Introduzione a ‘La fine del sogno occidentale’
2021-06-01
traduzione di Eva Civolani e Carlo Milani.
INDICE DEL LIBRO:
La mondializzazione – o globalisation, come dicono gli anglofoni – è un concetto di moda. Imposto dalle recenti evoluzioni, fa parte dello spirito dell’epoca. Nel giro di qualche anno, se non di qualche mese, tutti i problemi sono diventati globali: sicuramente la finanza e gli scambi economici, ma anche l’ambiente, la tecnologia, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e perfino la politica. Specialmente negli Stati Uniti, l’aggettivo globale si è ritrovato accostato a tutti questi settori. Si parla di inquinamenti globali, di televisione globale, di globalizzazione dello spazio politico, di società civile globale, di giurisdizione globale, di tecnoglobalizzazione ecc. Certamente, il fenomeno che si nasconde dietro a questi termini non è così nuovo. Da parecchi decenni, voci profetiche annunciavano l’avvento di un «villaggio planetario», taluni specialisti parlavano di occidentalizzazione, uniformazione o modernizzazione del mondo, e alcuni storici ne svelavano tutti i sintomi nelle evoluzioni di lunga durata.
La mondializzazione, sotto un’apparenza di imparziale constatazione di fatto, è anche uno slogan che spinge ad agire nella prospettiva di una trasformazione augurabile per tutti. La parola d’ordine è stata lanciata dalle aziende transnazionali e dal governo americano. Il termine è lungi dall’essere neutro; esso lascia intendere che si sarebbe di fronte a un processo anonimo e universale, benefico per l’umanità e niente affatto determinato da un’impresa perseguita da alcuni a proprio vantaggio e gravata da enormi rischi e considerevoli pericoli.
La mondializzazione significa certamente mondializzazione dei mercati. Tuttavia, essa affonda le sue radici nel progetto stesso della modernità teso a edificare una società razionale. Non vi sono dunque solo forme economiche, e queste non sono, forse, le più decisive. La mondializzazione tecnologica e quella culturale sono almeno altrettanto importanti. Tutti gli aspetti sono complementari e interdipendenti: niente interconnessioni tra borse valori, e quindi niente mercato finanziario mondiale, senza satelliti di telecomunicazione; niente rete mondiale di trasporti senza un sistema di controlli computerizzati. Il progetto GII (Global Information Infrastructure), sorto sotto la spinta degli Stati Uniti e che consiste nello sviluppo di «autostrade informatiche» (una «rete delle reti»), mira esplicitamente alla creazione di un mercato mondiale più generalizzato e immediato. Niente mondializzazione economica, infine, senza mondializzazione tecnologica e senza una «cultura» mondializzata (i computer, per esempio, funzionano in un inglese internazionale…). Tutti questi fenomeni concorrono alla messa in orbita di un’organizzazione tecnoeconomica di marca occidentale.
Spetta a noi costruire una comunità mondiale in cui i cittadini di paesi vicini si guardino non come potenziali nemici ma come potenziali partner, tutti membri di una grande famiglia umana, uniti da una catena dalle maglie sempre più fitte […]. Essa renderà possibile la creazione di un mercato mondiale dell’informazione, in cui i consumatori potranno acquistare o vendere […]. Lo sviluppo mondiale può aumentare di parecchie centinaia di miliardi di dollari se noi imbocchiamo la strada della GII1.
Il crollo dei sistemi economici pianificati e la deregulation nei paesi capitalisti hanno condotto a una mondializzazione senza precedenti dei mercati. Tuttavia, la mondializzazione dell’economia si realizza pienamente solo con la corrispondente economicizzazione del mondo, cioè con la trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non in merci. Sotto questa forma più significativa, in quanto economica, la mondializzazione è di fatto anche tecnologica e culturale, e copre la totalità del pianeta.
La planetarizzazione del mercato costituisce una novità solo per l’ampliamento del suo campo di azione, ragione per cui gli anglosassoni hanno creato il neologismo globalisation. Si procede così verso una mercificazione integrale. Ciò nonostante, l’idea e una certa realtà del mercato mondiale fanno parte integrante del capitalismo.
Fin dalle origini, il funzionamento del mercato è stato transnazionale, ovvero mondiale. La Lega anseatica, le piazze finanziarie di Genova, Lyon e Besançon, le attività commerciali di Venezia e dell’Europa del Nord, per non parlare delle grandi fiere (Troyes), sono internazionali, se non proprio mondiali, fin dai secoli XII-XIII.
Il recente trionfo del mercato, descritto appunto come una «nuova mondializzazione», comprende in effetti tre fenomeni collegati che sono, in ordine di importanza, la transnazionalizzazione delle società, la diminuzione dei controlli statali a Ovest e l’insuccesso della pianificazione a Est. Bisogna spendere qualche parola per capire la posta in gioco.
Anche le compagnie transnazionali, come il mercato, esistono dalla fine del Medioevo. Jacques Coeur, i Fugger, la Banca dei Medici, la Compagnia delle Indie, per citare solo gli esempi più famosi, sono state imprese commerciali insediate su più continenti, con un traffico che aveva il mondo come orizzonte. Attualmente, la novità consiste nel fatto che si mondializza sistematicamente non solo il capitale commerciale e bancario, ma anche il capitale industriale. La Renault fa fabbricare i suoi motori in Spagna. I computer IBM sono fabbricati in Indonesia, assemblati a Saint-Omer, venduti negli Stati Uniti ecc. La divisione del lavoro si è internazionalizzata. Le imprese sono diventate totalmente transnazionali. L’insieme interconnesso della mondializzazione del commercio, della finanza e dell’industria conduce all’emergere di sedi offshore, senza legami storici o culturali con i luoghi nei quali si sono insediate. I massicci trasferimenti di attività, le reti di subappalto, le joint venture, fino alla smaterializzazione della produzione e all’aumento dei servizi, accelerano questo fenomeno. Una delle poste in gioco del trattato di Maastricht è stata non solo spingere oltre questa transnazionalizzazione in seno all’Unione europea, ma anche di permettere alle imprese giapponesi, americane ecc. di colonizzare lo spazio del mercato comune e aumentare la fluidità degli scambi economici, cioè obbedire alle leggi dell’economia. Il principale obiettivo dell’Uruguay Round, l’ultimo negoziato del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), è stato quello di estendere questa liberalizzazione degli scambi all’agricoltura e ai servizi. Un sistema economico universale completamente sradicato, che non ha più legami privilegiati con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già più o meno realizzato. Questa sfera economico-finanziaria, extraterritoriale, «monitorata» permanentemente dalle borse, dai computer, dalle banche dati, ventiquattro ore su ventiquattro, più o meno regolamentata (e deregolamentata) dal fmi (Fondo monetario internazionale), dalla WTO (Organizzazione mondiale del commercio) e dalla Camera di commercio internazionale, ma anche dal G7, o addirittura dal Forum di Davos (riunione informale dei responsabili economici e politici del pianeta), e che opera attraverso queste istituzioni sugli Stati e sulle società, è senza dubbio ciò che meglio corrisponde al mercato astratto degli economisti, il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte.
La diminuzione dei controlli nazional-statali è a un tempo causa e conseguenza di questa transnazionalizzazione. Il compromesso tra Stato e Mercato, che si è saldato attraverso il fenomeno delle economie nazionali costituitesi come insiemi interdipendenti dei settori industriali e commerciali, ha conosciuto la stagione migliore durante i trent’anni di sviluppo economico (1945-1975) e durante lo Stato sociale.
La dinamica del mercato che sopprime le barriere delle economie locali e regionali non si è per sempre bloccata alle frontiere del territorio nazionale. La mondializzazione è l’espansione geografica ineluttabile di un’economia sistematicamente scorporata dal sociale a partire dal XVIII secolo. Questa evoluzione è stata accelerata e voluta dai «padroni del mondo» (quei duemila global leaders che si ritrovano a Davos) che predicano instancabilmente la deregulation e l’eliminazione di intermediazioni e barriere.
Il crollo delle economie socialiste ha ulteriormente accelerato e rinforzato questo processo. La pianificazione ha avuto, in definitiva, il ruolo storico di uniformare lo spazio economico a Est e di distruggere ogni specificità culturale in grado di ostacolare il libero gioco delle «forze di mercato». C’erano scambi, ma non c’era la possibilità di sviluppare un progetto che mettesse in relazione le risorse naturali di un immenso territorio e milioni di uomini, in tutti i settori, per tutti i prodotti. Non era possibile comperare, fabbricare, vendere liberamente, né seminare la rovina o la prosperità in funzione di un margine di profitto talvolta irrisorio. Il socialismo reale significava penuria, mediocrità e squallore. Per contrasto, l’economia di mercato sembrava sinonimo di abbondanza e di efficienza. Di qui ha avuto origine l’attrazione verso quel modello e la volontà di inserirsi a ogni costo nel mercato mondiale.
Tuttavia, questa mondializzazione senza precedenti dei mercati non realizza ancora il mercato integrale. Viene così designato quel grande meccanismo autoregolatore che provvede alla totalità della vita sociale, dalla nascita alla morte di individui atomizzati. Secondo gli economisti ultraliberisti: «Tutto ciò che è oggetto di un desiderio umano è candidato allo scambio. In altre parole, la teoria economica in quanto tale non fissa alcun limite all’impero del mercato»2. La mercificazione deve dunque penetrare in tutti i recessi dell’esistenza. Il trionfo della libertà, il libero accordo tra individui che obbediscono a un proprio calcolo volto all’ottimizzazione, che fa di ognuno un imprenditore e un commerciante, sta per diventare la norma, l’unica norma di un anarco-capitalismo (termine scelto da certi ideologi per designare questo sogno di un’economia senza Stato) totale e ideale.
La globalizzazione designa anche questo inedito procedere verso la mercificazione totale del mondo. I beni e i servizi, il lavoro, la terra e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l’affitto dell’utero, entrano nel circuito commerciale. Fin d’ora, con i servizi, la banca, la medicina, il turismo, i media, l’insegnamento e la giustizia, diventano transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani, presenti dappertutto nel mondo, nel corso delle grandi manovre per il controllo del mercato delle autostrade informatiche, è impartita la direttiva di prestare manforte ai giganti del multimediale esigendo che i «prodotti» culturali siano trattati come merci «uguali alle altre» e le riserve culturali come un banale e nocivo protezionismo.
L’attuale mercato mondiale, diversamente dalle antiche «piazze del mercato», quei luoghi reali delle città e dei paesi dove si scambiavano le merci tradizionali, realizza un’interdipendenza dei diversi mercati e mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, dei servizi produttivi e dei capitali.
Tuttavia, invece di generare un armonioso equilibrio per la massima felicità del maggior numero di persone, come postulano i liberisti, questo mercato totale non può evitare, né in teoria né in pratica, alcune pericolose instabilità. I mercati finanziari, in particolare, dominano sempre più i mercati di beni e servizi. Oggi, essi obbediscono prima di tutto alle profezie autorealizzanti e si sviluppano in sacche speculative che possono raggiungere dimensioni mostruose. L’ammontare delle speculazioni finanziarie non è proporzionale a quello delle attività produttive. La deregulation, lo sviluppo dei mercati a termine e l’esplosione dei prodotti derivati hanno fatto sì che gli scambi giornalieri abbiano oltrepassato i 1.500 miliardi di dollari, ossia il doppio delle riserve monetarie (più del pil della Francia). I movimenti finanziari hanno raggiunto circa 150.000 miliardi di dollari nel 1993, cioè da cinquanta a cento volte più dei movimenti commerciali annuali. Le economie, e particolarmente quelle del Terzo mondo, sono alla mercé delle fluttuazioni di quei mercati finanziari. L’esplosione di queste sacche speculative è oltretutto capace di scuotere l’intero sistema mondiale, come si è visto nel tracollo del 1987 o nella crisi americana. Un ragazzo di venticinque anni che digita sul suo portatile può far fallire la più antica e rispettabile banca della City, la Barings. E si trattava comunque di crisi minori e circoscritte!
Dietro a questi nuovi fenomeni operano logiche, processi e tendenze molto vecchi. Modernità, Occidente, Società del benessere, ma anche Sviluppo, Progresso, Razionalità, Tecnica, altrettante parole cardine che rinviano l’una all’altra e che possono essere indifferentemente usate per designare lo stesso complesso di forze. La razionalità economica è alla base della ricerca tecnoscientifica. Il progresso è la condizione, ma anche il risultato, dell’economicizzazione del mondo e dell’accumulazione illimitata di capitali, di merci e di beni materiali e immateriali. La tecnica è condizione della crescita e dello sviluppo, ma anche, fino a un certo punto, il loro risultato e il loro motore. La mondializzazione è certo un’altra maniera per designare l’occidentalizzazione e l’uniformazione planetaria. Le si potrebbero aggiungere tutte le parole cardine citate prima come aggettivi qualificativi, moltiplicandone così le connotazioni pur indicando sempre la stessa cosa. La mondializzazione è comunque moderna, occidentale, finalizzata allo sviluppo, progressista, razionale e tecnoscientifica.
Il processo che spesso viene chiamato occidentalizzazione del pianeta e che è di fatto la tecnologizzazione, l’estensione del tecnocosmo, non sarebbe dunque un incidente, un errore politico riparabile, ma l’espressione di una necessità determinata dall’essenza stessa della tecnica e dei principi dell’evoluzione tecnologica33.
Resta il fatto che per comprendere il significato, l’impatto e i limiti del fenomeno occorre valutare la portata del processo di uniformazione planetaria, interrogarsi sulla natura dell’Occidente che resta l’attore chiave di questa evoluzione, individuare le complesse dinamiche in atto, analizzarne gli insuccessi e interrogarsi su quello che potrebbe accadere in futuro.
Non è inevitabile che la storia finisca in una catastrofe. Poiché l’avvenire è ancora aperto, le trasformazioni in corso possono essere orientate dall’azione di ciascuno e di tutti. Ma è necessario prima di tutto respingere la pretesa degli esperti di monopolizzare le decisioni che ci riguardano e che, proprio per questo, competono a tutti. Il testo che segue si sforza di offrire una descrizione sommaria, semplice e chiara per quanto possibile di tutti gli aspetti della questione, per permettere a ciascuno di farsi una propria opinione e di agire di conseguenza. Essa realizzerà pienamente il suo obiettivo se contribuirà anche solo minimamente a stimolare, informare e sensibilizzare il lettore sulle poste in gioco nel processo di trasformazione planetaria che stiamo vivendo.
Note all’Introduzione
Discorso del vicepresidente americano Al Gore all’International Telecommunication Union, Buenos Aires, 21 marzo 1994. Brani estratti da Multimédia et communication à usage humain, «Dossier pour un débat», n. 56, Fondation pour le progrès de l’homme, 1996, pp. 78-87.↩︎
Baby Market, «Le Monde», 7 luglio 1988.↩︎
G. Hottois, Le signe et la technique. La philosophie à l’épreuve de la technique, Aubier, Paris, 1984, p. 200 (trad. it.: Il simbolo e la tecnica: una filosofia per l’età della tecnoscienza, Gallio, Ferrara, 1999).↩︎