Prefazione a ‘Un etnologo nel metrò’

Francesco Maiello

2023-06-13

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione di Francesco Maiello // Mappa della metropolitana parigina (1980) // Introduzione all’edizione italiana // CAPITOLO PRIMO Memorie // CAPITOLO SECONDO Solitudini // CAPITOLO TERZO Corrispondenze // Conclusioni

Tutti i libri parlano per sé molto più felicemente di quanto non riescano a fare in genere i prefatori, ma questo lavoro che Marc Augé ci presenta esige alcuni chiarimenti. Poiché a dispetto della sua semplicità discorsiva, del suo essere «romanzo», nasconde e propone un problema capitale di antropologia teorica che merita di essere evidenziato. Sin dalle origini l’antropologia si è posta la questione di sapere se il suo destino fosse limitato ai popoli primitivi. Così, quando nel 1971 Jean Copans, Serge Tornay, Maurice Godelier e Catherine Backès-Clement si chiedevano L’anthropologie: science des sociétés primitives?, non sempre la risposta era univoca. In realtà, si andava dall’ipotesi di una disciplina sull’orlo dello smarrimento, a causa del progressivo svanire dell’oggetto, fino a un approccio dichiaratamente urbano, come per significare che questa scienza poteva parlare di quello che, dagli albori del processo di incivilimento, appare come il fenomeno più complesso e per certi versi «totale» su cui riflettere: la metropoli e la sua vita.

È però importante tenere presente che questo oscillare fra le due posizioni possibili non può essere considerato un aspetto secondario legato all’effetto bizzarro di una qualche opzione personale. Non sarebbe corretto né produttivo. Ciò va sottolineato poiché capita spesso di cogliere fra i sostenitori di una delle due tendenze un atteggiamento di sconfortata disapprovazione nei confronti degli altri, rei di non avere capito quale sia lo specifico della disciplina di cui si pretendono cultori.

Se l’antropologia debba essere considerata, per così dire, solo la scienza dell’Altro lontano, è una questione di fondo che ne comporta altre, altrettanto capitali, su cui la disciplina antropologica, o forse sarebbe meglio dire la sua storiografia, sembra essersi interrogata con scarso interesse. Credo sia infatti evidente che se la nascita del «discorso sull’uomo» venisse individuata, in linea con una tradizione moderna di cui Michel Foucault ha forse rappresentato l’espressione più scintillante, nel momento in cui in Occidente l’uomo stesso si costituì come oggetto di una riflessione da inserire nel contesto più ampio di quel particolare tipo di approccio definito «scientifico», ne deriverebbero conseguenze completamente diverse da un’impostazione che pretendesse non esistere al mondo società che non abbia una sua antropologia, per quanto questa possa apparire inattendibile alla luce dei nostri criteri scientifici.

In realtà, e qui si può accennare al problema solo en passant, la questione appare essere di questo tipo: se l’antropologia viene concepita come quella disciplina che affonda le proprie radici nell’epoca delle scoperte e il cui scopo principale consiste nella spiegazione delle differenze culturali, il suo destino appare in un certo senso segnato, limitato cioè alla diversità nello spazio (qualche volta nel tempo) e alla durata di questa diversità nel tempo. Se invece l’antropologia viene considerata come quella scienza dell’uomo sull’uomo, di cui uno dei capitoli più importanti, ma non esclusivo, è stato senz’altro quello della nascita e della gestazione delle scienze sociali, ma che comunque precede questo momento e, malgrado la disperazione di Edmund Leach, gli sopravvivrà, allora la prospettiva, così ribaltata, assume contorni e significati completamente diversi.

La questione centrale è tutta qui e la si avverte in quell’eterno imbarazzo sulle origini che in antropologia, diversamente da molte altre discipline, non è imbarazzo sulla inevitabile inafferrabilità delle soglie da cui emerge la disciplina. La storiografia, salvo quella diplomatica e militare, ha da sempre affermato che non è questione di date e di luoghi precisi quando si tratta di capire in quale fase sorga un fenomeno complesso legato alla storia dell’uomo. Ma nel caso dell’antropologia, diversamente da quello della chimica o della sociologia, si va da padri fondatori quali i vittoriani Edward Burnett Tylor, John Ferguson McLennan, John Lubbock e altri a Erodoto, come se fosse questione da poco un probabile salto di più di duemila anni nella definizione delle origini di una disciplina.

È forse difficile per gran parte degli antropologi ammettere che ciò che è in gioco è un problema antico, poiché ammetterlo significa anche ricordare come da non poco tempo a questa parte, e salvo sporadiche eccezioni, l’antropologia più che risolvere problemi a lei connaturati, li ha semplicemente accantonati accontentandosi di un’esistenza priva di un qualsiasi sbocco sintetizzante. La posta in gioco è, dopotutto, semplice. Se l’antropologia può essere anche una scienza delle società complesse, se cioè può esistere un’antropologia urbana così come una rurale o un’antropologia del mondo moderno, significa che le si riconosce uno statuto che va ben al di là delle vicende etnologiche da cui è stato attraversato il mondo occidentale dall’epoca delle scoperte fino alla fine del diciannovesimo secolo e il fatto che essa si occupi oggi del «noi qui» non può non significare che, più che una «aspirazione», la sua è stata da sempre una vocazione a essere o a «divenire la scienza delle scienze» potendo così «inglobare la psicologia e la sociologia al pari dell’etnologia, che sarebbe allora solo una delle sue parti». Questa vocazione, infatti, che Copans e gli altri presentarono nel 1971 come una profezia, ha spesso trovato espressioni consapevoli nel dibattito fra gli studiosi; ma con il pretesto un po’ penoso che questi dibattiti erano troppo teorici e astratti, si è preferito dimenticarli a favore di un eclettismo senza principi in cui, al di fuori di un qualsiasi quadro di riferimento, l’antropologia ha continuato a interessarsi indistintamente dei canti calabresi e dell’emarginazione degli immigrati nelle grandi concentrazioni urbane, fino a tornare ai sistemi di parentela presso i Lapponi finlandesi, come se queste ricerche così disparate potessero dare luogo a un’antropologia per il solo fatto di inerire agli uomini.

Il dimenticato e vilipeso Alfred Reginald Radcliffe-Brown aveva più volte tentato di chiarire (sebbene in termini che possono anche non essere condivisi) che etnologia e antropologia sociale erano di fatto, tanto storicamente quanto fattualmente, due discipline diverse, sebbene complementari. E anche E. Adamson Hoebel ha ricordato come già nella History of America di William Robertson (1777) si trovassero anticipati i temi dei grandi antropologi vittoriani, confortando così, da un lato, il punto di vista di Radcliffe-Brown e, dall’altro, rivendicando di fatto il persistere di due tematiche che solo occasionalmente (anche se fertilmente) si erano incontrate nel corso degli anni: l’approccio generalizzante dell’antropologia e quello particolareggiante dell’etnologia.

Ma dopotutto, il fatto che l’antropologia si rivolga alle società complesse non ne proverebbe un ulteriore éclatement in quell’ottica così dispersiva di cui ho parlato? Basta all’antropologia dichiararsi disposta all’analisi del «presso di noi» perché si configuri un oggetto nuovo o una sua collocazione disciplinare nuova? O, al contrario, il riconoscimento di una sua vocazione generalizzante? Non automaticamente. Nulla avviene automaticamente. E in questo senso il tentativo di Augé mi pare di estrema importanza.

Sin da quando agli albori, non certo della sua nascita bensì della sua istituzionalizzazione, l’etnologia si è interessata al «terreno» urbano, lo ha fatto con il timore e la fascinazione di scoprire l’Altro presso di sé. Quelle che erano definite «classi pericolose», per esempio, richiedevano l’interesse dell’etnologo perché, proprio come certe società contadine, testimoniavano di una selvatichezza nell’Occidente, la sopravvivenza o la degenerazione di un «come eravamo» pericolosamente nascosto nel seno della civiltà. Questo elemento era così fortemente avvertito che tutto il pensiero antropologico precedente l’esplosione evoluzionista e progressionista di quel periodo vittoriano, che va dal 1860 in poi, è contrassegnato, in Francia come in Inghilterra, dal pericolo della decadenza dall’interno. Il pensiero razzialista servì, prima e dopo, proprio questa causa. Comunque, è una storia da scrivere.

In questo senso, dunque, non si assisteva a una vera trasformazione di atteggiamento della disciplina quanto piuttosto a uno spostamento topologico dell’Altro che dalla selva o dal contado veniva individuato anche nelle grandi città. Si ha oggi, e spesso per motivi completamente astorici e sbagliati, la tendenza a sottovalutare i meriti e gli apporti dell’antropologia evoluzionista del diciannovesimo secolo che, al contrario, sono stati notevoli. A distanza di oltre un secolo e mezzo si può anche guardare con un’aria di sufficienza ad alcune ingenuità di quell’approccio, resta però innegabile che anche in questo l’antropologia vittoriana ha svolto un ruolo pionieristico. Sebbene all’interno del corpo delle sopravvivenze, sebbene nell’ambito della cultura contadina o delle classi pericolose, quegli studiosi avvertirono, per primi, che l’Altro poteva abitare lo stesso luogo, lo stesso spazio e lo stesso tempo.

Di recente, molti dei metodi contro la cui emicità Joan Lewis ha lanciato strali si sono, come la etnometodologia, posti il problema di un approccio alla nostra società con gli stessi intenti con cui l’etnologo studia le società altre, differenti e diverse dalla nostra. È come se la natura di quel particolare atto di nascita della disciplina, ricordato da Alfred Irving Hallowell, non potesse svincolare questa scienza da un mandato di analisi «dal di fuori» (nella sua valenza eminentemente etnologica). Dopotutto, con buona pace di Harold Garfinkel e altri, anche le analisi proposte dall’etnometodologia finivano sempre con l’essere troppo al di qua o troppo al di là del margine utile. Analizzando l’Altro presso di noi e noi come l’Altro, era sempre come se l’etnologo per poter comprendere dovesse restare su Sirio (per riprendere una felice espressione usata da Augé in questo libro).

Per il cultore dell’antropologia è chiaro che tutto quanto si maschera dietro questo gioco degli spostamenti non è null’altro che una teoria dell’alterità. E che dopotutto, ancora una volta, una teoria dell’alterità è anche funzione del progetto che l’antropologia si dà. Progetto che va inteso nel senso generale. Scienza dell’uomo nel suo complesso, l’antropologia percorre strade innumerevoli di cui quella etnologica ne costituisce una fra le più feconde. Sennonché, quando i due versanti della ricerca si intersecano in modo acritico e astorico il risultato è una perdita totale del referente.

Non a caso di recente l’antropologo Clifford Geertz sembra avere ridotto l’antropologia a una scienza dell’interpretazione del testo (Roland Barthes, ma ancor più Paul Ricoeur, insegnano). Il percorso cui Geertz è giunto, e qualunque possa essere il giudizio che su di esso si esprime, trova la sua legittimità nella collocazione ambigua che il testo antropologico ricopre. Tutti hanno sempre avuto nei confronti del testo una sorta di rapporto conflittuale. Indispensabile alla sopravvivenza stessa della disciplina, esso è però sospettato di inattendibilità. La proposta di Geertz è articolata e fine, e questa breve osservazione non gli rende giustizia, ma quello che qui ha importanza ricordare è che il suo antropologismo (mi scuso per l’orribile neologismo) si risolve in un rapporto con il testo che trova la sua origine proprio in questa evidente ambiguità: chi parla nel testo? l’antropologo o l’informatore? I Nuer sono (erano) i Nuer dei Nuer o i Nuer di Evans-Pritchard? Di qui Geertz; di qui anche la metantropologia di James Clifford; ma dopotutto di qui l’intera gamma, etnometodologia compresa, di quelle indagini sociologiche e antropologiche che in qualche modo nascono (non foss’altro che per aggirarlo o superarlo propositivamente) in funzione del problema di verità che il testo rappresenta.

Dice Augé: se comprendiamo che la soglia fra l’Altro e me non solo è mobile, come tutte le soglie del resto, in funzione dello specifico che affrontiamo, ma è appunto una soglia fra me e l’Altro e non tanto fra noi e gli altri, gran parte degli aspetti irrisolti del problema spariscono, perdono di consistenza. La definizione sociologica dell’io (della persona) non è una definizione fattibile se non utilizzando elementi di definizione che condivido con altri. L’Altro, perciò, non è mai tanto altro da me da essermi incomprensibile, innanzi tutto perché, se così fosse, smetterei persino di percepirlo come altro in rapporto a me (in un certo senso non lo percepirei affatto); ma non mi è mai nemmeno così simile da generare un processo di identificazione che anch’esso (al pari del precedente) mi impedirebbe di discernerne e quindi di avvertirne la somiglianza. Lo stesso vale per le società e le culture. È chiaro che in questa antropologia della solitudine che si profila all’orizzonte finisce con non esservi un’altra dimensione del rapporto al me; in un certo senso ribalta la tradizionale vettorialità del problema. Il problema non pare tanto essere quello della definizione dell’Altro quanto piuttosto quello della definizione del me. Ma si è lungi dal cadere in una sorta di monadismo leibniziano o di solipsismo cattolico-esistenzialistico in quanto per definizione, dice Augé nel suo viaggio fatto di notazioni quotidiane e apparentemente secondarie, tanto in sociologia quanto in antropologia il me è definito dalla partecipazione a coordinate sociali di cui anche gli altri sono partecipi. La permeabilità alla comprensione del me, della mia persona, è garantita dal fatto che essa si definisce socialmente e non è una torre senza finestre irriducibile al senso di altre torri, come ha voluto, per la verità con scarso successo, un certo iperrelativismo da rotocalco. La stessa definizione della persona non ha senso in assenza di questa alterità prossima che ci circonda.

Se la conversazione cadeva sui prìncipi della Casa di Francia: «Gente che né voi né io conosceremo mai, e ne facciamo benissimo a meno, non è vero?», diceva la mia prozia a Swann, che magari aveva in tasca una lettera da Twickenham; gli faceva spostare il pianoforte e voltare le pagine dello spartito le sere in cui la sorella della nonna cantava, usando, nel maneggiare quella creatura altrove così ricercata, la rozzezza ingenua di un bambino che gioca con un ninnolo da collezione senza precauzioni maggiori che con un oggetto da pochi soldi. Non c’è dubbio che lo Swann conosciuto negli stessi anni da tanti frequentatori del Jockey era assai diverso da quello al quale dava vita la mia prozia quando di sera, nel piccolo giardino di Combray, dopo che erano risuonati i due esitanti rintocchi del campanello, iniettava e irrobustiva con tutto ciò che sapeva della famiglia Swann l’oscuro e incerto personaggio che si disegnava, seguito dalla nonna, su un fondo di tenebre, e veniva riconosciuto dalla voce. Ma anche a livello delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non deve fare altro che prendere conoscenza come di un capitolato di appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri. Persino l’atto così elementare che chiamiamo «vedere una persona conosciuta» è in parte un atto intellettuale. Noi riempiamo l’apparenza fisica dell’individuo che vediamo con tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell’immagine totale che di lui ci rappresentiamo queste nozioni hanno senza alcun dubbio la parte più considerevole.

Pagina formidabile della Recherche proustiana non a caso affidata, nella sua radice concettuale contemporaneamente tardiana e durkheimiana, alla finzione del romanzo. Una volta, infatti, che si tenta il superamento del dilemma espresso così chiaramente tempo fa da Claude Lévi-Strauss quando diceva che dopotutto nelle relazioni dell’etnografo il primitivo avrebbe potuto non ritrovarsi affatto, la narrazione etnografica finisce con l’avere le stesse possibilità del romanzo. Nelle ultime pagine, quando ipotizza provocatoriamente che l’etnologo nel metrò non ci sia ancora entrato, Augé ne simula il percorso e le difficoltà e finisce con il darci una spedizione etnologica nel metrò unitamente e incontestabilmente a un romanzo.

Sotto questo aspetto appaiono importanti, anche per comprendere appunto la modalità così prossima al romanzo (non a caso) autobiografico (il sé che si racconta per l’Altro), gli appunti mossi da Augé a Marcel Mauss (vero mostro sacro dell’antropologia e dell’antropologia storica francese) prima e a certe conclusioni di Lévi-Strauss dopo.

Augé trova fertile ricorrere in prima istanza al fatto sociale totale di Mauss, si sarebbe tentati di dire come ecosistema concettuale da cui trarre l’exemplum da proporre all’attenzione; sono le modalità attraverso le quali il sociologo francese costituiva l’esemplarità del fatto sociale totale a lasciarlo perplesso. Nella formulazione maussiana mancava (ma è fatto, aggiungo io, che manca a non poca sociologia francese) un elemento fondamentale: non vi era un percorso che consentisse di vedere come si verificasse e quale collocazione avesse il realizzarsi dell’individuale. Perché, dice Augé (ma tutto ciò è chiaramente esposto nel libro), l’individuo è sostituito da reificazioni cui nella realtà non corrisponde alcunché. Lévi-Strauss glissa nella direzione giusta, e dove Mauss parla di società egli parla di individuo. Una sintesi individuale ha un senso, una sintesi sociale è una vuota espressione retorica. Sennonché, aggiunge Augé, Lévi-Strauss fa nascere il bimbo solo per ucciderlo poco dopo invocando sistemiche culturaliste altrettanto efficaci sul piano della retorica dell’immagine intellettuale quanto fattualmente inesistenti come nell’approccio di Mauss.

In questo senso, dunque, si trova qui rafforzata l’idea, già espressa in I giardini del Lussemburgo, che nell’indagine etnologica il romanzo, e l’arte (mi permetto di aggiungere), sono, come si era già detto da Lev Tolstòj ad Arnold Gehlen e come ha indirettamente suggerito il filosofo Hilary Putnam, (etno)fonti tanto quanto il racconto del pellegrino o le confessioni dell’informatore. Anzi, in un certo senso non vi è narrazione di una soggettività che non sia in qualche modo romanzo. Non meravigli dunque il fatto che alla fine di una trilogia etnologica biografico-romanzata scritta da Augé, di cui questo è il primo e compiuto volume, l’antropologo, il lettore e lo studioso si trovano di fatto (condividano o meno le tesi sostenute) di fronte a tre saggi di antropologia teorica. Contrariamente, dunque, a quanto si legge più avanti, l’etnologo nel metrò c’è già entrato e ha fatto il proprio mestiere. Il suo messaggio è chiaro:

Aggiungo che questi sforzi di immaginazione, indipendentemente dal rischio di errore che comportano, non risultano assolutamente da una sorta di disprezzo, poiché io non saprei compierli se non mi sentissi vicino a ciò che essi prendono per oggetto, se non mi sentissi accessibile alle loro ragioni e permeabile ai loro umori, al punto da provare a volte, negli interrogativi che mi pongo a loro riguardo, una specie di dubbio sulla esatta natura di ciò che ci separa.

E non è poi così difficile anticipare che, una volta ristabilita una corretta formulazione fra l’indagine etnologica e quella antropologica, vi sarà un gran lavoro da svolgere per comprendere proprio che cosa sia e quale sia «l’esatta natura di ciò che ci separa».