2022-11-08
traduzione di Carlo Milani.
INDICE DEL LIBRO:
«Chi ha dato il moto alla natura? Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi ha dato il movimento agli animali? Dio. Chi produce il pensiero dell’uomo? Dio». Non sono parole di un creazionista entusiasta, bensì dell’illuminista (e deista) François-Marie Arouet, noto come Voltaire. Bene si prestano, comunque, a illustrare per contrasto le tesi di questo libro di Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo. I due autori sono polemici sin dal titolo, Ni Dieu ni gène. E scrivono nella breve Conclusione: «Dio esiste nel rispetto e nella meraviglia che ci ispira la natura. Ma se è inaccessibile e costituisce una spiegazione universale, la spiegazione [stessa] diventa universalmente inaccessibile». In altri termini: se ogni evento si produce perché Dio lo vuole, la spiegazione si riduce a mera registrazione di quello stesso evento, una volta che si dia per scontato che all’enunciato che descrive quell’esempio va sempre premesso l’operatore (teo)logico: «È volontà di Dio che…».
Il sentimento di Voltaire – che nemmeno il terremoto di Lisbona o le bestemmie ateistiche nello stile del Marchese de Sade sono mai riusciti a spegnere – ha trovato un potente avversario solo nella dottrina darwiniana dell’evoluzione. «È come confessare un omicidio», aveva scritto l’11 gennaio 1844 Charles Robert Darwin a un ex «lupo di mare» come lui, il medico e botanico Joseph Dalton Hooker, annunciandogli che, dopo aver raccolto «alla cieca» qualsiasi dato avesse a che fare con il problema delle specie – dalle tartarughe, iguane e fringuelli delle Galápagos ai fossili del continente sudamericano – era ricorso a un po’ di «speculazioni» per chiarirsi le idee, arrivando alla conclusione che le varie specie non fossero «immutabili», ma variassero nel tempo, derivando da «un ceppo comune» ed essendo esposte alla inesorabile selezione dovuta alla pressione ambientale. Il giovane Charles aveva annotato nel Taccuino B (1837) a pagina 101: «In passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose affinché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino», ma l’astronomia moderna – da Copernico a Newton, passando per Keplero – ha indicato come fare a meno di queste disposizioni divine formulate per ciascun pianeta. Analogamente, nella concezione tradizionale delle specie, «Dio dispose che ciascun animale sia creato con una certa forma in una certa regione: ma quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per cui, agendo l’attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conseguenze; essendo creato l’animale, tali saranno i suoi successori secondo le leggi prefissate della generazione». Il Dio che sistema ogni cosa con l’apposito atto di volontà risulta un ostacolo alla spiegazione scientifica1. Come sottolinea in particolare Kupiec nel secondo capitolo, Darwin sapeva fare il giusto uso del cosiddetto rasoio di Occam (in breve, il principio per cui «dobbiamo preferire le teorie che rendono minimo il numero di ipotesi»), realizzando una considerevole economia intellettuale: la spiegazione scientifica è riduzione dell’arbitrario nella presentazione delle morfologie osservate. Né meno semplice e sublime appare la concezione darwiniana della «guerra, terribile ma silenziosa, che ha luogo tra esseri organici nei boschi tranquilli e nei campi ridenti» – in realtà, scenari ove sempre «è in atto una competizione e un granello di sabbia sposta la bilancia» (pagine 114 e 115 del Taccuino E, autunno 1838 – estate 1839). Il delitto maggiore di Charles Darwin è stato forse quello di aver sostituito alla teologia naturale la selezione naturale.
Come insiste Kupiec, è con questo (secondo) «omicidio» darwiniano che sparisce la cosiddetta spiegazione teleologica. Aveva annotato Darwin stesso nell’Autobiografia: «Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dell’uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento». Sono confronti-contrapposizioni di questo tipo che evidenziano il carattere opportunistico dell’evoluzione (darwiniana)2 attraverso la selezione naturale per pressione ambientale. Nell’aver demolito l’idea di specie come «unità reale e fissa» Charles Darwin ha reso operativo il suo «nominalismo» e con la sua concezione della «trasmutazione» del vivente ha aperto la strada alla ridefinizione della tradizionale classificazione degli organismi. Scrive per esempio Kupiec: «Certo, la classificazione ha un significato. Ma non è l’espressione statica della creazione e del disegno divino. Essa riflette il legame genealogico di tutti gli esseri viventi, e dunque l’evoluzione. Per Darwin, la specie è un insieme di individui che hanno un antenato in comune, senza alcun riferimento a un’identità di struttura. Poiché la discendenza è sempre seguita da modificazioni, la somiglianza più o meno marcata di due individui è la conseguenza di un legame di parentela più o meno forte». E ancora: «Ripetendo in biologia ciò che Occam aveva fatto cinque secoli prima, Darwin abbandona le entità ideali che ossessionavano i suoi precursori per osservare gli individui reali» (enfasi mia). Precisa opportunamente Kupiec che «la definizione di Darwin non dice cosa sono le specie, ma cosa fanno» (enfasi mia). Rendendo la specie non «un’unità statica» bensì «un processo», Darwin «rompe con la metafisica di Aristotele»; in particolare, non c’è alcuna pianificazione che possa orientare l’evoluzione darwiniana. Si pensi, del resto, a un caso che già aveva destato l’interesse di Darwin: ali e piume di uccelli per varie ere hanno funzionato come isolanti termici adatti a conservare la temperatura corporea; solo in seguito esse si sono rivelate adatte al volo3! Questa è la lezione che ci viene dal tempo profondo della storia del vivente: la selezione naturale non persegue, in sé, scopo alcuno; semplicemente, lascia emergere in un particolare contesto caratteri che poi saranno differentemente impiegati in contesti diversi. Scrive per esempio Pierre Sonigo: «L’ala non è più un miracolo se si ricostruisce la sua storia, fatta di variazioni contingenti ma probabili» (enfasi mia). Ma «la selezione naturale non pianifica nulla e non inventa nulla. Può solo migliorare quel che esiste già: le nuove funzioni derivano dalle funzioni latenti e imprevedibili il cui potenziale sarà svelato dai bisogni dell’animale. Il naso e le orecchie non sono state mantenute per selezione naturale con lo scopo di sostenere gli occhiali, anche se avevano evidentemente il potenziale nascosto per farlo. Non sono nemmeno state concepite per questo uso da un architetto (o da un programma) che sapeva che un giorno sarebbero stati inventati gli occhiali» (enfasi mia). Infine, «lo stesso accade per gli abbozzi evolutivi o embrionali di una funzione che necessita della cooperazione di molte cellule. La cellula è anteriore all’organismo, tanto dal punto di vista dell’ontogenesi quanto dal punto di vista della filogenesi […]. La selezione naturale, esercitandosi innanzi tutto sulla cellula, non poteva predire la multicellularità e il cosiddetto programma che la gestirebbe. Altrimenti, questo sarebbe come credere, ancora una volta, che c’è un disegno nella natura (finalità), che avrebbe permesso la messa in atto dell’organizzazione cellulare» (enfasi mia). Se ne conclude che «l’ontogenesi può essere compresa solo mediante l’azione della selezione naturale che si esercita […] sulle cellule individuali» (enfasi mia).
Non è conclusione da poco. Come nasce, per esempio, la nostra individualità immunologica? O magari il pensiero? Ovvero, «se il neurone non pensa, se il globulo bianco non si cura delle nostre infezioni, come possono comparire funzioni quali il pensiero o la risposta immunitaria?». La risposta a queste domande non dovrebbe, in linea di principio, essere diversa da quella offerta per ali e piume…
C’è un altro aspetto che viene rivelato dalla contrapposizione tra organismi e manufatti. Come si legge nell’ultimo capitolo del volume, in un motore a benzina è opportuno conoscere ogni dettaglio, «anche il più piccolo elemento che lo compone», perché anch’esso è rivolto al funzionamento di quel congegno; invece, «un motore biologico, prodotto dai processi naturali dell’evoluzione» può «essere pieno di rubinetti, leve e interruttori» derivati dalla sua storia evolutiva, ma tranquillamente trascurabili se quel che ci interessa è capire una certa funzione di quella struttura. Sarebbe come minimo improduttivo adottare il punto di vista riduzionistico che scende di livello in livello fino a quello basilare di atomi e molecole: così facendo «si corre il rischio […] di perdersi in una descrizione completa dell’agitato moto molecolare in seno al quale i fenomeni pertinenti per il vivente si trovano diluiti», senza capire perché la struttura considerata ci appaia adeguata a quella particolare funzione.
Per Kupiec e Sonigo la critica del riduzionismo va di pari passo con un tipo di spiegazione che colloca la selezione naturale anche a livello cellulare! Sotto questo profilo, la metafora del «programma» che i genetisti riprendono dall’informatica appare loro fuorviante. Leggiamo in un altro capitolo di questo volume: «La teoria del programma genetico […] offre una risposta a tutto […] – Perché abbiamo un cervello? Perché il programma genetico ha fatto un cervello. Perché abbiamo un fegato? Perché il programma genetico ha fatto un fegato». La rassomiglianza con il passo di Voltaire che abbiamo citato all’inizio è lampante. Per Kupiec e Sonigo il programma genetico non è che la versione contemporanea della tradizionale creazione divina. Se ogni parte dell’organismo si produce perché l’ha fatta il programma genetico, la spiegazione, anche in questo caso, diventa mera descrizione di quella stessa struttura, una volta che si sia dato per scontato che all’enunciato che esprime quell’esempio va sempre premesso l’operatore logico: «Il programma genetico ha fatto in modo che…». Certo, non è esattamente il ricorso a un Dio trascendente; adesso «si suppone che il codice sia contenuto nei nostri geni»; ma, come nel caso teologico demolito a suo tempo da Darwin, questa concezione del programma genetico, sospeso «fra la terra del citoplasma e i cieli del DNA», non spiega poco, ma troppo – e per questo appare tipicamente non controllabile a livello empirico. Potremmo dire che rischia di diventare quello che davvero era in principio: una metafisica, capace di influenzare non solo il linguaggio dei ricercatori ma anche la pratica della ricerca. Ma non è detto che sia la miglior «metafisica influente». Nella loro conclusione Kupiec e Sonigo constatano che i fautori del programma genetico hanno sostituito al vecchio Signore della Genesi «un demiurgo accessibile, leggibile nel mondo delle molecole». Ma con che vantaggio? I nostri due autori non contestano che «in certe situazioni sia possibile domare il DNA»: si pensi agli OGM o alla terapia genica. E consideriamo, in particolare, la seconda. «In questo caso esemplare e foriero di grandi speranze, un numero piccolissimo di cellule ha ricevuto il ‘gene buono’ ma ha proliferato in maniera massiccia. Il gene trasferito procura un vantaggio considerevole alle cellule trattate, prima di apportare qualcosa all’organismo. I medici hanno guarito le cellule. A loro volta, le cellule hanno salvato i bambini. Ma non era, il loro [delle cellule] obiettivo: questi animali microscopici, una volta ritrovata la salute, hanno semplicemente divorato i microbi minacciosi per ‘appetito’ e non per devozione. Le terapie geniche che hanno trascurato la libertà delle cellule hanno fallito. Il vivente non è una macchina, è una congiunzione di interessi» (enfasi mie).
Allo stato attuale questa «libertà cellulare» può anch’essa sembrarci poco più di un’analogia, cioè del nucleo di una diversa metafisica influente. Tramutarla in una vera e propria pratica di ricerca empiricamente controllabile («bisogna finalmente parlare di biologia», dicono i due autori nel finale) è la stimolante sfida di questo volume che non solo tratta di cellule o di specie, ma implicitamente allude alla stessa evoluzione culturale di Homo sapiens4.
Note alla Prefazione
Alle pagine 196-197 dello stesso Taccuino b viene esplicitamente citata la legge di Newton in un ragionamento per contrapposizione: «Prima che fosse scoperta la Forza di Gravità, si sarebbe potuto dire che spiegare il movimento di tutti i corpi con un’unica legge comportava una difficoltà grande come spiegare ciascun movimento separato per ciascuno di essi; allo stesso modo si può pensare che non si spieghi nulla affermando che tutti i mammiferi derivano da un’unica stirpe e che furono quindi distribuiti con mezzi che possiamo riconoscere – giacché per il creatore è altrettanto facile produrre due quadrupedi, il giaguaro in S. America e la tigre in Europa, o produrne uno solo uguale». I Taccuini, 1836-1844 di Darwin sono citati dall’edizione italiana a cura di T. Pievani, Laterza, Roma-Bari, 2008. La missiva di Darwin a Hooker è citata da Ch. Darwin, Lettere. 1825-1859, Cortina, Milano, 1999; per l’Autobiografia il rimando è all’edizione curata da N. Barlow, Einaudi, Torino, 2006 (per il contesto storico e culturale, in particolare l’amicizia tra Darwin e Hooker, il riferimento è all’ormai classico A. Desmond, G. Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino, 1982). Voltaire è citato da Dizionario filosofico, ed. it. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino, 2006.↩︎
La qualificazione «darwiniana» è importante: come sottolinea Kupiec, un’idea di evoluzione circolava nella comunità scientifica ben prima di Darwin: basti pensare a Lamarck nonché al nonno di Charles, Erasmus! Ma in una prospettiva «volontaristica» che Charles Darwin considerava «assurda» (il lettore è rimandato, per questo aspetto, al citato testo di Desmond e Moore).↩︎
Darwin – si osserva anche in questo volume – pensava invece a una funzione respiratoria. Ma la cosa davvero importante è che aveva intuito che la selezione ha conservato «gli abbozzi» dell’apparato che consente a certi animali di volare solo perché in precedenza «procurava un vantaggio diverso dal volo».↩︎
Per questo aspetto mi pare opportuno rimandare il lettore al volume del fisico e storico della scienza E. Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale, Cortina, Milano, 2008, ove si fa rientrare nel darwiniano processo di adattamento «tutta quanta la nostra vita conoscitiva». Sono le prospettive aperte dalla spiegazione darwiniana che, per Bellone, ci permettono di «reinterpretare le varie fasi di sviluppo della cultura umana» come processi che consentono continui miglioramenti pur non essendo «regolati da un disegno trascendente».↩︎