Stato sovrano, igienismo e biopotere

Philippe Pelletier

2020-04-05

traduzione di Andrea Breda e Carlo Milani.

Questo testo è stato originariamente pubblicato su A contretemps, Bulletin de critique bibliografique con il titolo État régalien, État médecin et biopouvoir

L’origine dell’attuale crisi sanitaria di Codiv-19 – che è in realtà una “crisi” ben più globale di quanto sembri –, così come la sua estensione, offrono l’occasione per numerose analisi. Naturalmente la tentazione è quella di ricercare una conferma delle proprie piccole teorie. Ma poiché i fenomeni sono per definizione inediti e possibilmente inattesi nella loro forma attuale – contrariamente a quanto accade per le filosofie della storia – bisogna rifarsi a quello che accade realmente, rimanendo al tempo stesso consapevoli del turbinio generato dall’alternarsi di troppa e troppo poca informazione. Tra tutti i fenomeni che caratterizzano l’attuale pandemia, due devono più di altri attirare la nostra attenzione: lo Stato (la sua natura, il suo ruolo) e i medici (e in particolare il loro rapporto con la politica e la scienza).

Questi due attori sembrano essere essenziali per capire quello che sta accadendo e quello che rischia di accadere al termine della crisi. L’aforisma “governare è prevedere”, avendo dato prova della sua impertinenza in innumerevoli casi, non implica che noi, individualmente o collettivamente, dobbiamo allora smettere di riflettere sul presente o su ciò che ci aspetta.

Sul carattere inedito o meno della crisi

In questa prospettiva, sorvoliamo sulla pigrizia intellettuale di quei geni che, circa le cause della crisi, proclamano “è colpa della globalizzazione” come se scoprissero la luna. Certamente la diffusione del Covid-19 è rapida e intensa, ma lo è più di altre epidemie? La domanda che resta aperta è sapere se, in rapporto ai precedenti processi di globalizzazione, la natura di quella del ventunesimo secolo cambierà quanto a rapidità e ampiezza. Ma potrebbe anche trattarsi di un dibattito sterile che andrebbe a oscurare la natura dei fenomeni in corso.

L’influenza detta “spagnola”, ma proveniente in realtà dagli Stati Uniti, è spesso citata a questo proposito. Avrebbe provocato tra i venti e i cinquanta milioni di morti nel corso del biennio 1918-19, e costituisce un buon esempio. Notiamo en passant lo scarto della forbice statistica che rivela in maniera chiara la valenza delle valutazioni numeriche di una situazione data. E notiamo anche come i testi scolastici di storia spesso nascondano questo episodio in favore di una lettura eroica dei “grandi uomini” e della loro declinazione plebea di poilus [letteralmente barbuti, termine utilizzato per indicare in Francia il tipico soldato di trincea nella prima guerra mondiale N.d.T.].

Fa tuttavia la sua comparsa una novità, per quel concerne il 2020, su uno sfondo caratterizzato dai media e dalle nuove tecnologie di comunicazione: la reazione della popolazione e della classe dirigente, così come, non senza paradossi, l’utilizzo degli strumenti in questione. Già perché i costosissimi ventilatori per la respirazione artificiale e le sofisticate app non hanno mandato in pensione la buona vecchia mascherina medica in tessuto, mentre una nuova app di tracciamento dovrebbe portarci sicurezza, salute e felicità!

Mettiamo parimenti da parte l’ottimismo che vedrebbe in questa crisi sanitaria dei benefici effetti secondari del tipo “fermiamo tutto, riflettiamo”. Certamente ne esistono: temporaneo abbassamento dei livelli di inquinamento, silenzio, slanci di solidarietà, riflessioni critiche o gesti che permettono ritorni positivi. È anche vero, però, che affondano nella schizofrenia imposta dal momento: è vietato fare acquisti che non siano beni di “prima necessità”, ma il lavaggio del cervello perseguito dai pubblicitari continua a riversarsi dagli schermi televisivi. Personalmente, guardo con sospetto a questi possibili ritorni positivi, perché l’accettazione da parte di tante persone di misure autoritarie indiscriminate e spesso contradditorie (restate a casa vostra, ma andate a votare) [il 15 di marzo in Francia si sono tenute le elezioni comunali] o senza senso (il burocratico “fate la vostra autocertificazione”, vera e propria Ausweiss dei giorni nostri), è preoccupante. Accettazione, sottomissione, impotenza? O peggio autosottomissione? Una cosa è sicura, il confinamento generalizzato e indifferenziato è stato in Francia scelto dalla classe dirigente, imposto e infine avallato.

Crisi sanitaria e “stato di emergenza”

Il confinamento domiciliare generalizzato, imposto dalla legge (votato dalle assemblee parlamentari oppure attuato in seguito a un decreto presidenziale, a seconda dei paesi), e mantenuto attraverso il controllo effettuato dalle forze repressive (polizia, carabinieri, esercito…), conferma, per un certo verso, la giustezza della posizione anarchica. Gli anarchici, infatti, non respingono l’idea in sé di una norma che favorisca il funzionamento della collettività (non bisogna confondere anarchia con anomia), ma rifiutano invece due principi caratteristici della legge: primo, il suo carattere indiscriminato (indifferente al tipo di situazione…), ma ipocrita (la legge dovrebbe applicarsi a tutti allo stesso modo, ma in realtà non funziona proprio così, a seconda che siate ricchi o miserabili…); secondo, la sua elaborazione da parte di politici incompetenti o corrotti e al servizio dei poteri più disparati. Se poi spostiamo l’attenzione sulla questione dell’efficacia, e se ci accontentiamo di limitarci a questo ambito, si nota che, per quanto riguarda la lotta al contagio epidemico, la legge non è uguale in Francia, Svezia o Taiwan e che essa porta a risultati assai differenti. E ciò non fa che confermare la sua arrogante presunzione. Si impone dunque una riflessione su questo meccanismo implacabile che si impone a chiunque senza alcun assenso.

Ora, l’ampiezza di queste misure apre la via a un’estensione smisurata delle stesse nel dopo crisi. Non si contano più ormai gli “stati di emergenza” così come non si contano più i “pieni poteri” eccezionali proclamati in certi paesi (Ungheria, Filippine…), i quali non hanno molto da invidiare alle democrazie i cui i parlamenti, che per supposto dovrebbero organizzare la società, non si riuniscono neanche più.

Una volta che un potere è stato concesso, è difficile riprenderselo. Una volta che lo Stato ha allargato il suo controllo e la portata delle sue sanzioni, non mollerà facilmente il suo bottino. Fra gli altri, il caso del Patriot Act negli Stati Uniti, grazie al quale è stato innalzato il livello di spionaggio dei cittadini in seguito agli attentati del 2001, è un esempio emblematico. Nel 2020, alcuni metodi sono stati sperimentati su scala naturale un po’ ovunque e saranno senza dubbio più o meno mantenuti, e in ogni caso facilmente riprodotti. I dispositivi sono stati predisposti. Le abitudini anche: pensiamo, in Francia, a questo delirio ipocrita delle autocertificazioni, nondimeno controllate e duramente sanzionate in caso di infrazione, da mettere a confronto con la politica poco lungimirante o assassina, chi può dirlo, riguardante le mascherine protettive.

Una sottomissione operata non già sul registro della presa di coscienza, ma della paura (la paura del gendarme che ci sorveglia che si somma alla paura del virus). Essa è stata favorita da una ripetuta legittimazione dei precedenti “stati di emergenza”, che fossero di tipo sanitario, ecologico o a causa del terrorismo. La paura, l’integrazione e l’interiorizzazione della paura, questo strumento modellato dagli Stati autoritari, ha trovato ormai la sua strada attraverso gli Stati democratici. Che nel caso del Covid-19 l’emergenza sia partita dalla Cina e che si incarni in essa, quintessenza dello Stato autoritario “postmoderno”, è peraltro significativo. Ci tornerò.

Il peggio è che i “collassologi” di ogni credo, sbandierando il tracollo e altre fini del mondo, hanno preparato il terreno, che lo vogliano o meno, a questa pan-fobia (paura generalizzata) che ci confina nella nostra residenza. Una tendenza psicologica al pessimismo favorisce purtroppo, in particolare fra i militanti, una tendenza nichilista nei confronti di questo mondo che disperato lo è di sicuro. Con un Nicolas Hulot o anche con un Jean Viard che proclamano “La natura si vendica!”, non c’è niente di nuovo sotto il cielo dei profeti di sventura. Non sapremo invece mai se Nadia, la tigre malese dello zoo di New York contaminata dal Covid-19 da un guardiano, è stata vittima di una “umanità che si vendica”.

Alcuni postmarxisti poi speculano sulla bancarotta di un’economia capitalista che, vivendo della circolazione dei capitali e delle merci, si ritroverebbe a confrontarsi, a causa delle misure di confinamento, con una situazione di grande crisi, possibilmente quella finale. Ma il capitalismo si riprenderà, così come si è ripreso dalla prima guerra mondiale e dalla spagnola. Approfitterà della crisi sanitaria per perseguire la scrematura di piccoli commercianti e agricoltori. Il tutto a beneficio di una concentrazione del capitale nelle mani delle grandi imprese con le spalle larghe, anche se pure tra loro ci saranno perdenti e vincenti. Si sta poi instaurando un nuova distribuzione spaziale e internazionale del lavoro. Il braccio di ferro economico e geopolitico fra la Cina e gli Stati Uniti si aggrava, mentre le pretese delle petro-monarchie vengono accantonate a causa della caduta del prezzo del greggio. Il telelavoro, pozione magica che alcuni neo-liberali, ma anche non pochi ambientalisti, ci annunciano come soluzione ideale ai fini di ridurre gli spostamenti e i gas che causano l’effetto serra, trionfa. Diviene la norma, unendo domicilio e luogo di lavoro, per un tempo potenzialmente enorme, senza sindacati, con mezzi di controllo potenziati, a distanza e per lo più anonimi, e con possibile licenziamento diretto. Un triplo affondo dunque: domiciliazione spacciata per libertà, intensificazione della digitalizzazione e del suo mercato (produzione e consumo) e nuove forme di controllo sociale. Sottolineiamo poi che i governi che fino a ieri pretendevano di non avere più un soldo in tasca, trovano oggi di colpo ciò di che rimpinguare certe casse.

L’emergenzialità alimentata da catastrofisti e collassologi ha spianato la strada alla postura adottata da numerosi leader in tutto il mondo: siamo in “guerra”, la “guerra contro il virus”, la “mobilitazione generale”. Al di là del virilismo macista veicolato da questo vocabolario bellico, è soprattutto la militarizzazione delle misure che viene praticata e legittimata. Da questo punto di vista, per alcuni esponenti delle classi dirigenti, fra cui anche quelle padronali, la Cina, con il suo regime a partito unico organizzato come un esercito, è passata di status: da modello fantasmatico – ah come sognavano questa combinazione di dittatura sociopolitica ed economia di mercato! – ad applicazione concreta. Bene cittadini, faremo come a Wuhan! Lockdown! Confinamento totale e indiscriminato.

Il controesempio della Corea del Sud o di Taiwan? Lo mettiamo da parte, non ne parliamo neanche, se non per prepararsi alla ripartenza… Si cita appena il contenimento mirato messo in atto a Taiwan (ad oggi si contano sei decessi su una popolazione di ventitré milioni di abitanti che rapportato alla popolazione francese farebbe all’incirca ventiquattro morti anziché… venticinque mila). Ciò non significa, sia chiaro, che la gestione della crisi in questi paesi sia un modello perfetto. Non dobbiamo farci ingannare dalla scalata tecnologica in Corea: sorveglianza e autosorveglianza sociale attraverso apposite app, ricerca frenetica sui test e sul vaccino – tutti tentativi potenzialmente remunerativi per il capitalismo locale.

Capitalismo, igienismo e neo-igienismo

Le più recenti epidemie (Ebola, H1N1, SARS) non hanno fatto scattare le misure draconiane e inedite che ha invece scatenato l’epidemia di Covid-19, per non parlare della malaria endemica della quale, visto che non li riguarda, le classi dirigenti dei paesi ricchi si disinteressano… Giusto per ricordarlo la malaria ha provocato nel solo 2017 il decesso di 435 mila persone nel mondo, decessi che comparati con quelli causati dal Covid-19 alla data del 21 aprile 2020, sono quasi il triplo. Il triplo. E il mondo non si è certo arrestato per il poveri infetti che abitano nelle paludi. Secondo Alain Damasio, il motivo è da ricercarsi nel fatto che stavolta il virus colpisce i ricchi che viaggiano, molto mobili e dunque più facilmente contagiabili. Questa spiegazione è parzialmente vera, soprattutto considerando il livello di propaganda sulla minaccia in corso che ci è stato inflitto dai mezzi di comunicazione dominanti (tutti di proprietà di élite economiche), e tuttavia merita di essere ridimensionata in molti punti.

In effetti non sono solo i ricchi, o il supposto 1%, che si spostano attraverso il mondo. C’è anche la classe media, i migranti, spesso poveri, o i religiosi (gli evangelisti di Daegu in Corea di ritorno da Wuhan, gli evangelici di Mulhouse…). Il virus, nuovo e sconosciuto, è inoltre temibile per tutto il mondo perché inizialmente è difficile da diagnosticare, si propaga rapidamente e può portare a una morte fulminante: il fenomeno sanitario è inedito.

Vanno presi poi in considerazione anche altri fattori: l’età (bisogna prendere in considerazione la piramide d’età di ciascun paese essendo la popolazione anziana colpita in modo particolarmente rapido ed essendo dunque in maggior pericolo), la comorbilità, le condizioni di salute e lo stile di vita (obesità, cattiva alimentazione, sovraffollamento degli alloggi nelle fasce di popolazione più povere con conseguente aumento della possibilità di contagio…), probabilmente la stagione (anche se rimane un fattore tra gli altri, perché il Brasile tropicale non è la fredda Svezia, per non parlare dell’equatoriale Singapore, tutti e tre paesi colpiti dall’epidemia). Bisogna anche essere prudenti nel valutare il peso di ogni singolo fattore – e questo di nuovo ci porta a essere critici rispetto a tutti quei discorsi monisti che privilegiano un’unica causa come spiegazione delle questioni più svariate (il clima, la religione, il terrorismo…). È anche possibile che le popolazioni delle regioni in rapido invecchiamento dell’Europa occidentale e di una parte del Nord America, che non conoscono guerre da più di mezzo secolo o che mantengono un certo stile di vita, siano ossessionate dalle crisi, dalla paura di invecchiare male, di morire. Sembrano essere particolarmente paurose, rifiutano il rischio e di conseguenza l’assunzione del rischio (praticare quarantene immediate al posto di posticipare la scadenza con conseguente confinamento generalizzato). Questa ossessione è alimentata dal catastrofismo ecologico e climatico, in particolar modo nella popolazione più giovane di questi paesi.

Sicuramente la borghesia non ama che la morte bussi alla sua porta. Ritrovandosi mischiata alla plebe, volente o nolente, adotta le misure del caso. Ma non è una novità. A partire dal diciannovesimo secolo, l’igienismo si è sviluppato, in particolare nelle città e grazie ad alcune istituzioni come la scuola, affinché la peste, qui intesa in senso generico, non arrivasse a infettare la città stessa. Il popolo ha potuto così beneficiare un po’ alla volta dell’acqua corrente, delle fognature, della raccolta della spazzatura e della medicina di massa (vaccinazioni ecc.).

Tale ruolo della borghesia, appoggiata dallo Stato e dai suoi capitali, è epocale. E deve essere correttamente integrato nell’analisi politica. Così come non aveva assolutamente previsto l’ascesa della classe media e ancor meno del fordismo, Marx e i suoi epigoni sono stati incapaci, presi com’erano nella loro dicotomia caricaturale fra borghesia e proletariato, di accorgersi che la borghesia non si limitava all’estrazione del plus-valore e che lo Stato non era solamente fondato sul potere. Attraverso lo Stato in particolare, la borghesia poteva proteggere il popolo, almeno in parte, per i propri interessi. E anche certi anarchici, giacché lo Stato incarna il male, non potevano certo prendere in considerazione il fatto che esso facesse anche del bene attraverso i servizi pubblici (cfr. i dibattiti al congresso di Bruxelles dell’AIT nel 1874).

La paradossale conseguenza politica di questa concezione risiede nel fatto che la socialdemocrazia – marxista in teoria, igienista in pratica – ha promosso tale progresso, seguita poi dalla democrazia di matrice cristiana.

Il concetto globale di “capitalismo” o di “statualità” non deve nascondere la pluralità dei capitalismi e degli Stati corollari. Nei fatti, per quel che concerne le misure prese per il coronavirus, osserviamo politiche differenti, a volte molto differenti, fra uno Stato e l’altro.

Gli Stati anglo-liberali hanno scelto inizialmente una politica di “immunità collettiva” conforme al loro laissez-faire socialdarwinista, del tipo “sopravviva il più adatto”, per poi allinearsi a misure più drastiche (Gran Bretagna, Stati Uniti…). I dirigenti infettati non hanno avuto in ogni caso alcun problema a farsi ricoverare quando è stato necessario. I paesi una volta socialdemocratici e ora in decomposizione neoliberale, nei quali il sistema sanitario è in caduta libera, hanno dimostrato di essere impreparati (Francia, Italia, Spagna…). Altri sono stati più intelligenti (Svezia, Germania, Svizzera…), forse perché meno colpite dalla “sindrome di Napoleone” contratta da altri paesi (Macron, Trump, Bolsonaro, Orbán, Duterte…).

Gli Stati “nazional-sviluppisti”, caratterizzati da democrazie a forte mobilitazione collettiva (Corea del Sud, Giappone, Taiwan, paesi che hanno fra l’altro potuto beneficiare della lezione impartita dall’epidemia di SARS del 2002-2003 e di MERS in Corea nel 2015), si sono concentrati solo sulla parte di popolazione contaminata (clusters, quarantena…), moltiplicando le misure di prevenzione (mascherine) e di sensibilizzazione. Questo spiega il basso tasso di mortalità a Taiwan: solo cinque morti al 29 marzo 2020 su una popolazione totale di 23 milioni di abitanti. Rapportato alla popolazione francese, equivarrebbe a… una quindicina di morti in totale. Quanto agli Stati “nazional-sviluppisti” di tipo autoritario, questi hanno praticato o la dimostrazione della forza (Cina, India) o l’arroganza (Brasile, dove Bolsonaro la pagherà).

In sostanza, è il grande ritorno dello Stato sovrano, anche fra gli anglo-liberali. Uno Stato che impiega il suo apparato amministrativo, la sua polizia, il suo esercito e finanche la sua diplomazia al servizio dell’igienismo radicale, sul modello del “forse non siamo in grado di lottare efficacemente contro la disoccupazione ma ci prenderemo cura di voi”. Intendendo, con quel voi, il popolo, che non deve contaminare i potenti e che deve essere pronto a tornare al più presto al lavoro, al costo di sacrificare gli anziani improduttivi e che costano pure caro (senza dirlo apertamente, per il momento).

I leader, di basso o alto livello, hanno subito colto in un’occasione come questa l’opportunità di giocare a fare i grandi capi di stato maggiore. Il loro sogno adolescenziale è diventato realtà: guerra al virus, tutti ai posti di combattimento, mobilitazione delle truppe, blocchiamo tutto, sanzioniamo! L’ideologia guerriera è così reintrodotta nella sfera quotidiana, poiché la guerra al terrorismo è troppo lontana… Si aggiunga una bella mestolata di demagogia: il ritorno annunciato in Francia dello “Stato sociale”, nientemeno! E chi ci crede?

Il biopotere dei medici

Con il Covid-19 è stata infranta una barriera tra il potere dello Stato e il potere degli scienziati, nei cui ranghi frontali figurano i medici. Eccoci tornati ai bei tempi dell’igienismo, o della lotta contro l’alcool (poiché un litro di rosso era molto più dannoso dell’estorsione di plusvalore). Non contenti di sfilare sul palcoscenico televisivo sfoggiando una falsa umiltà (“non lo sappiamo”, “non lo sapremo prima che…”, “restiamo prudenti”), e dotati di una bella faccia tosta demagogica (“qua non si tratta di una questione politica”), i mandarini in camice bianco, così attenti ieri a restare in silenzio quando l’ospedale affondava, affermano oggi la loro onnipotenza.

Relegati fino a ieri a discutere di questioni di bioetica, che avevano in ogni caso importanti ricadute economiche (procreazione medicalmente assistita, etc.) ed elettorali (per quanto riguarda Macronia: come smarcarsi dai conservatori), raddrizzano oggi la testa insieme alla loro corte di ausiliari più o meno esperti: sembrano essere i padroni del mondo. È il trionfo del biopotere, di quel regime che si dispiega su soggetti intesi non più come portatori di diritti ma come corpi viventi. Questo biopotere evidentemente non è cosa nuova. Non dimentichiamoci che ben prima dell’analisi foucaultiana, fu teorizzato da Rudolf Kjellén che, a partire dal 1905, concepì lo Stato come una forza in espansione in uno “spazio vitale”. L’idea è stata poi ripresa nei rapporti del Club di Roma, i quali, mettendo in allerta sui rischi della crescita demografica, hanno auspicato una gestione delle popolazioni ai fini della conservazione ambientale. Il biopotere esce però rafforzato dalla crisi provocata dal Covid-19. Ci avviciniamo addirittura a quel “governo degli scienziati” pronosticato e temuto da Bakunin nel 1872 in riferimento alle derive religioso-scientiste dei seguaci di Auguste Comte e alle ambizioni autoritarie di Marx con il suo “socialismo scientifico” (proclamato tale al congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori dell’Aja del 1872, lo stesso che vide tra l’altro l’espulsione di Bakunin).

Ma i medici non sono totalmente padroni del mondo, poiché dipendono da due logiche di cui sono, più o meno, sia attori che proprietari: l’economia (i laboratori farmaceutici, il mercato dei medicinali e dei prodotti sanitari, gli ospedali) e la politica (i sistemi giuridici di autorizzazione, i controlli, i finanziamenti, le decisioni). L’istanza deputata al ruolo di coordinamento a livello internazionale, ossia l’OMS, il cui antenato è nato come risposta proprio all’epidemia di “spagnola”, non ha un’opinione unanime.

Il suo funzionamento è d’altronde altrettanto opaco e poco democratico di quello dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), giusto per fare un esempio. Inoltre i servizi di informazione non fanno nulla per renderlo più comprensibile. E così il cittadino francese medio saprà il nome di alcune vittime del Covid-19 – un ex ministro, un ex dirigente sportivo o un sassofonista – ma sarà incapace di fornire il nome del direttore generale di questa istituzione mondiale. Provate a fare una prova con chi vi sta attorno.

Nei paesi democratici la classe medica e quella politica possono rimbalzarsi la palla in un gioco tanto sornione quanto ipocrita, i primi affermando “noi non facciamo politica”, e i secondi affermando “noi seguiamo le indicazioni dei medici”. Sappiamo fin troppo bene che il risultato è un compromesso malriuscito che varia a seconda dei rapporti di forza, del contesto, ma anche di variabili socioculturali (per esempio indossare la mascherina in caso di febbre è un’abitudine ammessa, e salvifica, in Estremo Oriente).

Il neo-igienismo dispiegatosi attraverso la gestione della crisi di Covid-19 sembra varcare una nuova soglia del biopotere: i corpi sono serializzati (certi sono condannati in funzione della loro età o situazione economica), controllati attraverso il confinamento, separati da una segregazione rafforzata dalla classe (quelli che dispongono di un giardino o di un grande appartamento e tutti gli altri), e infine sono congelati come soggetti di diritto. A questa scala, non si è mai visto niente di simile.

Nessun consenso scientifico

Questo biopotere neo-igienista gioca anche sulla conoscenza scientifica che abbiamo a disposizione. È un punto cruciale sul quale la crisi dovuta al Codiv-19 ci ha dato una lezione magistrale: i medici e gli esperti di medicina non sono d’accordo tra loro. C’è un po’ di consenso, ma non l’unanimità, né sull’eziologia né sulle manifestazioni. Ma è una cosa di cui rammaricarsi?

Mettiamo da parte gli scontri dovuti agli egoismi che mascherano le vere e proprie battaglie che si svolgono all’interno dei laboratori, nei rapporti con il potere politico e mediatico, e con il potere tout court. Il tutto sullo sfondo di una colossale posta in gioco economica (gestione degli stock di farmaci con o senza prescrizione, il futuro jackpot del vaccino), in una competizione che è generalizzata e globale quanto la propagazione del virus stesso. Volgiamo piuttosto la nostra attenzione a ciò che ci permette di comprendere meglio.

La società riscopre che la medicina è anche un sapere, quasi un’arte, oltre che una scienza esatta. Che la scienza stessa “non sa” tutto e può sbagliare. In altri termini che i sapienti non sanno tutto su tutto. E che anche in questi ambiti dobbiamo essere umili e mantenere la ragione. Ne derivano due avvertimenti.

Primo, bisogna applicare questa evidenza a campi scientifici altri dalla medicina, in particolare l’ecologia e la climatologia, discipline di primo piano in questo inizio di ventunesimo secolo. Tali scienze, neanche loro sanno tutto, evolvono. E in questo discorso sono compresi anche gli strumenti scientifici. La nostra ignoranza sul Covid-19 prima della sua comparsa ci dovrebbe mettere in guardia su quelli che pretendono di aver censito tutto ciò che di vivente c’è sulla Terra, spianando la strada ai catastrofisti che ci inondano di cifre sulle estinzioni delle specie quando non ne conoscono neanche l’estensione. L’umiltà impone prudenza, e dunque moderazione nel discorso eco-catastrofista.

Secondo, il primo avvertimento ci porta alla questione dell’eziologia del Covid-19. Eliminando le tesi più o meno complottiste, le quali non devono in ogni caso esentare il ricordo dell’esistenza ricorrente di “scienziati pazzi” in laboratori privati o militari, scorgiamo l’emergere di spiegazioni di tipo ecologico-primario per lo meno preoccupanti per gli elementi di verità che comportano, o di ipotesi, anche se mescolati in una grande confusione.

Il virus è un essere vivente. Si tratta dunque di una battaglia fra viventi, umani e non-umani. Ed è giusto e logico che l’umano lotti per la propria sopravvivenza. È cosa saggia che faccia le dovute differenze e che rifletta dalla posizione di essere vivente, senza escludere la possibilità della morte, se non della condanna a morte (e questo ci rimanda alla questione animale).

È dimostrato, storicamente, che i virus – e dunque le epidemie – sono il risultato di una combinazione fra specie animali e specie umane, con un passaggio dall’una all’altra sotto forma di zoonosi. Ma stabilire con precisione il passaggio dal “selvatico” all’umano per via domestica è meno evidente. Il maiale era, ed è ancora, l’animale che gioca un ruolo chiave a questo proposito. Il ruolo delle specie cosiddette selvatiche ma che vivono in realtà in prossimità dell’uomo è quasi accertata. È il caso del pipistrello per il Covid-19, con un possibile passaggio dal pangolino. Potrebbe essere accaduto lo stesso anche nel caso dell’ebola.

Fino a poco tempo fa, se ci fermiamo alla seconda metà del ventesimo secolo e all’inizio del ventunesimo, sono stati gli animali d’allevamento all’origine delle epidemie: il maiale (influenza spagnola) e i volatili (influenza aviaria H1N1 o H5N1…). In merito all’eziologia della MERS non sappiamo nulla. Quanto allo zika e al chikungunya, si tratta della zanzara, animale che di certo non è domestico ma che avremmo difficoltà a qualificare come selvatico per lo stretto rapporto che intrattiene con gli esseri umani.

A partire da questo possiamo fare due osservazioni. Da un lato, l’allevamento, escluse le sue forme agroindustriali massive che generano epizoozie, è esente da responsabilità. Dall’altro, l’esistenza di zanzare ci riporta alla questione dei prodotti antizanzare, come l’invenzione – e poi la messa al bando – del DDT da parte di Alexander King (1909-2007), chimico britannico, membro dirigente dell’OCSE e cofondatore dell’oligarchia capitalista del Club di Roma (1968).

Ricordiamoci che la malaria, legata alla zanzara, continua a provocare centinaia di migliaia di morti (fra 700.000 e 2,7 milioni ogni anno secondo l’OMS, equivalenti a una media di un morto ogni trenta secondi – e di nuovo notiamo l’incertezza delle cifre). Insistiamo sul fatto che i grandi laboratori farmaceutici e i suoi mandarini si disinteressano della lotta alla malaria solo per il fatto che questa non tocca i paesi ricchi.

Il capro espiatorio demografico

I primi discorsi ignobili di Trump sul “virus cinese” o le prime reazioni xenofobe delle popolazioni metropolitane occidentali nei confronti delle rispettive chinatown, non devono nascondere l’importanza dell’epicentro cinese, già riconoscibile nelle precedenti epidemie (influenza aviaria, SARS). Puntando il dito, con sottointesi razzisti, contro i costumi decisamente incivili di questi popoli brulicanti (la sporcizia, il cibo bizzarro, il sovrappopolamento…), il presidente americano ha invece glissato sul fatto che Wuhan e la Cina sono centri industriali di cui il capitalismo mondiale ha indiscutibilmente bisogno, Stati Uniti per primi.

Ma al di là di ciò, qualsiasi altra spiegazione eziologica riguardante la Cina precipita anch’essa nella confusione. Così, secondo alcuni, questo paese sarebbe responsabile delle nuove epidemie a causa della sua estensione demografica e spaziale e della conseguente espansione lungo le periferie selvatiche in cui vivono specie non meno selvatiche, le quali, destabilizzate, si riversano sugli abitati umani (teoria di Carlos Zambrana-Torello, David Quammen e anche Dennis Carroll). La deforestazione è l’accusata principale. Ma questo genere di ragionamento comporta delle lacune importanti.

Bisognerebbe, da un lato, che fosse valida in tutte le regioni del mondo dove si effettua un disboscamento massivo (Amazzonia, Borneo), regioni dalle quali però al momento non è uscito nessun nuovo virus. Il caso dell’Africa occidentale è più complesso, così come quello dell’Africa centrale (il bacino del Congo), dove l’Ebola è arrivato da altri paesi.

Non bisogna poi dimenticare, dall’altro lato, che Wuhan, epicentro del Covid-19, così come Hong Kong, epicentro della SARS, si trovano al centro di regioni disboscate secoli fa. Wuhan in particolare, situata al centro del bacino dello Yangzi, e dunque delle risaie coltivate probabilmente più antiche della Cina, è un archetipo di questo tipo di antropizzazione. La prima foresta di una certa consistenza si trova ad almeno 150 chilometri di distanza. Da qui a dire che è il supposto disboscamento di questa foresta che ha spinto i pipistrelli a rifugiarsi nella città di Wuhan…

Questo genere di scorciatoie porta a ragionamenti grossolani collegati all’urbanizzazione, alla deforestazione e alle pandemie. Non solo nasconde la complessità delle catene causali, ma in particolare, ed è questo l’aspetto essenziale, sbaglia nel puntare l’attenzione sul “sovrappopolamento” che sarebbe all’origine della deforestazione. Rispunta la vecchia retorica malthusiana, ripresa dai conservazionisti americani ed europei dopo il 1945 contro l’“esplosione demografica”, immagine che sfrutta esplicitamente, ma calpestandone la dignità, l’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki. E così, con una nota di razzismo, la Cina, insieme all’India, diventa il capro espiatorio ideale.

Questo malthusianesimo sfocia nella misantropia miope e nauseabonda di un Yves Paccalet (autore de L’Humanité disparaîtra, bon débarras, 2006, ripubblicata nel 2013, accidenti se vende!) o di un Yves Cochet che mostra compiaciuto in televisione come sopravviva durante la quarantena grazie al suo grande orto coltivato secondo i principi della permacultura. Il loro cinismo si coniuga a un’ipocrisia sacerdotale (fate quello che dico, non fate quello che faccio), perché sono gli altri che devono cominciare per primi e non certo loro. Sono gli altri a essere “troppo numerosi”, non loro. Questa posizione è altrettanto sospetta perché si sposa fin troppo bene con quel neo-darwinismo sociale che non ci prepara alle crisi sanitarie e che poi le affronta in maniera brutale, fino al punto di sacrificare gli anziani nelle case di riposo.

La rozzezza di queste posizioni contribuisce a offuscare la questione demografica che rimane in ogni caso cruciale e, evidentemente, costituisce un elemento importante dell’attuale crisi sanitaria. È vero che la specie umana non è mai stata così numerosa (un miliardo di abitanti nel 1800, due nel 1960, sette nel 2013). Ma è altrettanto vero che la sua crescita nel corso del ventesimo secolo è legata ai progressi medico-sanitari: torniamo così alla questione della scienza e della medicina.

A meno di pensare che l’umanità non debba nutrirsi, è logico pensare che essa estenda la propria ecumene a detrimento degli “spazi selvaggi”, disboscando e dissodando da un lato, intensificando l’agricoltura e l’economia dall’altro, anche con opere di riforestazione (è dai tempi della Gallia che la Francia non era così boscosa). È possibile che un’agricoltura più ragionata e biologica o anche la permacultura arrivino a nutrire i nove miliardi di abitanti previsti per il 2054? Un’agricoltura che dovrebbe fare a meno dell’allevamento e dunque senza carne? Qualsiasi progetto di società futura degno di questo nome dovrebbe porsi queste domande non fidandosi di risposte preconfezionate, autoreferenziali, dogmatiche o autoritarie.

Il capro espiatorio cinese

Storicamente la Cina è la regione più popolata del mondo e lo rimane anche oggi. L’aumento del livello medio della qualità della vita ha spinto la sua popolazione a voler consumare preferibilmente proteine di origine animale – come puntualmente si verifica in questo genere di situazioni. Ciò implica un aumento dell’allevamento, per la produzione di latte e carne, e dunque anche l’aumento di colture destinate al nutrimento degli animali. Attraverso la “delocalizzazione” industriale il capitalismo globalizzato, che ha aveva già fatto della Cina un paese-officina e un’economia in crescita nel settore tecnologico e nell’export, ha aggiunto anche un sistema di allevamento industriale massivo e non meno capitalista, ma fragile.

Il tutto in seno a un regime che si richiama ancora ufficialmente a Marx, cosa che aggiunge un paradosso alle contraddizioni, in una bella combinazione di partito unico, politburo e governo degli scienziati. Gli scandali agroalimentari sono di fatto numerosi in Cina da molti anni, ma non sappiamo se hanno un collegamento diretto con la pandemia.

Accusare la deforestazione in Cina, o in qualsiasi altro posto, come la causa principale delle nuove pandemie, non risolve in nessun caso la questione del numero di abitanti sulla Terra. Possiamo addirittura domandarci se l’ossessione riguardante “gli spazi selvaggi”, e dunque la loro protezione, non costituisca, al di là della dimensione estetica e restando sul solo piano dei criteri ecologici e geografici, un errore di percezione, e dunque di soluzione. In effetti come l’Ebola, la SARS e il Covid-19 hanno dimostrato, non ci sono più barriere fra il selvatico e l’artificiale: si tratta di un unico mondo.

In seno a questo mondo, la competizione fra le due superpotenze capitaliste che sono gli Stati Uniti e la Cina si accentua, con la seconda che va verso la vittoria. Con il Covid-19, essa ha addirittura imposto alle dirigenze ordo-liberali un modello autoritario di gestione della crisi. Debitamente ricompensate dai media, le immagini delle strade deserte in una metropoli da nove milioni di abitanti come Wuhan hanno fatto salivare i grandi maniaci dell’ordine e della proprietà. I leader politici e i media europei omettono en passant di riportare che se è vero che Wuhan è stata messa in quarantena, Pechino, Shangai o Canton non lo sono stati. Quanto alla retorica del “rilocalizzare qua le nostre industrie andate in Cina” e del “dotiamoci di nostre attrezzature mediche”, essa è come il fiume Yangzi che attraversa il centro di Wuhan: scorre. Al contrario, il messaggio lanciato con le dimostrazioni di forza, la video sorveglianza e il tracciamento generalizzato sta lasciando il segno con una tripletta: nuova produzione, nuovi mercati, nuova dominazione. La società carceraria che si è evoluta in società del controllo sta per divenire società dell’auto-controllo tecnologico generalizzato. Non sono più le mascherine che bisognerà portare dopo l’epidemia, così come saranno altre maschere quelle che dovremo far cadere.