Scrivere la frontiera

Introduzione a ‘Boza! Diari dalla frontiera’

Luca Giliberti, Luca Queirolo Palmas

2024-05-07

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE Scrivere la frontiera // CAPITOLO PRIMO Sulla rotta alpina. Val di Susa, ottobre 2020 // CAPITOLO SECONDO L’isola e il confine. Lampedusa, dicembre 2020 // CAPITOLO TERZO Dall’altro lato della frontiera interna. Briançon, ottobre 2021 – marzo 2023 // CAPITOLO QUARTO Passaggi atlantici. Gran Canaria, maggio 2022 // CAPITOLO QUINTO Navigazione anfibia. Isole Pelagie, ottobre 2022 // CAPITOLO SESTO La nostra Festa della Repubblica. Borgo Mezzanone, giugno 2023 // CAPITOLO SETTIMO Tra i respinti della boza e gli harraga in Marocco. Casablanca, giugno 2023 // CAPITOLO OTTAVO Conversazioni tunisine. Attorno a Sfax, primavera-autunno 2023 // POSTFAZIONE Un modo di intendere l’etnografia multisituata di Vincenza Pellegrino

1. Fare etnografia al confine

Boza è un termine che punteggia in modo ricorrente le rotte e il linguaggio di chi è in viaggio. Proviene dall’area geografica delle ex colonie francesi1, anche se ormai è diffusa lungo tutto il Maghreb, e porta dentro di sé diversi significati; nel quadro di una metafora bellica, l’espressione allude all’idea di vittoria/riuscita – il bruciare/bucare la frontiera e arrivare dall’altro lato – ma anche al tentativo ripetuto, e spesso fallimentare, di passare, di andare oltre; tutto sommato, significati simili a quanto viene chiamato game sui Balcani o rizqui nelle enclave di Ceuta e Melilla. Il suono, a volte il suo grido, lascia emergere da un lato un sapore di celebrazione, dall’altro un invito performativo, un’esortazione ad agire che è anche il riconoscimento della caparbietà e dell’insistenza, come habitus necessario per chi viaggia senza i giusti documenti. Dal termine deriva anche un sostantivo che agglutina coloro che si iscrivono in quella pratica, e in un certo ethos: i bozayeurs.

Il presente volume restituisce tre anni di ricerca etnografica, ancora in corso2, in cui l’espressione boza ci ha spesso accompagnato e ispirato; dall’ottobre 2020 al novembre 2023, alle frontiere interne ed esterne dell’Europa, abbiamo assistito – così come documentato anche altrove [Anderlini, Filippi, Giliberti 2022; Equipaggio della Tanimar 2023] – a un’intensificazione delle violenze statuali e non, alla crescente militarizzazione dei territori e delle politiche, ma anche all’ostinato riprodursi dell’autonomia migrante. Più che scoraggiare e ridurre le mobilità inopportune, il dispiegarsi dell’esternalizzazione dei confini e di un selettivo proibizionismo migratorio ha determinato l’aumento dei rischi e della mortalità lungo le rotte [Den Heijer, Rijpma, Spijkerboer 2016]. In tale cornice, oltre a Stati, politiche e bozayeurs, una variegata società civile nei suoi diversi posizionamenti, fra ostilità, indifferenza e solidarietà, è all’opera; prende così corpo un campo – spesso di battaglia, un battleground [Ambrosini 2018] – attraversato da equilibri, conflitti, alleanze e permanenti trasformazioni. Il ruolo delle reti di supporto esterne e interne ai gruppi di viaggio, come potenzialità e risorsa che abilita i movimenti nonostante e contro i regimi di frontiera, è una delle acquisizioni ormai consolidate nella letteratura di ricerca [Giliberti, Potot 2021; Birey et al. 2019; Giliberti 2020]. Nei resoconti qui presentati, con gradi variabili di efficacia e in modo rizomatico, la solidarietà – un’energia circolante più che una proprietà morale dei singoli – contribuisce a generare un’infrastruttura di informazione, connessione e mobilità, una contemporanea ferrovia sotterranea, per molti passeggeri senza biglietto; qualcosa di analogo, in chiave metaforica, a quelle reti e iniziative che nell’America dell’Ottocento permettevano agli schiavi neri delle piantagioni di scappare verso il nord e affrancarsi [Queirolo Palmas, Rahola 2020].

L’abolizionismo – in questo caso non della schiavitù, ma della frontiera – è allora una delle prospettive suggerite dalla narrazione. Dallo stretto di Sicilia e i campi di pomodoro di Borgo Mezzanone ai valichi alpini della Val di Susa e del Brianzonese, dagli uliveti tunisini all’hotspot detentivo di Lampedusa, dalle metropoli marocchine da cui partono gli harraga [Vacchiano 2022] alle isole Canarie del turismo ma anche delle reti vicinali di accoglienza, Boza! Diari dalla frontiera propone un percorso che si sviluppa lungo otto istantanee. Tali fotografie fissano degli spazi concreti in una precisa temporalità. Circoscrivono e ritagliano, entro un più vasto corpus e archivio etnografico della ricerca, il dispiegarsi di diversi processi: le resistenze, soggettive e collettive, e le diverse forme della solidarietà, così come l’operare delle politiche di contenimento, blocco e respingimento in un contesto di «crisi dell’accoglienza» [Rea et al. 2019] e di «moltiplicazione dei confini» [Mezzadra, Nielson 2013]. Tali istantanee, quali operazioni di estrazione e montaggio, restituiscono una possibile cartografia della frontiera contemporanea, delle sue dinamiche e dei suoi attori.

Dai sentieri di montagna ai porti di mare, dai rifugi dell’accoglienza alle piazze di paesi e città di confine, dai bar agli spazi domestici, passando per eventi pubblici e riunioni private, abbiamo attraversato – e in parte vissuto e agito – (ne)i luoghi in cui la frontiera è fabbricata, e contestata. La pratica etnografica all’origine della scrittura è basata sulla immersione nei contesti studiati [Emerson, Fretz, Shaw 1995] e sull’osservazione partecipante, tecnica cruciale dalla tradizione malinowskiana in avanti [D’Agostino 2020]; i nostri soggiorni sul campo sono stati brevi (da una a più settimane ogni volta) ma ripetuti e costanti nel tempo dando vita a periodi complessivi di lunga durata, in cui i rapporti con i soggetti della ricerca3 si sono potuti mantenere, e approfondire, attraverso un costante dialogo a distanza. Molti dei resoconti che qui appaiono riflettono relazioni e ricerche che sono tuttora in corso e in divenire. Inoltre, malgrado le difficoltà e le limitazioni, anche durante il periodo pandemico, il percorso etnografico è continuato e ha documentato l’uso selettivo e strumentale della gestione sanitaria al fine di ostacolare le mobilità e rendere più ostile la frontiera [Stierl, Dadusc 2021].

Le relazioni di fiducia, la complicità, ma anche l’alleanza attorno a comuni iniziative artistiche, culturali e politiche che spesso – ma non sempre – siamo riusciti a costruire hanno trasformato a poco a poco il ruolo dell’informatore, o del gate-keeper, in quello del narratore [Taussig 2019]; al fine di generare insieme nuovi sguardi, categorie, parole, alleanze. In un approccio di approfondimento a stadi e cumulativo, che alterna presenza e distanza, online e offline [Giliberti, Filippi 2021], l’incontro ricorrente con nuovi attori della frontiera ha reso possibile cogliere longitudinalmente le dimensioni di trasformazione dei territori, delle circolazioni e delle politiche, mettendo a fuoco elementi, tensioni e contraddizioni.

I nodi di frontiera, le articolazioni turbolente e variabili, su cui si strutturano le mobilità inopportune sono legati l’uno all’altro. Ad esempio, per comprendere quello che succede sulla rotta alpina, occorre necessariamente tenere in considerazione ciò che avviene nel Mediterraneo centrale o lungo i Balcani; il dispositivo confinario europeo – così come i percorsi delle persone in viaggio, e le stesse iniziative di supporto – possono essere analizzati in profondità solo nelle loro connessioni reciproche. Tutti i racconti di Boza! Diari dalla frontiera sono in fondo segmenti di un’unica etnografia multisituata [Marcus 1995] o multi-sito [Hannerz 2004], un mosaico composito frutto di «pratiche di ricerca sul campo che si svolgono in più contesti interconnessi sia dal fenomeno preso in esame, sia dalla rappresentazione etnografica che ne fornisce lo stesso ricercatore» [Riccio 2020: 263] e di routines di lavoro e di scrittura che, come nota Clifford [2001: 25], sono in fondo l’incarnazione di un sapere di confine, «un’attività testuale di tipo ibrido, attraverso i generi e le discipline». Infine, seguendo l’indicazione di Sayad [1996] sulla necessità di rovesciare lo sguardo, i percorsi di harraga e bozayeurs sono messi a tema nella loro «funzione specchio», illuminando così non solo loro ma anche e soprattutto noi: ovvero le società e i territori in cui viviamo, le politiche a cui siamo sottoposti, gli orizzonti di trasformazione che riusciamo a immaginare.

2. Rendere pubblici i diari di campo

L’agire etnografico, scandito dalle pratiche di osserv-azione partecipante e dalla raccolta di fonti orali – sia conversazioni informali che interviste semi-strutturate registrate – è stato costantemente accompagnato dalla redazione di note e diari collettivi; questi sono andati a comporre un archivio di materiali la cui elaborazione e interpretazione si è poi riversata anche in forme classiche di scrittura scientifica. I resoconti che compongono questo libro sono parti di quell’archivio, ne hanno mantenuto la loro originale forma narrativa senza essere stati codificati dentro una testualità esclusivamente accademica. Nel caso del lavoro etnografico, in effetti, il diario è il primo strumento attraverso cui tenere traccia dell’incontro con il campo della ricerca, documentando gli sviluppi della propria riflessione, ma anche i dubbi, gli spaesamenti, le contraddizioni.

Seppur al centro della pratica e della tradizione etnografica, tali materiali non sono soliti essere pubblicati. Non è un caso che i diari più celebri di questa tradizione (pubblicati postumi e senza l’approvazione dell’autore) – quelli di Bronisław Malinowski [1992], declamato in antropologia come l’inventore dell’osservazione partecipante e della pratica etnografica – abbiano dato vita a uno dei dibattiti più intensi della storia della disciplina. La distanza e il disprezzo che Malinowski esprimeva in questi scritti verso i selvaggi delle isole Trobriand ne hanno fatto un oggetto scandaloso, proprio per la sua capacità di rivelare le ombre nel backstage della ricerca. Oltre a raccontare molti aspetti della società trobriandese, il diario fa luce sulla figura dell’autore, sulla sua società di riferimento (l’Inghilterra coloniale), sui rapporti tra colonie e colonizzati con una schiettezza sconosciuta alle monografie etnografiche ufficiali4, rompendo la distanza – spesso enorme – tra il materiale grezzo dell’informazione e la rap-presentazione autorevole e raffinata dei risultati [D’Agostino 2020]. In questo senso, le monografie antropologiche classiche presentano un occultamento pressoché totale dell’impatto del colonialismo sulle società studiate, così come delle condizioni in cui la ricerca etnografica è stata svolta [Matera 2020].

Le consuetudini testuali in antropologia si incrinano dagli anni Sessanta e, anche sulla scia di un testo come Tristi Tropici di Lévi-Strauss [1960], gli etnografi cominciano a tra-scrivere la loro esperienza sul campo in forme che mettono in crisi l’equilibrio allora prevalente tra soggettività e oggettività. Come suggerisce James Clifford [2001: 41], uno dei padri di questa svolta riflessiva, la pubblicazione dei diari di Malinowski «scompaginò definitivamente le vecchie convenzioni. Da quel momento qualsiasi voce etnografica troppo sicura e coerente venne accolta con estremo sospetto. Che desideri e incertezze cercava di appianare? Com’era stata costruita nel testo la sua ‘oggettività’?». Un testo seminale come Writing Culture [Clifford, Marcus 2001], preceduto dai primi approcci interpretativisti dei lavori di Clifford Geertz [1987], evidenzia dalla metà degli anni Ottanta la necessità di una critica della rappresentazione, rendendo gli studi culturali più coscienti della propria retorica narrativa e delle implicazioni che la scrittura produce sul processo di ricerca.

Soggettiva e parziale, l’etnografia prende la forma di una finzione: «Chiamare finzioni le etnografie rischia di irritare gli empiristi, ma il termine è usato dalla teoria testuale odierna senza più alcuna connotazione di falsità, o di qualcosa semplicemente opposto alla verità. Indica la parzialità delle verità culturali e storiche, i modi in cui esse sono sistematiche ed esclusive» [Clifford 2001: 31]. In questo senso, continua Clifford [2001: 32], «anche i migliori testi etnografici – scrupolose finzioni vere – sono sistemi o economie di verità. Il potere e la storia lavorano attraverso di loro in forme che gli autori non possono controllare completamente. Le verità etnografiche sono quindi intrinsecamente parziali: di parte e incomplete». All’interno di questa presa di coscienza, l’etnografia si politicizza [Boni, Koensler, Rossi 2020; Anderlini, Filippi, Giliberti 2022]: se la neutralità non esiste perché non esiste un luogo e un corpo senza una posizionalità, una scienza sociale orientata alla trasformazione supera l’idea di essere solo applicata, e diviene anche implicata con i soggetti, resi subalterni da molteplici dispositivi di potere, di cui si propone di parlare. Diviene allora, detto in altri termini, «pubblica e partigiana» [Burawoy 2005], rivolta a un’analisi critica della realtà, contestando oppressioni e diseguaglianze e favorendo, come suggerito da Pierre Bourdieu, ragioni per agire. L’etnografia, nata in contesto coloniale e «ancella del colonialismo» [Lanternari 1974], «conseguenza di un processo storico che ha reso la maggior parte dell’umanità sottomessa a un’altra parte (…), figlia di quest’era di violenza» [Lévi-Strauss 1966: 126], prova a rovesciare il suo stesso passato, per divenire strumento di denuncia e di aspirazione a un cambiamento sociale.

Il nostro osservare non si è limitato pertanto all’immersione, alla riflessione distaccata, ma ha spesso contribuito materialmente alle molteplici iniziative che vengono realizzate in ogni nodo di frontiera per favorire la libertà di movimento; così come a volte ha accompagnato e sostenuto percorsi e viaggi individuali. In tale prospettiva, interpretiamo il nostro ruolo dentro una cornice che potremmo definire di attivismo etnografico. Significa prendere consapevolezza del ruolo della ricerca e dei ricercatori come attori potenziali dentro il campo sociale in cui si colloca il fenomeno oggetto di studio. Pensare il ricercatore come attore si incarna in diverse pratiche ed effetti: favorisce dispositivi di traduzione di ritorno dei risultati di ricerca a favore dei soggetti con cui si collabora; produce una voce capace di essere ascoltata nei dibattiti pubblici a partire dalla legittimità della figura dell’esperto/accademico come produttore di conoscenza legittima; sostiene la dimensione della riflessività e della consapevolezza critica fra gli attori del campo. In questo l’attivismo etnografico si distingue dall’attivismo/militanza perché il ricercatore non si pone come intellettuale organico e fedele di una parte, ma come intellettuale critico che prova, in virtù del proprio lavoro empirico, a far riflettere sulle frizioni e le potenzialità che attraversano la/e parte/i dal cui lato si è scelto di agire.

Inoltre, il nostro ruolo di ricercatori e accademici ci permette di accedere e cogliere una molteplicità di punti di vista, di interagire con l’eterogeneità delle posizioni che strutturano un campo; essere parte, in questo caso dal lato dell’abolizionismo, non impedisce di sviluppare relazioni di conoscenza con quanti invece sostengono l’importanza della frontiera e ne puntellano la presa, così come di attraversare i diversi steccati che distinguono i gruppi in viaggio e le reti solidali, in funzione di orientamenti politici, religiosi, rapporti con le istituzioni, questioni di genere, di classe, di razza, di età. Bourdieu [2005] vedeva negli effetti della sua pratica sociologica una specie di auto-analisi indotta dalla ricerca come conversazione; sia sul soggetto dell’osservazione che sull’oggetto della stessa. Su questa scia, il nostro sforzo è sempre quello di rendere circolanti i saperi che nascono da questi processi di riflessività allargata, includendo nella misura del possibile la pluralità dei soggetti che fabbricano la frontiera. L’etnografo, dentro questo spazio di ricerca e azione multisituato, diviene allora un corriere, un vettore di circolazione di narrazioni e significati, un chasqui per riprendere il termine attraverso cui nel mondo andino preispanico venivano chiamati i postini-messaggeri fra le diverse ramificazione di un territorio/impero sterminato. Anche così interpretiamo il nostro modo di fare sociologia pubblica.

I diari qui pubblicati sono frutto di questa lunga, complicata e, spesso contraddittoria, pratica. Coscienti di quanto l’etnografia sia «un atto artigianale, legato al lavoro concreto della scrittura» [Clifford 2001: 31], nel tempo abbiamo affinato questo strumento nella modalità e nello stile, provando a far convergere vari livelli; l’analisi che interpella la letteratura delle scienze sociali si accosta alla descrizione delle situazioni, ma anche all’uso di un registro narrativo, come quello evocato nelle illustrazioni di Stefano Greco che accompagnano ogni capitolo e ne costituiscono un’interpretazione grafica. In ogni caso, si tratta di testi in cui si rende evidente la supremazia della soggettività del ricercatore e del suo posizionamento come strumento di produzione della conoscenza [Matera 2020]. Il carattere scientifico dell’etnografia, in effetti, non proviene dall’oggettività di dati inequivocabili, quanto dall’analisi della presenza dell’osservatore, dalle relazioni che crea con il campo e i mutamenti che induce; l’etnografia andrebbe pertanto considerata come la «trascrizione di una presenza»: quella del ricercatore, che osserva e analizza il campo dal proprio posizionamento, e in esso agisce [Rahola 2002].

Il diario è un testo intimo e a volte scomodo, perché entra nelle crepe del reale, dandone chiavi di lettura spesso non pacificate; lasciando emergere gli attriti e le contraddizioni, proprio a partire dalla dimensione descrittiva e al contempo analitica che lo caratterizza, intensifica il carattere critico e di back translation di un materiale pensato inizialmente solo come archivio, come backstage, come deposito per una riflessione intima e privata. Rendere pubblici i diari di campo significa, da un lato, rivelare un momento fondamentale nella produzione della teoria e della ricerca, quella che poi appare in termini più codificati nei nostri libri e articoli. Dall’altro lato, tale operazione implica una scommessa sul valore letterario che può assumere la scrittura nelle scienze sociali: distillando in forma di racconto, a tratti attraverso un’opera di montaggio, i materiali estratti da un composito archivio di ricerca; espandendone infine la capacità evocativa grazie alla potenza dell’illustrazione e del disegno.

Questi stessi diari, in diverse altre occasioni, hanno già cessato di essere intimi per divenire strumenti di generazione di iniziative culturali e artistiche attorno ai temi delle migrazioni, della frontiera, del mare e dell’estrattivismo ittico, della solidarietà. Si sono rivelati materiali maneggiabili e trasformabili con cui costruire connessioni e co-autorie con artisti visuali, illustratori, registi. Dai processi di ricerca e scrittura soggiacenti ai diari e a questa lunga etnografia multisituata, sono nati – o hanno tratto ispirazione – oltre alla produzione scientifica, diversi film documentari e opere artistiche di diverso tipo55. In tale prospettiva, la forma-diario – che è essa stessa un collage di materiali diversi, quali trascrizioni di conversazioni e di esperienze, riflessioni teoriche ed emotive nel farsi della ricerca – costituisce una sceneggiatura possibile su cui innescare altri progetti di traduzione ed espansione culturale. L’etnografia che pratichiamo si muove infatti sulla scia di quelli che Back e Puwar [2012] hanno chiamato live method, cercando i modi attraverso cui la scienza sociale si possa da un lato incarnare in opere capaci di interessare altri pubblici oltre quelli accademici, dall’altro avvalersi di linguaggi artistici come dispositivi di ricerca, più efficaci nel generare nuova conoscenza. Abbiamo prima sperimentato questo doppio spazio di azione con le immagini e le etnografie filmiche [Queirolo Palmas, 2018], per poi esplorare collaborazioni con altre tipologie di produttori culturali. Spesso i diari trascrivono storie e incontri che si basano su un setting collettivo – quello che chiamiamo laboratorio di generazione narrativa [Amigoni et al. 2023] – in cui ricercatori, artisti e attori sociali sono coinvolti in fare insieme qualcosa, collaborano a generare un’opera culturale qualunque che ha come obiettivo intervenire nel dibattito pubblico.

Infine, i diari portano dentro di sé esperienze di ricerca che non possono essere ridotte a una dimensione di autorialità individuale, anzi riflettono e registrano dei processi etnografici collettivi. Raramente, infatti, siamo stati sul campo da soli; moltiplicare gli sguardi, i corpi, le posizionalità permette di dare origine a una conoscenza più profonda e più complessa, così come di nutrire l’emersione di una riflessività allargata. L’archivio dei materiali – il corpus etnografico tuttora aperto e in produzione – è di per sé il deposito di una scrittura collettiva, di cui questo libro costituisce appunto un’ulteriore operazione di estrazione e montaggio, una delle trascrizioni possibili.

Bibliografia

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Note all’Introduzione


  1. Il termine appartiene alla lingua fula o peul, una macro-lingua atlantica dell’Africa occidentale.↩︎

  2. I testi qui pubblicati provengono da archivi di scrittura collettiva e nascono da ricerche coordinate dall’Università di Genova, fra cui la più recente è finanziata dall’Unione Europea con il grant ERC – Adg SOLROUTES (101053836); vedi https://www.solroutes.eu. A fini accademici, i capitoli 1, 3, 4 e 7 vanno attribuiti a Luca Giliberti, mentre i capitoli 2, 5, 6 e 8 vanno attribuiti a Luca Queirolo Palmas. Per quanto concerne l’Introduzione «Scrivere la frontiera», il primo paragrafo è da attribuire a Luca Queirolo Palmas, mentre il secondo paragrafo a Luca Giliberti. Ringraziamo tutti coloro, ricercatori e attivisti, che hanno partecipato in diverso modo alle tappe di questo percorso, contribuendo anche, in alcuni casi, all’archivio delle scritture collettive: Maurizio Ambrosini, Livio Amigoni, Jacopo Anderlini, Agnès Antoine, Juan Pablo Aris Escarcena, Ivan Bonnin, Hassen Boubakri, Ornella Braucci, Manuel Cabezudo, Massimo Cannarella, Camille Cassarini, Nadia Chaouch, Arianna Colombo, Lorenzo Costa, Luca Daminelli, Davide Filippi, Emanuela Fracassi, Enrico Fravega, Rhassa Ghaffari, Fabio Giovannetti, Francesca Goletti, José González Morandi, Piero Gorza, Lulufer Korukmez, Georges Kouagang, Francesca Lagomarsino, Chiara Lanini, Anna Manzon, Silvia Massara, Antonino Milotta, Vincenza Pellegrino, Gabriella Petti, Swanie Potot, Sofia Pressiani, Federico Rahola, Emilio Scalzo, Giacomo Sferlazzo, Simone Spensieri, Filippo Torre.↩︎

  3. Le persone con cui abbiamo conversato in questi anni e che vengono citate nel volume sono menzionate con nomi fittizi, per preservare il loro anonimato. Un’eccezione è stata compiuta riguardo soggetti molto noti pubblicamente e autori di libri sulla questione, in quel caso menzionati.↩︎

  4. Si vedano, ad esempio, Malinowski [1973] o Evans-Pritchard [1975].↩︎

  5. Si veda, alla fine dell’introduzione, la sezione «Inviti alla lettura, alla visione e all’ascolto».↩︎