La paura della libertà

Renaud Garcia

2020-04-16

Quando mi avventuro per le vie morte della città, con o senza lasciapassare, mio figlio di due anni si lamenta e piange ogni volta che ci imbattiamo nella rete di un parco o in una qualsiasi barriera. Passa le braccia tra le sbarre, tenta di afferrare dei fiori, sobbalza alle grida dei volatili improvvisamente liberati dal peso dei visitatori umani. Insomma, non si adatta allo stato di cose circostante. Rifiuta, istintivamente, di vivere confinato.

Non so se il suo nome, Étienne, c’entra qualcosa, ma mi ricorda queste riflessioni di un giovane uomo del XVI secolo, La Boétie, autore del Discorso sulla servitù volontaria: «Così dunque, poiché tutto ciò che ha sentimento, dal momento che ne ha, percepisce il male della soggezione e corre dietro alla libertà (…) qual è stato quell’evento funesto che ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, il solo nato, in verità, per vivere francamente, e fargli perdere insieme al ricordo del suo essere primario anche il desiderio di riprenderlo?»1.

È questo ciò che mi colpisce di più, in Francia, nel trattamento dell’epidemia di Covid-19 e nelle reazioni della gente: la libertà sembra ormai cosa troppo difficile. Ognuno, isolato con i suoi cari nel suo bunker domestico, diffida delle altre particelle contagiose, con le quali non è obbligato a comunicare che virtualmente. Lo stato di natura hobbesiano in versione 2.0. Contactless. Sembrerebbe che tutto ciò funzioni: i «social network» sono saturi; le persone si «reinventano» (come l’ha annunciato il nostro presidente cava-occhi2) nel loro spazio privato; ci si appoggia completamente alle stampelle dell’economia uberizzata (consegna di pacchi, di pasti): nessun riposo per i servi inutili.

Quelli che si chiamano, in Francia, i «collassologi» vedono in questa pandemia le premesse del crollo della civiltà «termo-industriale». Ci inondano, tramite i media, di ingiunzioni all’aiuto reciproco. Quasi altrettanto efficace che intimare alle persone: «siate spontanei!». Ottimo. Ma chi si impegna a preservare almeno quel che si può e non ha rinunciato al suo istinto di libertà dovrebbe piuttosto vedere in questa primavera silenziosa l’approfondimento della distruzione umana all’opera nel capitalismo tecnologico.

Il virus arriva dalla Cina. Credito sociale, riconoscimento facciale, sequenziamento genomico al Beijing Genomics Institute, espansione industriale che destabilizza gli ambienti naturali: l’imperialismo cinese veglia al controllo della sua popolazione, senza preoccuparsi del suo popolo, né dell’ambiente vitale. Arrivato in Francia, il virus rinforza l’organizzazione del potere tecnocratico. Esperti, ministri, consiglieri, testano una «app» per smartphone per tracciare i contagiosi; un’altra per delimitare il perimetro di sicurezza (mezzo giro, avete superato il chilometro di passeggiata autorizzata!). Per il resto, video per mantenersi in forma a casa propria, serie su richiesta, telelavoro, cyber-educazione. Nel nome di un feticcio, la Salute, si può accettare qualsiasi cosa. Ivi compreso, e soprattutto, la presa in carico integrale, l’integrazione alla grande rete della comunicazione, la paura della libertà.

Beninteso, lo choc sarebbe stato minore se il governo macroniano non fosse riuscito a distruggere la sanità pubblica, nell’unica preoccupazione della salute dell’economia.

Molti promettono di regolare i conti alla fine, per rovesciare una buona volta la «normalità» che ci ha condotti qui. È augurabile. Ma, nel frattempo, bisogna sperare che le cattive abitudini della servitù volontaria non si siano radicate. Siamo ancora al bivio evocato alla fine de Il deserto della critica: o venire risucchiati dalla macchinazione tecnologica, o ritornare il più vicino possibile all’esperienza dei rapporti faccia a faccia, soli rimedi contro le passioni tristi. Ci resta ancora questo sogno di una presenza libera e umana, per opporci all’organizzazione tecnocratica del grande disgusto di vivere. Che i lavoratori vadano a passeggiare (tenendo le loro distanze) al sole, per la strada, per manifestare il 1° maggio, ci lascerebbe pensare che esso brilla ancora un po’.


  1. La traduzione è nostra.↩︎

  2. Il soprannome «cava-occhi» riferito a Macron («éborgneur»), poco conosciuto in Italia, si è diffuso in Francia in seguito alla dura repressione subita dai gilets jaunes, durante la quale numerosi manifestanti sono rimasti mutilati e accecati.↩︎