Fare ricerca attraverso il mare

Introduzione a ‘Crocevia Mediterraneo’

Jacopo Anderlini e Vincenza Pellegrino

2023-04-17

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE Fare ricerca attraverso il mare // Seawork. Appunti sul metodo // Menzu lu mari // PRIMO GIORNO Tanimar // SECONDO GIORNO Franca contro il sistema // TERZO GIORNO Stare mare. Appunti corali in navigazione verso Lampedusa // QUARTO GIORNO Lampemusa. L’isola dei tesori? // QUINTO GIORNO Metterci una croce // QUINTO GIORNO / 2 Lotte per la memoria. Narrare la morte nel Mediterraneo // SESTO GIORNO Lo Stato visto dalle porto-frontiere // SESTO GIORNO / 2 Le frontiere dello Stato, lo Stato alla frontiera // SETTIMO GIORNO VattelaPesca. Dialoghi ittici // OTTAVO GIORNO Una solidarietà svuotata // NONO GIORNO Il mare è un macello // DECIMO GIORNO Linosa. Isolitudine // UNDICESCIMO GIORNO Isola-confino, isola-cantiere, isola-resort? // ULTIMI GIORNI Terra di mezzo, mare di mezzo // UN MESE DOPO Cronaca di una giornata di libeccio a Lampedusa // FilMare, fare immagini in movimento // Bibliografia ragionata

Le narrazioni dominanti nel campo politico e mediatico italiano rappresentano il Mediterraneo come uno spazio di separazione tra aree geograficamente e socialmente distanti, una barriera «naturale» che divide abissalmente realtà differenti1.

Al contrario, storicamente, il Mediterraneo è prima di tutto uno spazio di incontro, attraversamento, contaminazione tra realtà differenti: un crocevia di idee, identità cangianti e soggetti in movimento tra passato e futuro. In questa congiuntura, si configura perlopiù come il luogo di frizione e conflitto tra le pulsioni necropolitiche – seguendo Achille Mbembe, politiche orientate a fare morire o esporre alla morte una parte di popolazione – della gestione migratoria e confinaria dell’Unione Europea e l’irriducibile spinta alla mobilità dei migranti. Il Mediterraneo diviene confine mortifero, diretta conseguenza delle politiche migratorie europee attraverso la militarizzazione dei confini marittimi e terrestri, con la criminalizzazione non solo di chi migra ma anche di chi svolge attività di supporto e solidarietà a chi è in transito, e l’assenza sostanziale di politiche di accesso legali al territorio europeo. Allo stesso tempo, lo spazio e le relazioni che si generano al suo interno producono un tessuto sociale complesso dove razionalità, rappresentazioni e pratiche sfuggono le dicotomie e i «confini» sociali tra i soggetti si fanno più sfumati. Così, all’interno del perimetro descritto dalle politiche migratorie europee e dal suo apparato confinario, dalle reti e infrastrutture di controllo e mobilità, si muovono una molteplicità di attori animati da interessi e prospettive differenti ma che in qualche modo mantengono aperti i passaggi: migranti in transito, pescatori, marinai, guardiacoste, funzionari delle forze dell’ordine e delle agenzie europee, umanitari, solidali. In tal senso, più di altri luoghi il Mediterraneo ospita la tensione tra chiusure e aperture, spinte competitive e mortifere da un lato e spinte di collaborazione e solidarietà dall’altro lato, distopie e utopie contemporanee: per questo ci è parso così interessante posizionarci nel mezzo di questo mare, non solo per essere testimoni di quanto accade ma per cogliere il senso e la direzione della storia europea agli occhi di chi ci vive e ci muore.

È con questo campo cangiante che, come gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma, siamo entrati in relazione, abitando lo stesso spazio marittimo. Attraverso un punto di osservazione privilegiato perché in movimento, su un’imbarcazione, abbiamo provato a dare conto della complessità di questo spazio, in un viaggio di due settimane con tappe a Pantelleria, Lampedusa, Linosa e Malta, dove di volta in volta ci siamo riuniti con gruppi di ricercatrici e ricercatori a terra. Nell’arco di due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre 2022, abbiamo attraversato il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo. È la prima volta che un’imbarcazione di scienziati sociali abita questo campo in prima persona, nello spirito di una sociologia pubblica che possa confrontarsi e incidere direttamente sul reale. Un’etnografia del mare costellata di incontri e della partecipazione diretta in un contesto sociale complesso.

Sono in effetti proprio questi due elementi, la dimensione metodologica e quella legata alla comunicazione con pubblici più vasti di quello accademico – o meglio, al posizionamento delle scienze sociali nel dibattito pubblico – a costituire alcuni dei tratti innovativi dell’esperienza di cui diamo conto in queste pagine. Se guardiamo agli aspetti metodologici (che verranno messi a tema nel primo capitolo), l’innovazione non deriva tanto dall’impiego di tecniche di ricerca particolarmente avanzate, quanto dal fatto che l’applicazione al contesto marittimo dell’approccio etnografico ci ha costretto a rivedere una molteplicità di presupposti teorici ed epistemologici, mutando, in questo modo, sia le nostre pratiche sia il nostro sguardo. Fare ricerca in mare, sul mare, infatti ha comportato la revisione di alcuni nostri posizionamenti, sia rispetto all’oggetto di ricerca (basti pensare ad esempio che molte delle cose che accadono per mare, accadono di notte, regolate anche dalle maree, dal tempo, dal mare appunto, come è avvenuto per gli attracchi e gli sbarchi di cui siamo stati testimoni, che possono essere visti quindi solo se si è in mare e/o in porto), sia rispetto alle dinamiche tra i diversi membri del gruppo di ricerca (portati a vivere in uno spazio stretto di confronto costante e a percepire così molto più marcatamente come gli stessi eventi siano evidentemente vissuti in modo diverso e selettivo da ciascun/a etnografo/a, ad esempio). Così, nell’ambigua e a volte complessa sovrapposizione che è emersa tra gruppo di ricerca e «crew» si sono aperti inediti spazi di riflessione e di elaborazione; e sono emerse pratiche di lavoro di «analisi circolare» in cui tutti collaboravano con tutti: passare il tempo tra un incontro e l’altro a rileggere le proprie note di campo agli altri, registrare le note per comporle in dialoghi esemplari, trame di una drammaturgia corale che poi è divenuta un podcast, e così via. Proprio in questo frangente ci siamo resi conto che il carattere soggettivo dell’osservazione veniva evidenziato (ognuno ha la sua voce, ognuno ha le sue note etnografiche diverse da quelle degli altri…) proprio all’interno di dinamiche che arginavano il carattere «individualistico» dell’osservazione che solitamente informa anche la pratica etnografica (quel modo di tenere per sé le note, non rileggerle, perdere rapidamente cognizione del processo selettivo attraverso cui esse prendono forma che ci fa trovare casa intellettuale nella autoreferenzialità).

Un altro elemento importante del nostro approccio all’osservazione delle mobilità e delle solidarietà stando in mare è costituito dalla centralità di quella che recentemente con Michael Burawoy ha assunto una certa visibilità, la «sociologia pubblica», ma che è sempre stata in realtà esigenza degli scienziati e degli intellettuali più importanti che si sono occupati di studiare la società: l’esigenza di rendere conto e discutere dei dati di osservazione con un pubblico vasto, composto non (sol)tanto da colleghi ma da platee diverse, magari lontanissime dal tema (gli studenti indaffarati in tutt’altro, presi dalla resistenza contro il precariato, i crediti, le piattaforme accademiche, i voti degli esami…), magari vicinissime al tema (associazioni di migranti, piattaforme di dibattito di volontari, cooperanti anch’essi via mare, e così via). In tal senso, per fare un esempio, ci siamo impegnati a costruire un ponte con gli studenti universitari attraverso il coinvolgimento di Radio Revolution – della rete RadUni – nella realizzazione di un podcast composto dalle voci, dai suoni, dai pensieri delle giornate di campo, proprio perché sono per noi un pubblico specifico, la cui riflessività sociale, la cui capacità di comprensione dei conflitti del mondo in cui vivono (anche al di là dei temi, del corso che stanno frequentando), è senso ultimo dell’Università pubblica, come dice lo stesso Burawoy. In questo contesto, l’elemento del costante riferimento a un pubblico che volevamo «più vasto» ha imposto a ricercatrici e ricercatori di mantenere un piano di riflessività sempre aperto, ad esempio sul tipo di linguaggio da utilizzare, sul tipo di «dati» e come intenderli, e così via, elementi di costante discussione lungo tutto il corso del lavoro etnografico.

Il diario etnografico non è qui unicamente rivolto a colleghi o a chi si troverà a dover articolare ragionamenti più strettamente interni all’ambito della disciplina, ma a un Altro non appartenente a questa cerchia, presente ma non «tenuto presente». Siamo consapevoli della poca rilevanza che oggi l’accademia ha rispetto al dibattito sulle diseguaglianze, e siamo motivati ad assumerci la responsabilità di arginare tale irrilevanza, a partire dalle nostre scelte metodologiche. In questo senso abbiamo voluto individuare un nuovo referente dell’interlocuzione su quanto avviene nel campo, coinvolgendolo nel campo stesso anche attraverso forme di narrazione diverse.

Così abbiamo dato voce a incontri, relazioni, al nostro «abitare il campo», raccontandone gli episodi giornalieri in un dialogo costante tra le diverse temporalità e spazialità del mare: abbiamo raccontato gli incontri e le conversazioni, abbiamo descritto gli oggetti, le barche, le giacche, i rifiuti, i pesci, le tombe e i corpi che vedevamo, ma anche i disegni, i simboli, i sogni, le visioni sul tempo passato e il tempo che ci venivano detti e che disegnavano passato, presente e futuro delle forme di mobilità. Ed è proprio a partire dalle frizioni e dalle rifrazioni di cui siamo stati testimoni che abbiamo intuito la forza con cui molti attori sociali riescono a immaginare oggi una dimensione post-nazionale che sappia oltrepassare il governo delle mobilità imposto dagli Stati, e di cui parleremo.

E ancora, tutto il libro è costellato di qualcosa che poi precipita in uno degli ultimi capitoli: la dimensione audiovisuale della ricerca che abbiamo cercato di mantenere lungo tutto il viaggio, lo sguardo della camera che ci ha permesso di incontrare e rappresentare paesaggi sonori (soundscapes) e visuali nel loro affastellarsi e dipanarsi, imponendo un altro tipo di sguardo, interpretando quella che per Luigi Ghirri era il carattere principale della fotografia, quello di potenziare e sviluppare un linguaggio fatto per porre delle domande sul mondo e interrogare il reale, e in tal senso parte integrante della nostra pratica etnografica quotidiana.

Infine, i capitoli di questo libro si snodano idealmente ripercorrendo le tappe del nostro viaggio in ordine cronologico. La scansione temporale e le geografie che vanno a ricomporsi nei testi rappresentano anche un espediente narrativo per mettere a fuoco aspetti specifici che costituiscono il Mediterraneo come realtà sociale complessa. Il Mediterraneo è sicuramente uno spazio conteso dai diversi dispositivi e apparati di controllo confinario, dall’incontro/scontro tra gli ordinamenti giuridici degli Stati e il diritto internazionale, dall’insopprimibile volontà a muoversi verso un futuro che si spera migliore. Uno spazio composto da economie diverse e intrecciate tra loro, dal turismo, alla pesca, alle zone economiche speciali, alla finanza, dove vecchi poveri e nuovi ricchi si incontrano. In questo contesto, il passato, la memoria, diventa o un rimosso scomodo con cui è difficile fare i conti o un campo di battaglia per definire presente e futuro di un luogo. La solidarietà, a volte irruenta a volte più silenziosa, o negata e schiacciata, è il filo rosso che attraversa tutte queste tappe. Una solidarietà talvolta legata a esperienze e memorie passate di un luogo o proveniente da altrove, capace già di eccedere il gesto compassionevole e farsi azione (quindi politica), prefigurando futuri post-confinari.

Nota all’Introduzione


  1. Questo primo viaggio etnografico si inserisce all’interno del progetto di ricerca MOBS (Mobilities, solidarities and imaginaries across the borders / Prin 2020) – di cui è capofila l’Università di Genova e il gruppo di ricerca legato al Laboratorio di Sociologia Visuale, e in cui sono coinvolte l’Università di Milano Statale, di Napoli, di Padova, di Parma – che prende in esame le porosità del territorio nazionale italiano, indagando le forme della mobilità e dell’abitare dei migranti in transito e le trasformazioni del governo confinario in quattro luoghi privilegiati: la montagna, il Mediterraneo, lo spazio urbano e lo spazio rurale.↩︎