Premessa a ‘L’utopia pirata di Libertalia’

David Graeber

2021-02-01

traduzione di Elena Cantoni.

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione all’edizione italiana di Franco La Cecla // Premessa // INTRODUZIONE Illuminismo pirata // CAPITOLO PRIMO Pirati e re fasulli nel nordest malgascio // CAPITOLO SECONDO L’arrivo dei pirati dalla prospettiva malgascia // CAPITOLO TERZO Un esperimento proto-illuminista // CONCLUSIONI // Cronologia comparata // Riferimenti bibliografici

In origine questo saggio era destinato a un’antologia sulla monarchia di diritto divino preparata in collaborazione con Marshall Sahlins. Nel condurre le prime ricerche in Madagascar, tra il 1989 e il 1991, scoprii non soltanto che molti pirati dei Caraibi si erano stabiliti là, ma che i loro discendenti ci abitavano ancora, come gruppo ben distinto e consapevole della propria identità (a facilitare la scoperta era stata la breve relazione sentimentale con una donna i cui antenati erano originari dell’isola di Sainte-Marie, Nosy Boraha in lingua malgascia). Non mi capacitavo che ancora nessuno avesse indagato le loro storie con una ricerca sistematica sul campo. Anzi, a un certo punto pensai proprio di occuparmene io, ma poi le contingenze della vita si misero di mezzo, e il progetto finì accantonato. Anche se non escludo di rispolverarlo in futuro. A quel tempo mi ero procurato alla British Library una fotocopia del manoscritto di Mayeur che restò a lungo dimenticata, insieme a una pila di libri e carte, accanto alla grande finestra panoramica della mia stanza nell’appartamento newyorkese in cui sono cresciuto: i fogli erano enormi, e la calligrafia settecentesca quasi illeggibile. Per anni sentii il peso della sua presenza nella stanza, come se dal suo angolo il manoscritto mi guardasse con rimprovero mentre, seduto alla scrivania, io mi occupavo di tutt’altro. Quando, nel 2014, persi la mia casa per le macchinazioni di un’inchiesta di polizia, feci scansionare il testo insieme a un plico di foto e documenti di famiglia troppo voluminoso da portare a Londra in forma cartacea, e infine lo feci trascrivere.

Non riuscivo proprio a spiegarmi perché non fosse mai stato pubblicato, soprattutto considerata una noticina contenuta nell’originale, conservato presso la British Library e composto alle Mauritius, in cui si informava il lettore dell’esistenza di una versione dattiloscritta, reperibile presso l’Académie Malgache di Antananarivo, e lo si invitava, qualora avesse voluto consultarlo, a rivolgersi a un certo M. Valette. A stampa erano comparsi vari saggi di autori francesi che dimostravano di aver letto quella versione, e ne riassumevano alcuni estratti, ma il manoscritto originale – già di suo un tomo erudito, con tanto di abbondanti note critiche – era rimasto inedito.

Quanto al mio saggio, aveva finito per includere una quantità tale di materiale sui pirati da assumere le dimensioni di un libro a sé. Poiché doveva rientrare in un volume sui re, il titolo era Pirate Enlightenment: the Mock Kings of Madagascar, in riferimento al pamphlet di Daniel Defoe su Henry Avery1. Ma in corso d’opera il testo non aveva fatto che crescere, e nel giro di poco mi ero ritrovato con una settantina di pagine a interlinea singola, e cominciavo a chiedermi non soltanto se non fosse troppo lungo per la raccolta, ma se la mia trattazione non si fosse talmente allontanata dal tema dei re fasulli – ammesso che i re non siano in realtà tutti degli impostori, distinguendosi solo per la diversa gradazione – da renderne problematica l’inclusione nell’antologia.

Alla fine presi la mia decisione: tutti detestiamo i saggi troppo lunghi e amiamo i libri brevi. Perché dunque non trasformare il mio in un’opera autonoma e lasciarlo camminare sulle sue gambe? E così feci.

La proposta di pubblicarlo per la prima volta con le Éditions Libertalia mi sembrò assolutamente irresistibile. D’altronde, il mito di Libertalia, l’esperimento utopico dei pirati, è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione per la sinistra libertaria. L’impressione generale era che se non fosse realmente esistita si sarebbe dovuto inventarla, e che anche in mancanza di una Libertalia storica, già solo l’esistenza dei pirati e delle loro società era in sé una sorta di esperimento libertario che andava indagato. Non solo, ma appariva anche necessario andare alle radici più profonde del progetto passato alla storia come Illuminismo – ormai visto negli ambienti rivoluzionari come un falso sogno di liberazione che di fatto aveva scatenato nel mondo sofferenze indicibili – perché lì era nata la promessa redentrice di un’alternativa autentica.

Dal punto di vista intellettuale, questo breve libro può essere visto come un contributo a un progetto di più vasto respiro formulato per la prima volta in un saggio intitolato There Never Was a West2, e che ora sto proseguendo in collaborazione con l’archeologo inglese David Wengrow. Nel linguaggio oggi di moda, lo si potrebbe definire un progetto di «decolonizzazione dell’Illuminismo». Non c’è alcun dubbio che molte delle idee oggi considerate il prodotto dei Lumi europei settecenteschi furono impiegate per giustificare le tremende efferatezze, lo sfruttamento e le devastazioni inflitte alle classi lavoratrici non soltanto in patria ma anche in altri continenti. Ma una condanna tout court dell’Illuminismo sarebbe a sua volta un po’ paradossale, considerato che fu forse il primo movimento intellettuale di cui si abbia notizia storica organizzato in larga parte dalle donne, esterno alle istituzioni ufficiali come le università, e con l’intento dichiarato di minare tutte le strutture esistenti di autorità. Non solo. Se si indagano i testi originali, i pensatori illuministi furono spesso parecchio espliciti nell’indicare come prima scaturigine delle proprie idee fonti altre dal cosiddetto canone occidentale.

Per citare un unico esempio, che svilupperò in un prossimo libro, nell’ultimo decennio del Seicento, proprio nel periodo in cui i pirati cominciavano a stabilirsi in Madagascar, esisteva a Montreal qualcosa di simile a un Salon illuminista ante litteram, presso la residenza di Louis de Bouade, conte di Frontenac, allora governatore del Canada, in cui lui e il suo assistente, Louis-Armand Lom d’Arce, barone di Lahontan, dibattevano questioni di grande rilevanza sociale – cristianesimo, economia, costumi sessuali… – insieme a un capo huron di nome Kandiaronk, che da una posizione di razionalismo egualitario e scettico sosteneva che l’apparato punitivo della legge e della religione europee era reso necessario da un sistema economico organizzato in modo tale da produrre precisamente i comportamenti che l’apparato era chiamato a reprimere. Nel 1740 Lahontan pubblicò una selezione degli appunti da lui presi durante quelle sedute, e il libro divenne subito un best-seller in tutta Europa, tanto che molti esponenti di spicco dell’Illuminismo ne scrissero un’imitazione. E tuttavia le figure come Kandiaronk sono state espunte dalla storia. Nessuno nega che quei dibattiti siano avvenuti davvero, ma chissà come si dà per scontato che al momento di trascriverli gli uomini come Lahontan non stessero parlando del Kandiaronk reale, ma si rifacessero a una sorta di «buon selvaggio» immaginario, preso di peso dalla tradizione intellettuale europea.

In altre parole, abbiamo proiettato a ritroso l’idea di una «civiltà occidentale» – concetto mai esistito fino all’inizio del Novecento – avulsa da ogni altra, e con un’inversione davvero perversa abbiamo usato le stesse accuse di arroganza razziale mosse ai cosiddetti «occidentali» – in sostanza un eufemismo cifrato per intendere «bianchi» – come pretesto per escludere a priori l’ipotesi che qualsiasi «non bianco» abbia davvero inciso sulla storia in generale e su quella intellettuale in particolare. L’indagine storica, soprattutto quella di area radicale, si è così tramutata in un gioco morale in cui conta soltanto dimostrare che non stiamo condonando i «Grandi Uomini del Passato» per il razzismo, il sessismo e lo sciovinismo di cui diedero prova (prove tangibilissime, beninteso), senza renderci però conto che un libro di quattrocento pagine scritto per contestare Rousseau resta comunque un libro di quattrocento pagine su Rousseau.

Ricordo ancora quanto restai colpito, da piccolo, dalle parole dello scrittore sufi Idries Shah, che in un’intervista espresse la propria perplessità alla vista di tante persone intelligenti e benintenzionate che in Europa e in America passavano il loro tempo partecipando a marce di protesta in cui agitavano cartelli con i nomi e le facce dei politici che intendevano contestare (levando per esempio slogan come «Hey, hey, lbj, how many kids have you killed today?»3 per denunciare i crimini di guerra commessi da Lyndon Johnson in Vietnam). Davvero non si rendono conto, osservava Shah, di quanto sia funzionale agli stessi politici quel tipo di attenzione? Credo siano state osservazioni come questa a indurmi ad abbandonare la politica della protesta per abbracciare quella dell’azione.

E deriva proprio da qui l’indignazione espressa in questo saggio. Perché non riusciamo a riconoscere che gli uomini come Kandiaronk sono pensatori essenziali per l’idea di libertà umana? Eppure nel suo caso era lampante. Perché non riusciamo a considerare il malgascio Tom Ratsimilaho come uno dei pionieri della democrazia? Perché il contributo delle donne che svolsero un ruolo così importante nelle società huron e betsimisaraka, i cui nomi sono per lo più andati perduti, è scomparso persino dalle storie che raccontiamo di quegli uomini, così come sono sparite dalla storia dell’Illuminismo quasi tutte le organizzatrici dei Salons?

Se non altro, spero che questo piccolo esperimento di scrittura storica dimostri che la storia così com’è codificata oggi non solo è profondamente lacunosa ed eurocentrica, ma è anche inutilmente piatta e noiosa. C’è infatti un compiacimento surrettizio nel moralismo che la contraddistingue, così come c’è una sorta di vertigine matematica che la spinge a ridurre le azioni umane a quantità calcolabili. Ma di fatto questi sono piaceri squallidi. Perché quanto accade realmente nella storia umana è mille volte più affascinante. Raccontiamo allora questa storia fatta di magie, menzogne, battaglie navali, principesse rapite, rivolte di schiavi, cacce all’uomo, reami inventati, ambasciatori fasulli, spie, ladri di gioielli, avvelenatori, culti satanici, ossessioni sessuali… una storia che sta alle origini della libertà moderna. Spero che leggerla sia divertente quanto per me è stato scriverla.

Note alla premessa


  1. Daniel Defoe, The King of Pirates; Being an Account of the Famous Enterprises of Captain Avery, the Mock King of Madagascar, 1720; trad. it. Il re dei pirati, Archinto, Milano, 1994 (N.d.T).↩︎

  2. Edizione italiana: David Graeber, Critica della democrazia occidentale, elèuthera, Milano, 2019 (N.d.T).↩︎

  3. «Ehi, ehi, lbj, quanti bambini hai ucciso oggi?» (N.d.T).↩︎