Anarchismo in movimento

Tomás Ibañez

2024-01-18

traduzione di Carlo Milani.

Non credo sia necessario sottolineare l’importanza del libro di Catherine Malabou per comprendere il rapporto che la filosofia, o quantomeno una sua parte significativa, intrattiene con l’anarchia, e per incoraggiare un ripensamento e un rinnovamento dell’anarchismo.

Sarebbe superfluo perché questa importanza è ampiamente dimostrata dalla grande eco mediatica che lo ha accolto al momento della sua pubblicazione in Francia nel gennaio 2022, e soprattutto dal numero di recensioni, citazioni, commenti e dibattiti che ha suscitato e continua a suscitare, in particolari negli ambiti libertari, ma non solo. Non c’è quindi da stupirsi che quest’opera sia stata tradotta in diverse lingue, fra cui lo spagnolo e l’inglese, e oggi grazie alle edizioni elèuthera è disponibile anche in italiano, evento che ci offre d’altronde un’eccellente occasione per ascoltarla e confrontarci con lei.

Sono fra coloro che sono stati sedotti, o sedotte, dal suo libro, lo confesso. E non posso escludere che questo sia dovuto in parte al fatto che mi sento in sintonia con l’argomentazione generale che lo sottende, con l’orientamento generale che traccia e con un buon numero delle riflessioni che presenta. Devo dire che ci sono anche alcuni aspetti che trovo problematici, o perché non li ho ben decifrati o perché ho l’impressione che le nostre posizioni si discostino, seppur in minima pare. Vorrei spendere due parole su questo, ma non prima di aver commentato alcune questioni che mi sembrano rappresentare aspetti importanti della sua riflessione.

Innanzitutto farò solo una breve allusione alle sue considerazioni sull’anarchismo di fatto, non perché sottostimi l’importanza che questo fenomeno ha assunto e nemmeno per via delle divergenze con la sua analisi, ma perché condivido l’idea che il capitalismo contemporaneo si sia, per così dire, anarchicizzato, in particolare in conseguenza della rivoluzione informatica che gli consente da una parte di trarre profitto da una certa orizzontalità che promuove e dall’altra di eliminare, tramite le piattaforme digitali, l’intermediazione fra domanda e offerta. Malabou definisce in maniera assolutamente corretta questa trasformazione come uberizzazione della società. La mia incertezza rispetto all’anarchismo di fatto dipende semplicemente dalla profondità della mia ignoranza in materia che è letteralmente insondabile.

Mi soffermerò quindi solamente su ciò che lei definisce come anarchismo di coscienza, rilevando quel che mi chiama in causa personalmente e mi parla nel modo più diretto, senza dubbio per via della vicinanza con i miei personali punti di vista. Ad esempio, la seguo completamente riguardo a questo ritorno dell’anarchismo che è cominciato con la grande manifestazione altermondialista di Seattle del 1999 e di tutto quel che ne è seguito. Questi ampi movimenti politici non sono stati tanto impollinati dalle idee libertarie che allora fluttuavano nell’aria, quanto piuttosto hanno evidentemente reinventato principi organizzativi e tattiche di tipo anarchico a partire dalle pratiche messe in atto in quelle situazioni.

Questa reinvenzione di principi libertari in seno a movimenti esterni al tradizionale steccato anarchico ha dato vita a quel che personalmente ho chiamato anarchismo extra moenia, un po’ come era accaduto anche nel maggio Sessantotto.

La seguo anche, con entusiasmo, nell’idea che l’anarchismo debba lavorare con impegno per ripensarsi e per intraprendere un vero aggiornamento [in italiano nel testo, n.d.t.]. Ho apprezzato la sua espressione «anarchismo a venire», di cui peraltro si possono già adesso indovinare alcuni tratti. E visto che siamo in compagnia di elèuthera, questa volontà di aggiornamento non può che evocare quella grande figura di militante ed eccellente compagno che è stato Amedeo Bertolo, il quale sosteneva, cito, che «il vecchio solido tronco dell’anarchismo è ancora vigoroso, ma deve essere energicamente potato, perché possano germogliare e svilupparsi rami giovani e perché possa accogliere nuovi innesti senza rigettarli o soffocarli».

Il libro di Malabou non riguarda la filosofia dell’anarchismo ma piuttosto i rapporti tra filosofia e anarchismo, e ha perfettamente ragione quando sottolinea come questi rapporti siano stati o inesistenti o molto tesi. Il che può risultare curioso considerato che il canone o l’archetipo anarchico stabilito dagli antenati dell’anarchismo tra la fine del XIX e l’inizio del xx secolo non era affatto privo di tenore filosofico e anzi esibiva una buona tenuta filosofica. Ad esempio, Michail Bakunin, figura di punta del canone anarchico, aveva una solida formazione filosofica sviluppata a contatto con i giovani hegeliani e venne fortemente influenzato fra gli altri da Ludwig Feuerbach e Johann Gottlieb Fichte. Lo stesso si potrebbe dire di Max Stirner, se si accetta di includerlo nel girone anarchico, cosa che faccio ben volentieri, e di molti altri come Pierre-Joseph Proudhon, Pëtr Kropotkin o Gustav Landauer.

Al marxismo è stata riconosciuta la sua levatura filosofica, mentre è stata negata all’anarchismo. Ebbene, la differenza fra Marx/Engels e gli anarchici non risiedeva in una minore dimestichezza con il corpus filosofico ma in un rapporto diverso con la filosofia. Certo, i due campi sostenevano entrambi la necessità di uscire dalla filosofia intesa come contemplazione speculativa a favore di una partecipazione attiva nella trasformazione del Mondo. Tuttavia se Marx vedeva la riflessione e l’analisi come necessariamente precedenti l’azione trasformatrice al fine di guidarla, per Bakunin la riflessione teorica si generava e alimentava dal fragore della lotta. L’idea nasce dall’azione e si riverbera su di essa in un rapporto di perfetta simbiosi, così come aveva ben visto Proudhon.

Se l’anarchismo non è un discorso filosofico, è proprio perché la sua modalità di costruzione, radicata nella pratica, differisce da quella che caratterizza la filosofia. Quindi il discorso anarchico non può mai essere un discorso meditante, per riprendere una espressione di Malabou; è anarchico solo se contemporaneamente è un discorso militante.

Detto questo, come lei giustamente sostiene, rinunciare alla filosofia è un vero e proprio suicidio per qualsiasi pensiero politico, ed è chiaro che l’anarchismo non può farlo. Ma il fatto che esso non sia un discorso propriamente filosofico nel senso usuale del termine, non significa che non contenga presupposti filosofici e che non sia aperto alle influenze provenienti dalla filosofia. Non c’è un rifiuto anarchico della filosofia, c’è un rifiuto anarchico di essere una filosofia, di essere cioè un elemento appartenente a questa classe.

È stato negli ultimi anni del XX secolo che i rispettivi campi della filosofia e dell’anarchismo si sono incontrati di nuovo in modo piuttosto spettacolare con il forte impatto del post-strutturalismo sul pensiero anarchico. Più che Hakim Bey, che ha coniato il termine post-anarchismo, sono stati anarchici come Todd May, Jason Adams e Saul Newman ad articolare un anarchismo post-strutturalista, ampiamente impregnato di filosofia e rivelatosi innovativo a più livelli, attingendo in particolare all’anti-essenzialismo radicale di Foucault e alla sua indispensabile cassetta degli attrezzi per affrontare la questione del potere e del dominio.

Ma se l’anarchismo, o una parte di esso – perché come Malabou ha ben sottolineato l’anarchismo è polimorfo, plurale, al punto che dovremmo parlare degli anarchismi –, ha incorporato elementi filosofici, è anche vero, e lei lo dimostra in modo eloquente, che la filosofia si dimostra impermeabile all’anarchismo, anche in quei pensatori che sono comunque inclini a valorizzare l’anarchia.

Ciò è dovuto, come lei sostiene, alla rigida separazione che essi stabiliscono tra anarchia e anarchismo, essendo interessati solo al concetto di anarchia e non volendo avere nulla a che fare con il movimento anarchico. Ma se è vero che anarchia e anarchismo sono due concetti distinti, essi sono anche intimamente intrecciati. È il movimento anarchico a costruire l’idea di anarchia e, allo stesso tempo, è questa a guidare i suoi passi, e se ignoriamo questa compenetrazione allora siamo solo interessati a una accezione di anarchia che appartiene a un ordine di discorso estraneo a quello con cui l’anarchismo si rivolge ai nostri contemporanei. Tuttavia, ciò non significa che le riflessioni sull’anarchia avulse dall’anarchismo non siano interessanti per l’anarchismo, possono infatti servire ad arricchire il suo pensiero e offrire punti di appoggio per alcune delle sue pratiche.

Dei sei grandi filosofi che Malabou analizza, sono Michel Foucault e Reiner Schürmann quelli che conosco meglio e apprezzo di più, quindi è a loro che limiterò le mie riflessioni per non avventurarmi in ambiti – Derrida, Lévinas, Agamben, Rancière – che non sono sufficientemente illuminati dalle mie letture.

Non so se Foucault abbia letto Schürmann, ma è indubbio che quest’ultimo sia stato profondamente influenzato da Foucault, come dimostra in particolare il suo magnifico testo Se constituer soi-même comme sujet anarchique (Costituirsi come soggetto anarchico). Leggendolo in senso opposto a Heidegger, Schürmann – dimenticato per un certo periodo ma la cui riscoperta negli ultimi anni ha agitato una parte del pensiero filosofico – ha contribuito a orientare il nostro sguardo verso l’anarchia ontologica e, attraverso la sua critica all’arkhè aristotelico, ha mostrato come un’anarchia privata di questi principi primi, dai quali deriva la legittimità della presa della teoria sulla pratica, non possa che scoprire la contingenza del proprio percorso e affidarsi all’a priori pratico, lasciando che siano le situazioni concrete nella loro molteplicità a definire i principi particolari, e quindi altrettanto molteplici, che le guidano, al riparo da ogni teleocrazia.

Riportata sul piano dell’anarchismo politico, spostamento che Schürmann non compie, la sua analisi potrebbe servire a orientarlo verso una formulazione non fondativa e a liberarlo dalle sue inclinazioni istituenti, e quindi dalla sua propensione a riprodurre il dominio, rendendola una forza radicalmente destituente, un po’ nel senso in cui Max Stirner concettualizzò il processo di insurrezione come diverso da quello di rivoluzione.

Grazie a Al ladro!, alcuni di noi hanno potuto poi conoscere il lavoro di Derek C. Barnett e il suo recupero dell’importanza che Foucault attribuiva alla resistenza, ma focalizzando questo concetto in relazione all’anarchismo. Barnett sostiene, ad esempio, che «la logica principale dell’anarchismo è che dove c’è potere, c’è anche necessariamente resistenza».

Secondo Barnett, resistenza e potere sono due entità inseparabili, come stabilito da Foucault, e l’anarchismo è inestricabilmente una lotta contro il potere. Ne consegue che l’anarchismo non può essere antecedente alle forme di potere contro cui lotta, ma si definisce innanzitutto e necessariamente come un dispositivo di resistenza a tutte le forme di potere, in altre parole attraverso un rapporto antagonista al potere che promuove un’etica della rivolta piuttosto che un’epica della rivoluzione.

Si tratta quindi di una resistenza non essenzialista al potere, non condotta quindi in nome della morale, della ragione, del bene, dell’umanità, della salvezza o della preparazione di una rivoluzione, nemmeno di quella libertaria. Detto altrimenti, in nome di qualcosa che trascende le situazioni specifiche da cui nascono le resistenze. Non si tratta di procedere verso un certo orizzonte o di obbedire a questo o quel mandato assiologico, si tratta molto semplicemente di dire «No!» a una certa situazione ritenuta inaccettabile e, attraverso la resistenza, di agire su di essa per neutralizzarla.

Come sottolinea Malabou, il proclama anarchico secondo cui non c’è alcun bisogno di un governo per vivere in società è avvolto da un alone di scandalo che emana un sentore sulfureo a fronte di quanto presentato come una evidenza indiscutibile fin dai tempi dei filosofi greci classici e ribadito tra gli altri da Thomas Hobbes: l’incapacità delle popolazioni di governarsi da sole. Vorrei ricordare questa magnifica iscrizione murale in spagnolo che recita: «Vogliono costringerci a governare, ma non cadremo in questa trappola», una frase che senza dubbio può essere ampliata affermando «Vogliono costringerci a governare noi stessi, ma questa trappola non si chiuderà su di noi».

È questa denuncia anarchica del pregiudizio statalista che i filosofi rifiutano di ammettere, tranne senza dubbio Foucault quando afferma con forza che nessun potere è necessario. Egli è, inoltre, l’unico dei sei filosofi trattati nel libro a non screditare esplicitamente l’anarchismo politico, pur prendendone le distanze e contestandone alcuni presupposti. Ciò che dice nella sua conferenza Del governo dei viventi, spiegando perché è stato portato a inventare il magnifico concetto di anarcheologia, ne è una buona esemplificazione.

Da parte mia, confesso di non sapere se sia possibile per i viventi, allo stato attuale, vivere senza governo, ma sono convinto che pensare e agire come se lo fosse sia necessario per contrastarlo e sviluppare forme di lotta che lo erodano aprendo campi di sperimentazione per una vita altra.

E infine, arrivo a ciò che non ho capito bene, o che mi pone un problema. Mi riferisco alle riflessioni sulla distinzione tra ciò che Malabou da un lato definisce come l’ingovernabile, l’antagonismo di fronte al potere, la disobbedienza, l’insubordinazione e il rifiuto di conformarsi, e dall’altro il ciò che definisce come non-governabile, cioè ciò che è esterno, ciò che è estraneo al campo d’azione del governo, ciò che non è dell’ordine di quel che può essere governato ed è quindi indifferente o non influenzato dalle istanze governanti e dalle loro pratiche.

Non c’è dubbio che questa differenziazione sia euristica, perché arricchisce il pensiero anarchico e obbliga a ripensare soprattutto il rapporto tra la libertà e il potere. È chiaro che esiste un vasto campo della realtà che non è di una natura tale da poter essere governato. Ne è un buon esempio la vita, che nella sua creatività e mutevolezza non dipende da nessun altro principio se non da se stessa, e ci sono, come dice Malabou, «regioni dell’essere e della psiche che nessun governo può raggiungere». Il grande merito del non-governabile è che segna i limiti del governo e in questo modo sfida la sua presunta onnipotenza.

Detto questo, mi sembra di capire che nell’ambito del non-governabile non ci possa essere resistenza contro questa specifica forma di potere che è la governamentalità, perché non si resiste contro ciò che non esiste e non si lotta contro ciò che non ci riguarda e non può riguardarci in alcun modo. Confesso che se si concretizzasse la possibilità di costituirsi come un tipo di essere non-governabile, avrei grandi difficoltà a concepire la forma che potrebbe assumere un anarchismo estraneo alla lotta contro la modalità di potere rappresentata dall’atto di governare.

Mi sembra che la specificità dell’anarchismo sia di manifestarsi come ingovernabile, per quanto possibile, e di minare così il potere del potere contribuendo a rendere ingovernabili il maggior numero possibile di persone e collettività. Gli appartiene anche di operare al fine di sottrarre il maggior numero possibile di elementi dalla sfera d’azione del governo, rendendoli non governabili, ma sapendo che da quel momento in poi cessano di essere in grado di opporre resistenza al governo. Il che, per inciso, esclude l’anarchismo stesso da questa possibilità, a meno che non si neghi come campione della lotta contro la logica di dominio.

È vero che sottraendo elementi alla sfera d’azione del governo si indebolisce la sua onnipotenza, ma allo stesso tempo la si rafforza, poiché ciò che gli viene sottratto non può più opporglisi.

Diventare indifferenti al potere, come Diogene, non significa sfuggire alla sua morsa, ma diventare incapaci di opporre una resistenza, che si manifesterebbe solo nella forma dell’ingovernabile. In altri termini, è vero che Diogene non può essere governato, ma questo perché la sua resistenza, e non la sua indifferenza, lo rende ingovernabile, estraneo all’obbedienza e saldamente ancorato al rifiuto di obbedire.

Devo ammettere che questa parte del suo libro è quella che mi richiede maggior sforzo di comprensione, ma allo stesso tempo penso che abbia l’enorme valore di costringerci a pensare fuori dai sentieri batttuti.

Non posso concludere senza citare un altro punto che mi vede totalmente d’accordo con il pensiero di Malabou. Mi riferisco a una frase che mi sembra estremamente bella e suggestiva: «l’anarchismo non è mai ciò che è, ed è in questo che consiste. La sua plasticità lo definisce» e infatti anch’io sostengo che l’anarchismo cessa di essere nel momento in cui si ferma, è movimento oppure non è. Lei sta contribuendo a mantenerlo in movimento, e non posso che ringraziarla per questo.