciatoia amata sia dai marxisti sia dai liberali. Non esistono scienze dure e scienze molli, scrive Latour, ma solo scienziati più o meno brillanti e convincenti. I lettori non avranno difficoltà a notare la fecondità contemporanea del pensiero di Latour nell’interpretare la «tempesta perfetta» di interdipendenze che ci attanaglia in questa fase storica, tra crisi ambientale, riscaldamento climatico, rischio pandemico, conflitti per le risorse, scienziati che si accapigliano nei talk show della sera.

Per certo ci è preclusa, secondo Latour, la via dell’unificazione imperialista e pedagogica sotto le insegne di un unico pensiero e di un’unica natura. A suo avviso (cedendo forse alla tradizione multiculturalista francese) nessuna universalità trasparente è possibile: non condividiamo la stessa Natura, siamo in disaccordo su ciò che intendiamo per clima, per geni, e così via. Le culture differiscono non solo sui valori, ma sull’insieme di elementi che costituiscono un cosmo. Se persino la natura è molteplice, dobbiamo trovare un mondo comune nel futuro, non nel passato già precostituito. E qui Latour, ancora una volta, scarta di lato e si smarca dal multiculturalismo fine a sé stesso. Era il suo modo di pensare: ogni apparente spiegazione diventa qualcosa che deve a sua volta essere spiegato.

Anche l’Occidente – dei cui valori tradizionali qui si proclama, un po’ provocatoriamente, affezionato continuatore – deve partecipare a testa alta, ma privato di qualsiasi spirito di superiorità, alla diplomazia dei cosmogrammi, a una negoziazione planetaria intelligente tra culture, inclusa la negoziazione tra noi che non siamo mai stati moderni e gli altri. Partendo dal fatto che non condividiamo ancora lo stesso cosmo, lo stesso mondo comune, muovendo dalla comprensione degli elementi essenziali del nostro cosmo di aspiranti (ma falliti) moderni occidentali, possiamo dialogare senza imposizioni, partendo da ciò che ogni cultura considera essenziale per la propria identità, noi compresi.

In questa filosofia della pluralità dei mondi – senz’altro debitrice verso il lavoro originale dell’amica epistemologa belga Isabelle Stengers, in particolare verso la sua idea di «cosmopolitica» – dobbiamo trovare insieme un mondo comune che non poggi sulla scivolosa roccia di passate idee di natura, scienza, tecnica, economia. Questo mondo comune futuro non si trova a buon mercato, commenta profeticamente Latour. Prima dobbiamo misurare l’abisso del nostro disaccordo, attraversare il conflitto, che non è marginale ma costitutivo. Non si può fare la pace se prima non si è stati in guerra, ma i moderni sono ancora convinti di non essere stati in guerra. Un Latour qui davvero anticipatore, se pensiamo ai costi in termini di conflitti e di diseguaglianze che la transizione ecologica recherà con sé, a causa delle terribili ingiustizie (intergenerazionali e geopolitiche) che ne hanno imposto la necessità.

Ma come riusciremo a mantenere la nostra tradizione occidentale smettendo di essere moderni? Questo il passaggio stretto – diciotto anni dopo la pubblicazione di questa conversazione – in un quadro internazionale in cui i paesi emergenti galoppano intrisi di modernità di ritorno, spesso la più deteriore; in cui il Global South non vede nella vecchia Europa un interlocutore credibile; in cui pare proprio smentita la previsione che qui Latour azzarda, secondo la quale «non si può immaginare un progresso che ci modernizzerà da Dunkerque a Vladivostok e dalla Terra del Fuoco alla Groenlandia». Purtroppo sta accadendo, nel nome di un progresso scorsoio che depreda le risorse. Siamo tra pari, certo, e non vale più alcun intento pedagogico occidentale, anche perché gli altri sono diventati o intendono diventare iper-moderni, iper-capitalisti, accelerando quel progresso universalista predatorio che ci sta facendo cadere dentro una trappola che fingiamo di non vedere.

Il passaggio difficile, ma visionario, che qui propone Latour è una nuova globalizzazione che sappia tenere insieme pluralismo e condivisione. Non si può essere progressisti e contrari alla globalizzazione, scrive. Essere «no-global» non ha senso. Piuttosto, dobbiamo ricostruire un nuovo tessuto comune, nella molteplicità disordinata dei mondi e dei cosmi. Per navigare nel dedalo di una società globale intrisa di temi scientifici e tecnici, così come per far prevalere la propria teoria scientifica, secondo Latour bisogna ricorrere alla contorta metis greca: astuzia, ingegno, espediente artigianale, trovata geniale, capacità di improvvisazione.

In tal senso – nota qui acutamente – bisogna salvare i movimenti verdi da sé stessi e dalla loro antiquata idea di natura. Per ripensare e fare ecologia politica, occorre liberare la politica dalla Natura, dall’illusione della naturalità risolutrice, dal miraggio di una razionalità naturale, dall’ingenuità secondo cui sarebbe sufficiente dare più retta alla scienza e meno alla politica. I verdi si illudono di dettare le leggi della politica basandole sulla natura, continua Latour, come se conoscessero i segreti della natura, da vecchi saggi. E invece sono pure loro modernisti senza saperlo, anche se poi nelle loro pratiche lottano giustamente per nuove associazioni tra gli esseri, umani e non-umani. Ma così facendo si occupano dell’umano, non della natura. L’ecologia politica deve uscire dalla sua infanzia: credere di occuparsi della natura, quando in realtà la posta in gioco è l’umano77.

Come non condividere quindi la speranza finale di Latour che tutto il mondo, prima o poi, diventerà ecologista. Potrebbe davvero essere l’unico modo per salvare l’Occidente ed essere eredi della nostra tradizione (o traduzione), in un XXI secolo che sarà sempre più turbolento, misurando il prezzo del disaccordo con le altre culture e senza dare più nulla per universalmente precostituito. Dalle intelligenze artificiali alle pandemie, dai disastri ambientali al riscaldamento climatico, oggi i mass media e il dibattito pubblico sono intrisi più che mai degli ibridi natural-culturali di Latour, dei suoi quasi-oggetti, centauri per metà tecnico-scientifici e per metà socio-politici. Nel 2020, anno pandemico, la massa degli artefatti umani ha superato per la prima volta nella storia umana la biomassa, ovvero: il peso delle cose umane ha eguagliato quello di tutti gli animali, tutte le piante e tutti i microrganismi messi assieme. Massa antropogenica e biomassa costituiscono adesso un immane e mostruoso ibrido planetario, alla Latour. Il parlamento delle cose ancora non esiste, ma nel frattempo le cose ci stanno schiacciando.

Speriamo che le nuove generazioni abbiano davvero la forza e la fantasia, ma soprattutto la metis, di disinnescare e disinventare la modernità, anche rileggendo le pagine di Latour, per ripresentarsi un giorno sulla scena capaci di nuove ibridazioni, di inedite connessioni, di sorprendenti traduzioni fra i molti esseri e cosmi che proliferano. Ci vorrà la tortuosa metis, per riadattarsi. Le possibilità di riuscita in questa traversata del deserto stanno tutte nella lungimiranza con cui sapremo, o meno, redistribuire i costi e le opportunità del cambiamento tra le molteplici forme di vita, umane e non-umane, che abitano il pianeta e alle quali Bruno Latour ha dato voce.

Note all’Introduzione


  1. Bruno Latour, Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 86.↩︎

  2. Nel 2013 Latour, in occasione dell’invito a tenere le sei conferenze Gifford sulla religione naturale a Edimburgo, affronta di petto il più grande ibrido del nostro tempo, «metà uragano, metà Leviatano», ovvero l’Antropocene, definendolo un «nuovo regime climatico» in cui il contesto fisico stesso del pianeta diventa instabile e intrinsecamente politico. La terribile Gaia ci consegna una drammatizzazione della cosmopolitica, appunto. Si veda il molto ben scritto: Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, Milano, 2020.↩︎

  3. In Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, elèuthera, Milano, 2018, p. 42 [1995].↩︎

  4. Vedasi: Janet Browne, Darwin L’origine delle specie. Una biografia, Newton Compton, Roma, 2007. Latour è tra i pochi autori ad aver colto e apprezzato il significato più radicale del pensiero di Darwin («santo patrono del multiverso»), ovvero: il divorzio tra Natura e progresso; la caduta di ogni essenzialismo e la valorizzazione dell’irriducibile diversità di ogni singolo individuo.↩︎

  5. Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 119.↩︎

  6. Bruno Latour, Riassemblare il sociale, Meltemi, Roma, 2022.↩︎

  7. Bruno Latour, Politiche della natura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000.↩︎