Avvertenza // Prefazione // PRIMA PARTE Capitalismo e
modernità // Proposizioni // Scolii // SECONDA PARTE Common
decency e socialismo // Proposizioni // Scolii // TERZA PARTE
Utopia liberale e capitalismo reale // Proposizioni //
Scolii
La propaganda che appare ogni giorno sui teleschermi
del mondo moderno si fonda invariabilmente su due idee-forza
assai difficili da conciliare tra loro. Per un verso, come
sempre in tempo di guerra, si succedono a ritmo ipnotico i
bollettini di vittoria. I progressi prodigiosi della moderna
tecnologia, come proclama il Ministero della Verità, hanno
permesso di creare, per la prima volta nella storia, le basi
materiali per un Avvenire Radioso e per l’imminente avvento del
suo Regno. Questo Grande Balzo in avanti (dovuto indubbiamente
allo spirito d’intraprendenza e d’innovazione che caratterizza
la nostra incomparabile società liberale) non prelude solamente
a un’era di abbondanza e di ricchezza illimitate. Come ricorda
in ogni momento questa propaganda così accattivante, esso
conferisce oltretutto agli uomini moderni un inedito potere
sulle proprie condizioni di vita, tale che coloro che hanno
avuto la sventura di vivere prima di loro avrebbero faticato
anche solo a immaginare. Tanto la produzione industriale di
tutti gli oggetti concepibili, quanto gli orizzonti illimitati
aperti dalle «nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione», costituiscono, a tutti gli effetti, i mezzi
pratici in grado di cambiare l’esistenza e renderla felice per
tutti, grazie anche al fatto di accumularsi in una quantità e a
una velocità sconosciute a qualsiasi società precedente. Sembra,
in poche parole, che si sia finalmente raggiunto quel momento
della storia (che ne è contemporaneamente la fine) in cui tutto
ciò che gli esseri umani hanno sognato, una Sony qualunque l’ha
realizzato o lo realizzerà di qui a poco.
Tuttavia, quando si arriva alle faccende serie – cioè, in
generale, quando il Popolo, logicamente sedotto da
sermoni tanto promettenti, pone non meno logicamente la
questione dei benefici concreti che potrebbe ricavare
effettivamente da tutti questi stupefacenti progressi – il tono
del Ministero della Verità si fa di colpo cupo e la retorica
entusiasta alla Victor Hugo lascia il posto agli accenti
raggelanti di un Malthus. Il fatto è che la sapienza infallibile
degli economisti – diamolo al momento per accertato – è in grado
di dimostrare in modo indiscutibile che l’umanità ha esaurito le
sue scorte di pane bianco, che gli anni gloriosi sono ormai alle
nostre spalle e che è tempo di ficcarci in testa che abbiamo
finora vissuto al di sopra dei nostri mezzi. In
quest’ora che prelude a tempeste ineluttabili (considerando – ci
viene detto per esempio – quei tassi di natalità sempre nefasti,
perché troppo elevati o troppo bassi), le più modeste
rivendicazioni assumono l’aspetto di lussi ormai inaccessibili.
La semplice esigenza di conservare un lavoro relativamente
stabile e degno all’interno di una situazione minimamente umana,
di disporre di un reddito quasi dignitoso, di una vecchiaia
tutelata, di qualche cura gratuita, addirittura di qualche
spazio di meritato riposo – tutto questo, ci viene detto oggi,
rappresenta una sfilza di capricci inaccettabili, perché
contrari alle leggi dell’economia. Come sintetizza l’ex
padrone dell’AXA (uno dei più grandi gruppi assicurativi del
mondo), Claude Bébéar, con la brutale franchezza di chi è nato
per comandare i suoi simili, la straordinaria accumulazione di
progressi materiali e tecnologici può avere soltanto, per la
maggioranza, un unico effetto: «È evidente che si dovrà
lavorare di più e più a lungo».
Insomma, se capiamo bene, la propaganda ufficiale ha il
compito di farci credere questo: quanto più, grazie alla sua
tecnologia prometeica e a un illimitato spirito d’inventiva,
l’umanità espande le possibilità di alleviare le pene degli
esseri umani e di modificare il corso delle cose, tanto più deve
rassegnarsi ad ammettere di non avere più il controllo sul
proprio destino storico; è dunque la portata stessa dei mezzi di
cui dispone attualmente a spiegare l’esiguità dei risultati
concreti che può sperare di raggiungere.
Suppongo che non sia necessario avere un carattere
particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla
conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di
questo genere per legittimare le proprie modalità di
funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio
stesso, e che proprio per questo
imponga una critica radicale, cioè, rispettando
l’etimologia del termine, una critica che ne analizzi il male
alla radice e che intenda trattarlo per quello che
è.
In queste condizioni, il problema nel suo complesso consiste
nel capire per quale misterioso meccanismo un sistema così
evidentemente privo di razionalità sia riuscito, nel corso dei
decenni, a stendere la sua ombra sull’intero pianeta, senza
incontrare una seria opposizione da parte di coloro ai quali
destabilizza l’esistenza e mutila la potenzialità di vita, senza
suscitare, cioè, una resistenza collettiva commisurata ai guasti
che produce e ai suoi effetti reali. Il problema può essere
formulato in altro modo. Da oltre un secolo tutti,
avversari e partigiani, concordano nel classificare con il nome
di sinistra il vasto movimento politico e intellettuale
che si oppone ufficialmente al sistema capitalista e a
tutte le sue malefatte. Come può essere, allora, che un
movimento storico di tale portata (e le cui idee sono diventate
dominanti nella cultura contemporanea) non sia mai
riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalista
dell’esistenza, sostituendola con una società autenticamente
umana, libera, ugualitaria e dignitosa?
Come si può ben capire, una domanda del genere non è
precisamente nuova. Nel 1936, alla conclusione della sua
inchiesta tra gli operai di Wigan Pier, George Orwell l’aveva
già posta in questi termini: «Il fatto è che il socialismo perde
terreno proprio dove dovrebbe guadagnarlo. Con tanti argomenti a
suo favore – perché ogni pancia vuota è un argomento a favore
del socialismo – la sua idea è meno largamente accettata di
quanto non lo fosse dieci anni fa. Oggi l’uomo medio che pensa
non solo non è socialista, ma è attivamente ostile al
socialismo. Ciò è soprattutto dovuto a una propaganda sbagliata:
il socialismo, nella versione che proponiamo oggi, ha qualche
cosa di intrinsecamente sgradevole».
E riassumeva così i principi di quella «propaganda
sbagliata»: «Le persone che sono ormai più disposte ad accettare
il socialismo sono del tipo che considera con entusiasmo il
progresso meccanico in quanto tale. E ciò è talmente vero che i
socialisti sono in genere incapaci di capire che esiste anche
un’opinione opposta. In genere l’argomento più convincente che
viene loro in mente consiste nel dirvi che l’attuale
meccanizzazione del mondo non è niente in confronto a quella che
ci prepara il socialismo. Là dove oggi c’è un aereo, ce ne
saranno cinquanta! Tutto il lavoro che oggi è svolto manualmente
sarà allora fatto da macchine. Tutto quello che oggi è di cuoio,
di legno o di pietra sarà di plastica, di vetro o di acciaio.
Non ci saranno più disordini, imperfezioni, deserti, animali
selvaggi, erbacce, malattie, povertà, sofferenze. Il mondo
socialista è soprattutto un mondo ordinato ed efficace. È però
proprio questa visione del futuro, concepito come un mondo
scintillante alla Wells, che ripugna agli spiriti dotati di
sensibilità. Va notato che questa rappresentazione del
‘progresso’, concepita da pance piene, non appartiene alla
dottrina socialista. Si è finito per credere che lo fosse, e
questo spiega come un certo conservatorismo di fondo di tanta
gente d’ogni categoria abbia potuto così facilmente essere
utilizzato contro il socialismo».
Il breve saggio che segue ha l’unico scopo di sviluppare nel
modo più metodico possibile queste osservazioni di Orwell. Me ne
sono però discostato in due punti importanti. Per un verso, come
cercherò di chiarire e come lo stesso Orwell riconosce alla fine
del suo scritto, il culto del progresso e della modernità, che è
il centro di gravità di tutta la propaganda di sinistra, è
profondamente estraneo alle versioni originali del socialismo,
come sono venute costituendosi in Inghilterra e in Francia
all’inizio del XIX secolo. Per l’altro, e questa è una critica
assai più grave, è diventato impossibile continuare a credere
che i discorsi di questo tipo riguardino solo la «propaganda
sbagliata» che un partito della sinistra (o, a maggior ragione,
dell’estrema sinistra) potrebbe abbandonare o modificare a
piacimento, a seconda, per esempio, delle fluttuazioni del suo
elettorato. Mi sembra invece che l’elogio meccanico del
«progresso» e della «modernizzazione» appartengano al nocciolo
duro del programma metafisico di qualsiasi sinistra possibile,
un programma al quale essa non potrebbe rinunciare, nemmeno in
parte, senza negare del tutto se stessa. La ragione non è
difficile da comprendere. La sinistra, fin dai suoi esordi
storici, si è sempre presentata, e a ragione, come l’unica erede
legittima dell’Illuminismo, cioè, per attenersi alle definizioni
più classiche, come il partito del Movimento (nettamente opposto
a tutti i partigiani dell’Ordine) e il luogo di incontro
naturale di tutte le forze del Progresso e di tutti i fautori
del Cambiamento. A questo titolo, chiaramente, essa ha saputo
condurre o far proprie, nel corso degli ultimi due secoli, un
numero incalcolabile di lotte per l’emancipazione, tanto
legittime quanto indispensabili, contro le diverse potenze
dell’Ancien Régime (in prima fila la Chiesa e il grande
latifondo) e contro gli inaccettabili privilegi e pregiudizi sui
quali i poteri tradizionali fondavano il proprio dominio.
Il problema è che nella storia delle idee una realtà ne
maschera quasi sempre un’altra e gli esseri umani si trovano
regolarmente davanti a conseguenze che non avevano
nemmeno immaginato possibili, mentre ne sostenevano con il
massimo ardore i presupposti. Questa griglia
interpretativa, applicata alla filosofia illuminista, cioè al
punto di avvio intellettuale della modernità, mi ha gradualmente
portato a elaborare l’ipotesi seguente: non esiste, secondo me,
che un’unica possibilità di sviluppare
integralmente l’ambigua assiomatica dell’Illuminismo,
ed è quella dell’individualismo liberale. La traduzione
politica più radicale e più conseguentemente logica di
quest’ultimo si trova nel discorso sull’economia politica che ha la sua prima versione
compiuta nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
Questo equivale a dire che quella che ancor oggi viene chiamata
la sinistra si alimenta esattamente alla stessa fonte
filosofica del liberalismo moderno (dopotutto non è affatto
assurdo, in linea di principio, affermare che Turgot e Adam
Smith fossero, ai loro tempi, uomini di sinistra).
L’esistenza di questa matrice originale, comune al
pensiero della sinistra e al liberalismo illuminista, spiega
secondo me le ragioni che hanno sempre indotto la prima ad
avallare lo spirito del secondo sull’essenziale,
quantunque le sia capitato spesso (e le capiterà ancora) di
volerlo correggere (o regolare) su questo o quel
dettaglio specifico. Queste ragioni non riguardano dunque in
prima istanza la particolare psicologia della maggior parte dei
capi di quel movimento (l’amore per il potere e il senso di
tradimento che questo implica), ma sono fondamentalmente
ontologiche, cioè attengono alla natura stessa della
sinistra. Vista in questa prospettiva, l’idea di un
«anticapitalismo» di sinistra (o di estrema sinistra) parrebbe
improbabile come quella di un cattolicesimo rinnovato o
«rifondato» che prescinda dalla natura divina del Cristo e
dall’immortalità dell’anima. Sono pertanto le esigenze stesse di
una lotta coerente all’utopia liberale e al rafforzamento
della società classista che essa genera inevitabilmente (e
con questo intendo semplicemente un tipo di società in cui la
ricchezza e il potere indecenti degli uni hanno come condizione
principale lo sfruttamento e il disprezzo degli altri) a rendere oggi
politicamente necessaria una rottura radicale con
l’immaginario intellettuale della sinistra. Capisco benissimo
che l’idea di una rottura del genere ponga a molti seri problemi
psicologici, perché la sinistra, da due secoli, ha soprattutto
funzionato come un surrogato della religione (la religione del
«progresso»); e si sa bene che qualsiasi religione ha come
funzione principale quella di conferire un’identità ai suoi
fedeli e di assicurare loro una pace interiore. Non faccio
nemmeno fatica a immaginarmi che numerosi lettori considereranno
un inutile paradosso questo modo di contrapporre radicalmente il
progetto filosofico del socialismo originale ai diversi
programmi della sinistra e dell’estrema sinistra esistenti;
penseranno cioè che sia una provocazione aberrante e pericolosa,
tale da fare il gioco di tutti i nemici del genere
umano. Io credo invece che questo modo di vedere sia l’unico che
dia un senso logico alla spirale di fallimenti e di sconfitte
storiche a ripetizione che ha caratterizzato il secolo
scorso, e la cui comprensione resta evidentemente oscura per
molti nella strana situazione che è oggi la nostra. In ogni
modo, è più o meno questa l’unica possibilità non esplorata che
ci rimane, se vogliamo davvero aiutare l’umanità a uscire,
finché siamo in tempo, dall’«impasse Adam Smith», dal vicolo
cieco dell’economia.
Note alla Prefazione