Prefazione a ‘Kafka sognatore ribelle’

Giorgio Fontana

2022-01-11

INDICE DEL LIBRO:

Prefazione alla nuova edizione di Giorgio Fontana // INTRODUZIONE Catene di carta protocollo // CAPITOLO PRIMO «Non dimenticare Kropotkin!», Kafka e il socialismo libertario // CAPITOLO SECONDO Tirannie: dall’autocrazia paterna agli apparati impersonali // CAPITOLO TERZO Il Processo, da Mendel Beiliss, il paria ebreo, a Josef K., la vittima universale // CAPITOLO QUARTO La religione della libertà e la parabola Davanti alla Legge // CAPITOLO QUINTO Il Castello, dispotismo burocratico e servitù volontaria // CAPITOLO SESTO Digressione aneddotica: Kafka era realista? // CAPITOLO SETTIMO Una situazione kafkiana

«E se il Castello non fosse il simbolo di qualche cosa d’altro, ma fosse semplicemente un castello, cioè la sede di un potere terrestre e umano?».

Questa frase restituisce subito il tono del saggio che tenete fra le mani: la nettezza espressiva; il rifiuto del facile simbolismo; la suggestione posta in forma di domanda e non di apodittica certezza – una cautela che si riverbera per tutto il libro e che nel caso di Kafka è particolarmente appropriata.

In effetti, una delle difficoltà maggiori con lo scrittore boemo sta nella quantità di preconcetti che anticipano e orientano anche la lettura più volenterosa: fra di essi, in particolare, l’idea che si possa estrarre dai suoi romanzi e racconti un messaggio di ordine religioso, morale o politico1. Ma Löwy è studioso troppo raffinato per cadere nella trappola (la denuncia anzi fin dalle prime pagine): suo obiettivo è piuttosto rintracciare una sensibilità libertaria e una «passione antiautoritaria» che, biografie e testi alla mano, attraversano gran parte della vita e dell’opera di Franz Kafka. Le due righe citate sopra lo esemplificano bene: mettendo da parte – senza perciò rifiutarle in toto – le numerose letture teologiche, Löwy propone di ravvisare in Kafka la descrizione di relazioni tutte umane, con le loro terribili storture: le relazioni di dominio innanzitutto.

Di fatto, niente nel Castello indica che la crudeltà dei funzionari abbia a che vedere con un’altissima istanza divina; e come già osservavano Deleuze e Guattari, il punto dello scrittore non è tanto «quello di costruire questa immagine della legge trascendente e inconoscibile quanto di smontare il meccanismo d’una macchina di ben diverso genere, che ha bisogno soltanto di questa immagine della legge per accordare i suoi ingranaggi»2. Ora, tale macchina si nutre dell’automatismo burocratico ma anche del capriccio di chi detiene una qualsiasi forma di supremazia. Il sistema punitivo kafkiano appare tanto spietato quanto ridicolmente arbitrario: agisce spesso a caso e senza chiari motivi, seguendo vie tortuose, irrappresentabili dalla norma scritta. Nella splendida immagine di Sàdeq Hedàyat: «La legge è come un gatto in agguato, a caccia delle vite che passano inosservate, e all’improvviso attacca, e non si capiscono mai le sue mosse»3.

Attorno alle vittime di tale attacco si crea il vuoto sociale: ma – ed è una delle suggestioni cardine di Löwy – molte fra esse non subiscono passivamente i colpi ricevuti. Il K. del Castello è sia lo straniero per eccellenza (o per dirla in termini più chiari, un immigrato: e dunque trattato con sospetto o condiscendenza), sia un critico fermissimo del villaggio e del Castello, per quanto interessato solo al proprio bene4. «Da questo punto di vista», osserva Löwy, «K. è l’antitesi del ‘campagnolo’ che aspetta invano, tutta la vita, paziente e sottomesso, che gli sia concesso di accedere all’interno delle porte della Legge…».

Il «campagnolo» è naturalmente il protagonista della celebre pagina Davanti alla Legge, pubblicata nel Medico di campagna e contenuta in uno dei capitoli finali del Processo. Secondo Löwy, ancora una volta «riportando a terra» il testo, guardiano, giudici e funzionari

non sono affatto rappresentanti, agli occhi di Kafka, della divinità […]. Sono invece i rappresentanti del mondo della non libertà, della non redenzione, l’universo soffocante da cui Dio si è ritirato. Davanti alla loro autorità arbitraria, meschina e ingiusta, la sola via di salvezza sarebbe quella che indica la propria legge individuale, il rifiuto di sottomettersi, superando le barriere interdette.

In effetti, a un occhio più smaliziato, Davanti alla Legge appare anche un’esemplificazione non tanto del «Potere», soggetto astratto dietro la cui maiuscola si cela una sgradevole semplificazione della realtà specifica, bensì delle relazioni quotidiane fra chi lavora per un’istituzione e chi deve seguirne tutte le complicazioni. Lo sportello di un ufficio pubblico, se vogliamo.

Il guardiano, facendo leva sulla sua pur piccola autorità – è solo il primo della fila, il gradino più basso – intimidisce il poveraccio, l’uomo di campagna terrorizzato dagli ostacoli che gli prospettano per ottenere quanto pure gli spetta di diritto. Chiunque sia stato trattato con arroganza e sufficienza dai professionisti della legge o abbia avuto a che fare con difficoltà burocratiche coglie subito questo aspetto della parabola. Kafka porta certo la situazione all’estremo, e la cala in un’atmosfera religiosa impossibile da ignorare; così com’è impossibile ignorare le ulteriori sfumature del testo, che il prete del Processo sviscera in lungo e in largo discutendone con Josef K.: ma la dinamica relazionale di base resta piuttosto evidente5.

Un altro preconcetto tipico di certa critica è la ricerca di coincidenze fra vita e opera di Kafka: il tentativo di ricondurre Il Verdetto o La Metamorfosi o Il Processo a fatti occorsi allo scrittore, come se ciò potesse illuminarci in automatico su un’entità tanto complessa e indipendente quanto un’opera d’arte. Anche qui Löwy esercita una gradita prudenza, pur evidenziando nella biografia di Kafka autentiche e documentate simpatie per il socialismo libertario, che nel suo caso si declinò in termini essenzialmente emotivi ed etici: un orientamento, più che una posizione politica ben definita.

La prima edizione francese di Kafka sognatore ribelle è del 2004: fra le biografie citate non poteva esserci l’ultimo volume del monumentale lavoro di Reiner Stach, pubblicato in Germania vari anni dopo e dedicato alla giovinezza dello scrittore. Ma alla luce della sua vastissima ricerca, anche Stach rileva l’interesse di Kafka per il movimento anarco-socialista praghese e insieme ne nega la partecipazione attiva alle manifestazioni, come già riconosciuto da Löwy, concludendo che lo scrittore mantenne per tutta la vita una visione lucida e imparziale dei principi guida della sinistra6.

Del resto fin da piccolo egli ebbe modo di sperimentare i metodi autoritari del padre, sia su di sé sia sui commessi dell’emporio di famiglia, con i quali istintivamente si schierava; ma anche nella vita adulta non mancano elementi a supporto del suo vivace istinto di protesta per l’apparato gerarchico e le diseguaglianze sociali. Da impiegato detestava le pastoie della burocrazia e le vacue formule che pure doveva utilizzare, così come i rapporti professionali fondati su un autoritarismo condito di insulti; e lavorando alle campagne di sicurezza sociale per gli operai – dove conobbe direttamente gli effetti materiali dello sfruttamento, al di là di ogni idealismo e semplificazione – si prodigò molto più di quanto non fosse previsto dai suoi compiti d’ufficio7.

Peraltro Löwy non cerca mai di ridurre meccanicamente la letteratura a ideologia; mostra invece come la passione per la libertà e la giustizia sociale trovino uno spazio anche nell’opera letteraria di Kafka: «Anche astraendo dai contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi, è perfettamente possibile cogliere la dimensione sovversiva e libertaria della sua opera, grazie a una lettura attenta e sensibile dei testi». Basti pensare alla veemente, benché inefficace, protesta di Josef K. nel Processo8; o allo sdegno e la caparbietà di Karl Rossmann contro lo sfruttamento nel Disperso; o alla straordinaria resistenza nonviolenta di Amalia nel Castello.

Ma la narrativa kafkiana svela con grande finezza come l’autorità offra anche una risposta semplice al bisogno di identità e sicurezza. Essere radicalmente liberi è difficile non solo a causa del dominio imposto dall’esterno; richiede una complessa revisione interiore, riconoscendo innanzitutto la propria disponibilità a infilare la testa nel giogo anche in assenza di minacce concrete o violenza fisica – l’aspetto autopunitivo che Kafka ha raccontato come nessun altro. Il Georg Bendemann del Verdetto è spinto a buttarsi nel fiume tanto dalla condanna paterna quanto dal proprio senso di colpa; e il Josef K. stremato che compare alla fine del Processo sa che la vergogna (di essersi arreso, fra le altre cose) gli sopravviverà9.

E c’è di più. Ricordano Deleuze e Guattari che Josef K. «non si scaglia mai contro la legge e si schiera volentieri dalla parte del carnefice: dà uno spintone a Franz che sta per essere flagellato, terrorizza un imputato prendendolo per un braccio, si prende gioco di Block dall’avvocato»10; e pure il K. del Castello non brilla certo per umanità o comprensione, nella sua indomita ma privatissima battaglia contro i funzionari. Libertà, del resto, può essere anche libertà di imitare il dominio che opprime nel tentativo di rovesciarlo: un’altra sfida cruciale per un’organizzazione sociale più giusta. Da vero artista e non da semplice «critico del potere», Kafka non chiude mai gli occhi davanti a tali ambivalenze e chiaroscuri – un antidoto prezioso all’anarchismo più ingenuo. Eppure – ed è la tesi fondamentale di Löwy – nelle sue pagine emerge comunque un’utopia che si manifesta paradossalmente «attraverso la sua totale assenza»: dalla violenza e dall’arbitrio emerge in negativo un mondo nuovo; più scendiamo nell’abisso della sopraffazione, più intuiamo quali forme possono avere le relazioni liberate.

Ma in che modo rendere giustizia a tale utopia? Con un uso attento e quasi sacrale della parola, innanzitutto. Con uno stile antilirico, estremamente preciso quanto sobrio, che rivolga contro il mondo reale le sue stesse armi: «Il tedesco di cancelleria diventa così la più grossa possibilità offerta al suo genio»11, suggerisce acutamente Marthe Robert. Attraverso tale lingua – praticando la più alta devozione alla letteratura, alla scrittura «come forma di preghiera»12 – Kafka si impegna in una lotta per la verità e indica, forse, anche un ideale comunitario13.

Certo tutto ciò non dovrebbe farci adorare nuovi idoli: gli scritti di Kafka sono talmente variegati e complessi – pieni non solo di figure dominanti e individui schiacciati ma anche di animali parlanti, motivi fiabeschi, momenti erotici, enigmi irrisolvibili, scene meravigliosamente comiche e così via – che ogni lettura unilaterale li svilisce, anche quando è ben radicata nel testo come certo lo è l’esperienza dell’umiliazione e della solitudine14. Lo stesso Löwy, del resto, si premura di precisarlo; e uno degli aspetti più encomiabili del suo lavoro è proprio una fedeltà filologica che non sempre anima le letture di carattere politico, unita alla grande attenzione nel suggerire tesi interessanti e feconde. Insomma: Kafka sognatore ribelle è un testo che ancora oggi apre orizzonti critici tutti da esplorare, dando al contempo un’altra salutare picconata all’immagine dell’opera kafkiana quale mera descrizione di un potere passivamente subìto, e rivalutandone invece il carattere libertario.

In tal senso, fra i numi tutelari del testo mi pare esserci Elias Canetti; e con Canetti vorrei chiudere, lasciando infine la parola a questo libro appassionato e per molti versi rivoluzionario:

Bisogna procedere con lui a piccoli passi e si diventerà modesti. Nella letteratura moderna non c’è nulla che renda così modesti. Egli riduce la presunzione di ogni vita. Mentre lo si legge si diviene buoni, ma senza esserne orgogliosi. Le prediche rendono orgogliosi coloro che ne sono commossi, Kafka rinuncia alla predica. Non trasmette ad altri i comandamenti di suo padre; una straordinaria ostinazione, la sua dote principale, gli permette di spezzare l’ingranaggio di catene dei comandamenti che continuano a tramandarsi dai padri ai figli. Egli si sottrae alla loro violenza; la loro energia, quanto in essi vi è di animalesco, manca su di lui il suo effetto. Tanto più lo occupa il loro contenuto. Per lui i comandamenti divengono altrettanti dubbi15.

Note alla Prefazione


  1. Difficile dirlo più nettamente di Adorno: «Una prima regola per evitare un trapasso immediato al significato troppo ovvio, già inteso dall’opera, potrebbe essere questa: prendere tutto alla lettera, non sovrapporre al testo concetti dall’alto. L’autorità di Kafka è l’autorità dei testi. Soltanto la fedeltà alla lettera, e non la comprensione con fini già prefissati, potrà prima o poi aiutare»; Theodor W. Adorno, «Appunti su Kafka» in Note per la letteratura, traduzione di E. Filippini, Einaudi, Torino, 2012, p. 238.↩︎

  2. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, traduzione di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 77.↩︎

  3. Sàdeq Hedàyat, Il messaggio di Kafka, a cura di F. Favelli e M. Pistoso, Hestia, Milano, 2001, p. 73.↩︎

  4. La forza di Kafka sta anche nell’aver trattato con la massima radicalità questa figura di esule, dandole un valore universale al di là delle ascendenze ebraiche. Commentando i passi dei Diari del 28 e 29 gennaio 1922, Maurice Blanchot suggerisce che «per Kafka essere escluso dal mondo significa essere escluso da Canaan, significa errare nel deserto, ed è proprio questa situazione che rende patetica la sua lotta e disperata la sua speranza, come se, proiettato fuori dal mondo nell’errore della migrazione infinita, dovesse lottare senza tregua per trasformare quel fuori dal mondo in un mondo altro e quell’errore nel principio, nell’origine di una libertà nuova»; M. Blanchot, Lo spazio letterario, traduzione di F. Ardenghi, il Saggiatore, Milano, 2018, p. 67. Un’osservazione che ben si attaglia anche allo spirito del saggio di Löwy.↩︎

  5. La discussione della parabola nel romanzo si chiude con l’invito del sacerdote a non prendere tutto per vero, ma soltanto per necessario: una tremenda giustificazione dell’autorità sopra la giustizia, cui Josef K. replica con la famosa frase: «Malinconica opinione. Della menzogna si fa una regola universale»; Franz Kafka, Il Processo, a cura di G. Zampa, Adelphi, Milano, 1973, p. 225. Per la presenza di elementi ebraici nella parabola vedi Karl E. Grözinger, Kafka e la Cabbalà, P. Buscaglione e C. Candela (a cura di), Giuntina, Firenze, 1993.↩︎

  6. Vedi Reiner Stach, Kafka: The Early Years, Princeton University Press, Princeton, 2017, pp. 191-192. Nel suo interessante Kafka en colère, Pascale Casanova indica nel socialismo ebraico, giunto a Kafka tramite il teatro yiddish di Yitzhak Löwy, l’opzione concreta che sostituì le più vaghe pulsioni precedenti: per l’autrice il disinteresse progressivo di Kafka verso l’anarchismo a partire dal 1912 non è un segno di mero ripiegamento nella letteratura, ma una scoperta di tale nuova ed esaltante prospettiva – benché vissuta sempre con un’adesione di principio e mai di azione diretta. Vedi la seconda parte di P. Casanova, Kafka en colère, Seuil, Paris, 2011.↩︎

  7. Vedi ad esempio Michael Müller, «L’impiegato Franz Kafka» in Franz Kafka, Relazioni, Einaudi, Torino, 1988, pp. VII-LIX; di nuovo la seconda parte di P. Casanova, Kafka en colère, cit.; e R. Stach, Kafka: The Early Years, cit., pp. 315-324.↩︎

  8. Per inciso, il romanzo contiene una delle frasi kafkiane più taglienti in senso anarchico, e che ovviamente Löwy riporta: «K. viveva pure in uno Stato di diritto, la pace regnava dappertutto, tutte le leggi erano in vigore, chi osava aggredirlo in casa sua?»; Franz Kafka, Il Processo, cit., p. 6. La tragedia che si abbatte sul protagonista non necessita di un sistema totalitario; può accadere, e di fatto accade, anche in uno Stato il cui potere è circoscritto e dove le libertà formali sono garantite.↩︎

  9. Posto che tale «vergogna» conserva un’ambiguità semantica, nei Testamenti traditi Milan Kundera ha svolto un’analisi impeccabile di come la colpevolizzazione e il senso d’umiliazione di Josef K. si evolvano dall’energica lotta per la dignità perduta al lasciarsi uccidere; M. Kundera, I testamenti traditi, traduzione di E. Marchi, Adelphi, Milano, 1994. Vedi anche, più in generale, Walter H. Sokel, Freedom and Authority in the Fiction of Franz Kafka, in The Myth of Power and the Self. Essays on Franz Kafka, Wayne State University Press, Detroit, 2002, pp. 311-324.↩︎

  10. Gilles Deleuze e Félix Guattari, op. cit., p. 82.↩︎

  11. Marthe Robert, Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 169.↩︎

  12. Franz Kafka, Confessioni e diari, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano, 1972, p. 935.↩︎

  13. Così Sokel: «Language for Kafka should be the proper adaequatio for the activities and emotions that bind the members of the community together. Only in such a cohesive community can the speaker of the language be one with himself and with the partners of his discourse»; W.H. Sokel, op. cit., p. 88.↩︎

  14. Sviluppando lungo altre vie questi temi, Howard Caygill ha proposto ad esempio di invertire i termini del problema e identificare in Kafka i modi in cui il dominio reagisce alla provocazione, imprevedibile o anche del tutto accidentale, uscendo così dalla polarità sottomissione/vana resistenza, per concentrarsi sull’aspetto della sfida al potere. Vedi H. Caygill, Kafka. In Light of the Accident, Bloomsbury Academic, London, 2017.↩︎

  15. Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, Adelphi, Milano, 1978, pp. 136-137.↩︎