Via Andrea Doria

Primo capitolo di ‘Non ho bisogno di stare tranquillo’

Vittorio Giacopini

2022-09-13

INDICE DEL LIBRO:

Via Andrea Doria // Tra i lupi // Anni di vagabondaggio, prove d’esilio // Le biciclette di Bava Beccaris // A London City // Mentre la strage dura // Il «Lenin d’Italia» // A Roma // Appunti su un romanzo che non è un romanzo // Nota

L’apostolo della libertà / Errico Malatesta / In questa casa abitò e morì / XXII luglio – MCMXXXII / A perenne ricordo Targa in memoria di Errico Malatesta

Dove viveva – ma quella che faceva qui al Trionfale mica era vita – c’è una sobria targa di marmo, ridosso al muro, e, a volte, qualche fiore appassito, un segno, un dono. La targa è seminascosta, celata all’ombra dei platani che piantonano il marciapiede a scandire l’andirivieni continuo del mercato. Siamo a un confine e la strada si fa piazza, dolcemente, e davanti c’è una collina e la via sale. Via Andrea Doria, piazza delle Medaglie d’oro, il viale omonimo (e poco più oltre, le fornaci di valle Aurelia, un sottomondo). La targa dice e non dice, è reticente. Non c’è la parola «anarchia» e neanche la rabbia di quei suoi giorni finali, della clausura.

Il palazzo è ancora com’era ai tempi suoi. Un falansterio di volumi irregolari, colonne e archi, sporgenti balconcini, finestroni luminosi, ciechi abbaini. All’altezza del marciapiede, al primo piano, un muro in mattoni, alto due metri; poi le immense pareti intonacate in grigio e le finestre dalle persiane verdi, orlate in giallo. Su in alto – verso un cielo limpido e terso, troppo azzurro – la sagoma delle torri, i lavatoi. Oltre il portone, il grande piazzale interno, con le palme, i mille cortili segreti e un labirinto di camminamenti nascosti, scale, androni. Più avanti, tornando verso Prati, scendendo al fiume, le case economiche per i dipendenti del Governatorato, l’antico mercato coperto – ora scempiato – e altri palazzi così, altri cortili.

Quando era arrivato a Roma, primi anni Venti, il quartiere era ancora un cantiere a cielo aperto (e naturalmente un campo di battaglia). Le prime ronde fasciste, i primi assalti, e, intanto, lo sgombero del «villaggio abissino», delle baracche. Dalla finestra del suo appartamento-rifugio, dal suo covo, vedeva il paesaggio mutare, darsi un ordine. Ma nelle strade – che adesso prendevano forma e direzione – c’era una tensione diversa, poco chiara, e l’intensità di un’energia cattiva, di una sorda violenza. Per essere uno che aveva girato il pianeta in lungo e in largo aveva scelto il momento sbagliato per rientrare. O forse aveva ragione lui, comunque non torto. Doveva stare qui, lottare ancora.

Ieri sera massacro a San Lorenzo. In questo momento mi dicono che la lotta sanguinosa ferve a Trastevere. Stamane hanno invaso e devastato la sede della Confederazione e la casa di Bombacci, in piazza Cavour. Qui al Trionfale tentarono di venire avant’ieri sera ma furono fermati dalle truppe. Ora il quartiere è pieno zeppo di soldati, carabinieri, guardie regie, mitragliatrici, reticolati: ma non si sa troppo se stanno per proteggere il quartiere contro i fascisti o per proteggere i fascisti contro la reazione popolare.

Viveva in controtempo, senza volerlo, e l’urbanistica smentisce la sua biografia, la rende assurda. Mentre la città conquista nuovi spazi, prima impensati, lui viene costretto in un angolo – o in un guscio – e la Roma di Malatesta, lentamente, diventa sempre più angusta, claustrofobica. Una zona, un quartiere, una strada, un appartamento (e, alla fine, soltanto una stanza, un letto a molle e la bombola di ossigeno, accanto al letto). La vita da eremita, o da recluso, gliela cuciono addosso senza scampo e questi suoi ultimi tempi in via Andrea Doria sono intollerabili e mesti, noiosissimi. Il vecchio giramondo, l’eversore, il mitico «Lenin d’Italia» ora è un vecchietto che non mette piede fuori di casa (non può farlo) e non riceve nessuno, non ha visite. Avrebbero fatto meglio a carcerarlo. A quasi ottant’anni suonati è insofferente, al solito inquieto e ottimista, spazientito. Lo stanno logorando, senza toccarlo. Lui che non ama parlare di sé, così restio, scrive a un’amica di questo suo esilio domestico coatto e le sue parole sono, forse per la prima volta, sconsolate:

No, mia cara Virginia, io non sento bisogno di stare tranquillo; soffro, invece, perché sono obbligato a restar tranquillo. Non posso far nulla o quasi, ma almeno vorrei sapere quello che avviene e quello che fanno gli altri, sia per naturale interesse alle cose nostre, sia per non trovarmi, quando la situazione sarà cambiata, come uno che è caduto dalle nuvole.

Ma cosa doveva aspettare, povero vecchio? In via Andrea Doria, «l’apostolo della libertà» era un leone in gabbia, spelacchiato, che rimuginava a vuoto sul passato e quando sognava il futuro era per finta (o per un’abitudine antica, un vecchio vizio). Mussolini, che lo conosceva bene, tutto sommato, gli aveva giocato lo scherzo peggiore. Libero, sì, ma libero di non fare un accidente, di starsene a casa. Libero soltanto per avere agio e modo e tempo di intristirsi.

La sua geografia dell’esilio, o della fuga, era un rimpianto a colori, devastante, che rendeva queste lente giornate un arabesco di sfumate memorie e di impazienza. Con gli occhi stretti a fessura, il pugno sul mento, appostato dietro alle verdi persiane semisocchiuse, guatava fuori in strada, giù dabbasso, più sconsolato che altro, ormai impotente. Lui era inchiodato lì, in quelle stanze dove batteva il sole, al pomeriggio, e le marmette nuove del pavimento mandavano bagliori luccicanti. Le luci e le ombre e i lampi e i chiaroscuri di un’esistenza immobile, ristretta. «Abbiamo alla porta sei poliziotti» scrive a un amico un giorno e dice tutto.

Era ai domiciliari, sepolto vivo, neanche faceva più l’elettricista. Se si affacciava, cauto, alla finestra, si macerava di immacolata invidia, struggimento. Il ritmo del Trionfale, lo sferragliare dei tram, le urla, il mercato: quel surrogato di vita lo ammaliava (gli sarebbe bastato molto meno: un salto in latteria, una birra al sole, una partita a bocce, una passeggiata). Non era un vecchio qualsiasi, naturalmente: aveva troppi ricordi, e troppo strani. «Quante memorie! E quanta tristezza!». Che cazzo ci faceva, in via Andrea Doria? Per quale assurda beffa del destino s’era arenato in questa antica città, in questo quartiere?

«Aspetto», scrive, ma è tanto per dire, un esorcismo. Non aspettava niente, ricordava e non si fidava più della memoria. Davvero era stato tanto avventuroso, intraprendente e audace? Cadice, Londra, l’Egitto, New York, Buenos Aires, la «banda del Matese», la Patagonia. Di quelle mille vite da ribelle gli avanzava un vago sentore che la sua vita attuale – questa non vita – rendeva assai improbabile, incredibile. Provocatore di eventi, agitatore, elettricista e meccanico, cospiratore (e cercatore d’oro, alla bisogna): di tutte le sue maschere, dei suoi volti, restava poco o niente, solo un tarlo.

Il suo silenzio si era fatto denso come la calce, limaccioso. Non c’era più nessuno da incantare, né masse né folle né popolo, né arringhe, né solitari complotti, né concioni. Parlava solo con Elena, la sua compagna, e con la figlia di lei, la piccola Gemma tanto imbecille da maritarsi a un dannato bigotto, a un sicofante. Solo qualche anno prima, o mesi addietro, c’erano ancora amici a visitarlo, ammiratori e compagni, imitatori. Lui cucinava minestre di legumi, stoccafisso, stappava un vino forte, chiacchierava. Ma non parlava di sé, mica era scemo (e neppure vanesio, si capisce):

A me secca di dover parlare di me stesso: io non sono abbastanza vanitoso per dire quello che posso aver fatto di bene, né abbastanza ingenuo per raccontare quello che posso aver fatto di male. Ma ogni regola ha la sua eccezione.

E ogni eccezione ha una regola, purtroppo: lo stava constatando. Anni di vita errabonda – eccezionale – chiusi in una bottiglia, regolati, costretti in quattro mura, liquidati. Gli mancava il respiro, soffocava, si sentiva sfinito, paralizzato. Tutta questa «tranquillità», questa finta pace, questa pazienza da invalido, la noia. Era un ritmo annacquato, una cadenza che nel suo trascinarsi lo sfibrava.

A quasi ottant’anni suonati cede il passo, e, per la prima volta, accetta il fato. Non si fa più illusioni e non ha dubbi. Da quest’appartamento in via Andrea Doria ne uscirà soltanto bello e morto. Almeno è una certezza, può contarci. Della sua testa dice che è «confusa», e poi ha l’insonnia di notte, dorme il giorno; si sente inutile e stanco, si sente «abbrutito». Quando pensa ai compagni si commuove, ma il più delle volte non pensa a niente. Più che pensare rimugina, farfuglia. Morire adesso… «quando si è tanto sognato e sperato»: non gli piaceva l’idea, lo disgustava. Ma era persino sarcastico, talvolta. Non la faceva lunga, in ogni caso. Coi suoi polmoni guasti, l’enfisema, campava attaccato a una bombola di ossigeno, sibilante, e ci scherzava pure su, con ironia. Che altre risorse aveva, che altre armi?

Fra l’altro non potrei uscire di casa senza trascinarmi dietro una bombola di ossigeno: cosa… per me assolutamente impossibile.

È la sua ultima lettera, un commiato. Muore il giorno che è scritto sulla targa, e anche da morto impaurisce, turba la quiete. Del suo decesso non vien data notizia, la polizia prende precauzioni. Qualcuno viene lo stesso, e gira al largo, meglio non farsi vedere in via Andrea Doria. L’ultimo viaggio dell’avventuriero è il tragitto che porta al Verano. Niente bandiere e seguaci, niente fiori, soltanto la corona della famiglia. E niente imprevisti o inciampi lungo il percorso. Poi la questura informa il ministero:

Trasporto funebre anarchico Errico Malatesta effettuato ore 15,15 al trotto senza incidenti. La salma è stata seguita da tre vetture con familiari… Lungo itinerario e al Verano nessuno era ad attendere il feretro. Solo all’altezza di via Trionfale a poco distanza abitazione mentre passava il carro funebre è sopraggiunto in motocarrozzetta ammonito politico Paolini Duilio con altro individuo non ancora identificato i quali salutata la salma si sono subito allontanati.

Ora aveva un altro indirizzo, un’altra casa («la tomba si trova al cimitero di Verano di Roma, quadro n. 30, terza fila, tomba n. 20»), ma per la sua compagna, Elena Melli, Errico viveva ancora lì, in via Andrea Doria, in quella fresca stanza, in quel suo covo:

Non cambierò di posto a una sedia, così quando coloro che lo amano potranno ritornare ne avranno un ricordo vivo e sembrerà loro di vederlo ancora e di sentirlo.