Introduzione a ‘Contro la cultura di massa’
2022-07-25
traduzione di Andrea Carbone e Nino Muzzi.
INDICE DEL LIBRO:
Oggi non basta trasformare il mondo: prima di tutto bisogna preservarlo. Poi possiamo trasformarlo, molto e anche in modo rivoluzionario. Ma prima di tutto dobbiamo essere conservatori nel senso genuino della parola, conservatori in un senso che nessun uomo che si definisce tale accetterebbe. Günther Anders (1977)
Dalla metà del Settecento, ovvero da quando si è compiuta nelle sue grandi linee, la metafisica liberale – o, quel che è lo stesso, l’economia politica1 – non ha cessato di annunciare agli uomini come una società meravigliosa, capace di assicurare pace, felicità e prosperità per tutti, fosse ormai a portata di mano. Per beneficiare di questa nuova Gerusalemme sarebbe bastato che essi rinunciassero, una volta per tutte, ai loro colpevoli «arcaismi» e accettassero finalmente di regolare la propria condotta sulle sole esigenze della Ragione; di quella, quanto meno, il cui modello compiuto deriverebbe da una contabilità mercantile volta «alla massima felicità possibile per il maggior numero possibile»2. Immaginando così i contorni di un mondo in cui l’economia sarebbe diventata l’unica religione, i fondatori della dottrina capitalista non potevano che legittimare in anticipo il progetto di estendere persino alla cultura e allo spettacolo i principi implacabili della razionalità di mercato. Infatti, la costruzione metodica di una cultura di massa, vale a dire di un insieme di opere, oggetti e atteggiamenti progettati e realizzati secondo le leggi dell’industria e imposti agli uomini come ogni altra merce, è stata senza dubbio uno degli aspetti più prevedibili dello sviluppo capitalistico; un aspetto peraltro analizzato e denunciato come tale, già negli anni Trenta, dal lavoro pionieristico della Scuola di Francoforte.
Ciò che era invece più difficile da prevedere – almeno per chi riesce a decifrare l’epoca attuale solo con l’ausilio dei sottotitoli forniti dalla propaganda ufficiale – è il processo cui sarebbero state a loro volta sottoposte le critiche radicali all’industrializzazione della cultura all’interno della stessa sinistra. Fu infatti in quel periodo che la riabilitazione della cultura di massa – e di conseguenza delle «nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione» che ne sono il presupposto materiale immediato – cominciò a diventare un esercizio obbligato da parte di quella «controcultura» (o, come si sarebbe detto ben presto, «cultura giovanile») che le frazioni più avanzate delle nuove classi medie, quasi ovunque nel mondo occidentale, si sarebbero impegnate a contrapporre alla «cultura borghese», con un entusiasmo e una buona coscienza direttamente proporzionali alla loro mancanza di pensiero critico. Il tutto intrapreso, va da sé, in nome dell’idea, ormai banalizzata dai media e convalidata dalla sociologia di Stato, che ogni critica un po’ radicale dello spettacolo e dell’industria culturale non poteva che partire da un pensiero conservatore, da un elitarismo borghese o, secondo la maggior parte degli psicologi, da uno spirito tormentato e nostalgico.
Negli Stati Uniti, Herbert Gans è senza dubbio colui che ha saputo dare a questa impresa di riabilitazione la sua forma mediatica ideale, quella cioè più ingenua e più carente di coerenza intellettuale3. Nello scrivere il breve saggio qui pubblicato4, non è dunque con una delle «figure emblematiche» della moderna sinistra americana che l’autore di La cultura del narcisismo ha scelto di confrontarsi. Come vedremo, l’intelligenza filosofica di Lasch è stata soprattutto quella di respingere le nuove regole imposte al dibattito intellettuale e di sostituire, come peraltro era solito fare, l’attacco alla difesa.
Lungi dall’accontentarsi, infatti, di una semplice confutazione della stupidità modernista di Gans, si è impegnato a svelarne i due postulati nascosti, postulati che contribuiscono, ancora oggi, a conferire alla sensibilità liberal-libertaria questa apparente incontestabilità che la istituisce in quanto conformismo del nostro tempo. Il primo postulato, che è la condizione stessa del discorso proprio dell’economia politica, è l’idea che l’essere umano – una volta spogliato dalle diverse teologie del sospetto di ogni suo orpello simbolico5 – in sostanza sia solo un consumatore, cioè una pura e semplice macchina desiderante, costretta dalla sua natura a massimizzare la propria utilità, in tutti i modi possibili6. Una volta che questa riduzione dell’uomo a semplice consumatore viene data per scontata, diventa intellettualmente impossibile obiettare alcunché a chi si ostina a replicare, conformemente ai principi della più antica saggezza commerciale, che il cliente è re. Se l’esercizio della libertà umana viene confuso con la questione delle scelte di un consumatore all’interno di un dato mercato, ognuno si trova legittimato a pretendere che, purché abbia l’etichetta del prezzo, ci sia sempre un’offerta che corrisponda a qualunque sua domanda, fosse anche la più assurda o la più immorale.
Dal punto di vista liberal-libertario, è quindi perfettamente legittimo difendere fino alle sue ultime conseguenze l’idea di un «diritto di tutti su tutto» (per usare l’espressione di Hobbes), compresi, per esempio, il diritto di sfruttare liberamente il prossimo, di accoppiarsi con il proprio cane, o di adoperarsi giulivamente per rimpiazzare l’«uomo vecchio» (san Paolo e sant’Agostino) con l’uomo nuovo; vale a dire – secondo la definizione oggi più comunemente accettata – con un «animale seduto che contempla uno schermo». Una tale sostituzione è certamente un passo avanti, e tuttavia la sua piena realizzazione sembra includere un certo ricorso alla chimica, se non addirittura a qualche indispensabile modifica genetica7.
È diventato naturalmente molto difficile mettere in discussione un postulato la cui «ovvietà» è destinata ad aumentare di pari passo con l’accumulazione del capitale. Il modo migliore per riuscirci è, senza dubbio, quello di iniziare a ristabilire le condizioni reali della sua genesi storica. Occorre quindi ricordare che filosoficamente il paradigma dell’homo economicus (come quello, parallelo, dell’uomo-macchina8) non ha fatto la sua comparsa fino ai secoli XVII e XVIII; e che quindi ha assunto significato solo una volta collocato all’interno dei processi storici che hanno fondato la modernità, con il disincanto del mondo e con la progressiva emancipazione dell’individuo dalle varie tutele esercitate su di lui dai poteri tradizionali, altrimenti detto da quelli la cui autorità simbolica non poteva poggiare su un appello alla Ragione o all’interesse ben inteso9.
Ora, basta sviluppare, anche di poco, questo punto decisivo per far crollare in un sol colpo il secondo postulato della sinistra moderna (e forse, malauguratamente, di ogni possibile sinistra), ovvero l’affermazione che il sistema capitalista rappresenterebbe una forma compiuta di conservatorismo sociale, politico e culturale, e costituirebbe, nel suo progetto metafisico come nelle sue realizzazioni pratiche, una semplice forza del passato, fondata sul dominio privilegiato dell’Esercito, della Chiesa e della Famiglia patriarcale. Viceversa, basta un minimo di conoscenza storica per rendersi conto che, dai Fisiocratici a Robert-Jacques Turgot o Adam Smith, è appunto dalla filosofia dell’Illuminismo che l’ideologia liberale ha sempre mutuato la totalità delle idee – Individuo, Ragione, Progresso, Libertà – necessarie alla sua formazione. In un certo senso, si può addirittura affermare che solo l’economia politica – in quanto religione del capitale – ha saputo condurre l’individualismo illuminista alle sue estreme conseguenze logiche: una monadologia radicale, in cui il mercato resta l’unica istanza capace di prestabilire un’armonia tra individui razionali, ipoteticamente definiti come privi di filiazione o di legami particolari, cioè come semplici calcolatori egoisti10. Solo oggi è possibile iniziare a misurare esattamente gli effetti politicamente catastrofici della fede nel carattere conservatore dell’ordine economico liberale. Questo postulato, privo di senso ormai da trent’anni, continua a spingere meccanicamente la maggior parte dei militanti di sinistra a considerare l’adozione di qualsiasi atteggiamento modernizzatore o provocatorio – sul piano tecnologico, etico o di altra natura – come un gesto che sarebbe sempre, e per definizione, «rivoluzionario» e «anticapitalista». Una terribile confusione che – è vero – ha sempre avuto l’incomparabile vantaggio psicologico di autorizzare chi ne è soggetto a vivere la propria subordinazione all’ordine industriale e mercantile come una modalità esemplare di «attitudine ribelle».
Tutta l’opera di Lasch può certamente essere considerata come una critica a questa illusione micidiale, e come uno sforzo per dedurre da questa critica un programma democratico radicale, capace pertanto di evitare i tradizionali vicoli ciechi (totalitarismo e collaborazione di classe), dove la sinistra ha sempre avuto il dono di trascinare i propri seguaci. Ciò che però rischia di intrigare chi è posseduto dal «demone della classificazione» è il fatto che la critica di Lasch a questo vero e proprio etnocentrismo del presente – che in definitiva costituisce lo spirito progressista («chi è vissuto prima di me ha, per questa stessa ragione, un grado di umanità inferiore al mio») – è sempre articolata, nel modo più netto, alla difesa intransigente di tutti gli aspetti effettivamente emancipatori dell’individualismo illuminista. In effetti, sono proprio questo singolare rapporto con l’eredità dell’Illuminismo e la capacità filosofica11 di tenere insieme, senza il minimo sforzo apparente, momenti teorici solitamente disgiunti nel dibattito politico moderno (in quanto ufficialmente incompatibili) a conferire la loro vivificante originalità agli scritti di Lasch; originalità che, peraltro, spesso sconcertava i suoi oppositori, al punto che in genere ritenevano più conveniente passare la sua opera sotto silenzio. Come il lettore potrà ora constatare di persona, il testo che segue rappresenta, da tale punto di vista, un’illustrazione particolarmente convincente di questa dialettica inclassificabile che decostruisce – in modo sintetico, ma feroce e definitivo – l’assiomatica liberal-libertaria. Decenni dopo, non ritengo che ci siano molti appunti da fare a quella decostruzione. Confesso però di essere molto curioso di vedere che cosa sapranno inventarsi – silenzio o calunnia? – gli instancabili spin doctors di testate come «Le Monde» o «Libération» per cercare, ancora una volta1212, di sterilizzare le critiche di Christopher Lasch a quell’Ordine che li tiene in vita e che assicura il loro comfort intellettuale.
Note
Sulla nascita e le poste in gioco politiche e filosofiche di questa curiosa disciplina rimando a due notevoli opere: Yves Citton, Portrait de l’économiste en physiocrate, L’Harmattan, Paris, 2000, e Jean-Joseph Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, Blusson, Paris, 2000.↩︎
Secondo la formula inventata da Beccaria e resa popolare da Bentham.↩︎
Herbert Gans, Popular Culture and High Culture: An analysis and évaluation of taste, Basic Books, New York, 1974.↩︎
Il saggio Mass Culture Reconsidered è apparso per la prima volta nel numero di ottobre 1981 della rivista «Democracy».↩︎
Scrivendo che «tutto ciò che è simbolico, è ridicolo» («Charlie Hebdo», 14 febbraio 2001), il bravo Cavanna riassume perfettamente l’antropologia del Capitale. Ma purtroppo lo fa per ravvisarci il culmine della saggezza critica.↩︎
Il grande merito delle ricerche di Jean-Joseph Goux è quello di aver stabilito che il concetto di utilità – così come funziona nell’universo del moderno discorso economico – includeva, fin dall’inizio, il perpetuo passaggio dall’interesse al desiderio. Secondo la definizione classica di Charles Gide, l’utilità di una cosa designa, agli occhi dell’economista contemporaneo, la sua peculiare «proprietà di soddisfare qualsiasi desiderio dell’uomo, che esso sia ragionevole, stupido o riprovevole, che si tratti di pane, diamanti o oppio». E Léon Walras aggiunge – nei suoi Éléments d’économie pure – «che non c’è bisogno di prendere qui in considerazione la moralità o l’immoralità del bisogno cui la cosa utile risponde, soddisfacendolo. Se una sostanza è ricercata da un medico per curare un malato, o da un assassino per avvelenare la sua famiglia, è una questione molto rilevante sotto altri punti di vista, ma del tutto indifferente dal nostro punto di vista. La sostanza ci è utile in entrambi i casi, e può esserlo più nel secondo che nel primo. Su tutti questi problemi è bene leggere anche Jean-Joseph Goux, L’utilité: équivoque et démoralisation, «Revue du MAUSS» n. 6, 1995.↩︎
Questo diritto di tutti su tutto («prendete i vostri desideri per realtà») ha ovviamente per correlato logico – dato che nessuno è disposto a cedere sui propri desideri – il diritto di tutti a lamentarsi di tutto. Per questo motivo il progetto di un mondo dove tutti avrebbero il diritto di «vivere senza tempi morti e di godere senza limiti» porta inevitabilmente con sé il suo complemento pratico: la guerra di tutti contro tutti per interposti avvocati. Una guerra che è ancora agli inizi, ma non è più solo americana. Così, quando la tirannia del politicamente corretto si rivolta contro la tirannia del piacere (anche se l’universo mediatico esibisce quotidianamente l’unità dialettica dei due, per esempio la caccia ai pedofili e la contemporanea promozione delle Lolita), si assiste al curioso spettacolo del Maggio ’68 che denuncia il Maggio ’68, del Partito delle Conseguenze che mobilita le sue Leghe della Virtù per chiedere il divieto delle sue stesse premesse. Ci vuole davvero la deliziosa ingenuità di un Philippe Sollers per leggere in tutti questi nauseanti, ma logici, sviluppi un qualche ritorno al vecchio «ordine morale». Come se quest’ultimo potesse riapparire con il suo significato originario una volta che le sue basi pratiche siano state liquidate dal movimento autonomo dell’economia.↩︎
L’idea che l’uomo sia, in ultima istanza, solo un meccanismo complicato (quale che sia la scienza chiamata a rendere conto di questo meccanismo) rappresenta, se si porta alla sua logica conclusione l’opera di desimbolizzazione implicita nell’utopia modernista, l’ideale complemento epistemologico dell’economia politica. Naturalmente, questa immaginaria meccanizzazione dell’uomo trova, a partire da una certa soglia storica, la sua controparte nella corrispondente «umanizzazione» della macchina. Ecco perché, quando la logica dell’emancipazione assoluta giunge a sottrarre l’individuo agli ultimi obblighi del dono (Mauss) e della common decency (Orwell), producendo così tutta una serie di figure veramente patologiche come quella del cyber-consumatore moderno, narcisista e autistico, nulla impedisce davvero all’uomo di innamorarsi della macchina, che si tratti di un computer, di un tamagotchi, o di una delle famose real dolls che iniziano a diffondersi negli Stati Uniti. Su questo primo inverarsi dell’incubo di Villiers de l’Isle-Adam, si trovano alcune indicazioni interessanti, riguardanti il caso giapponese, nel libro di Étienne Barrai, Otaku. Les enfants du virtuel, Denoël, Paris, 1999.↩︎
Il processo di emancipazione senza fine degli individui, in relazione a queste strutture tradizionali, ha naturalmente un rovescio storico: la progressiva sottomissione di questi individui a nuovi sistemi di dominio e autorità simboliche: lo Stato moderno e i suoi giuristi, il mercato autoregolato e i suoi economisti e, naturalmente, l’ideale della scienza come fondamento immaginario e simbolico di questo nuovo insieme storico.↩︎
A tutt’altro livello, sarebbe interessante analizzare ciò che nell’opera di Sade e Stirner costituisce un parallelo letterario con l’opera concettuale dell’economia politica.↩︎
Capacità filosofica che era già quella – tra le altre – di un William Morris o di un George Orwell.↩︎
Per riprendere l’espressione di Gilles Tordjman, dobbiamo dire che a questo proposito il silenzio della critica ufficiale sui pochi titoli di Lasch usciti in francese si è rivelato «assordante».↩︎