Prefazione alla nuova edizione di Giorgio Fontana
// INTRODUZIONE Catene di carta protocollo // CAPITOLO PRIMO
«Non dimenticare Kropotkin!», Kafka e il socialismo libertario
// CAPITOLO SECONDO Tirannie: dall’autocrazia paterna agli
apparati impersonali // CAPITOLO TERZO Il Processo, da
Mendel Beiliss, il paria ebreo, a Josef K., la vittima
universale // CAPITOLO QUARTO La religione della libertà e la
parabola Davanti alla Legge // CAPITOLO QUINTO Il
Castello, dispotismo burocratico e servitù volontaria //
CAPITOLO SESTO Digressione aneddotica: Kafka era realista? //
CAPITOLO SETTIMO Una situazione kafkiana
«E se il Castello non fosse il simbolo di qualche cosa
d’altro, ma fosse semplicemente un castello, cioè la
sede di un potere terrestre e umano?».
Questa frase restituisce subito il tono del saggio che tenete
fra le mani: la nettezza espressiva; il rifiuto del facile
simbolismo; la suggestione posta in forma di domanda e non di
apodittica certezza – una cautela che si riverbera per tutto il
libro e che nel caso di Kafka è particolarmente appropriata.
In effetti, una delle difficoltà maggiori con lo scrittore
boemo sta nella quantità di preconcetti che anticipano e
orientano anche la lettura più volenterosa: fra di essi, in
particolare, l’idea che si possa estrarre dai suoi romanzi e
racconti un messaggio di ordine religioso, morale o politico. Ma Löwy è studioso troppo
raffinato per cadere nella trappola (la denuncia anzi fin dalle
prime pagine): suo obiettivo è piuttosto rintracciare una
sensibilità libertaria e una «passione antiautoritaria» che,
biografie e testi alla mano, attraversano gran parte della vita
e dell’opera di Franz Kafka. Le due righe citate sopra lo
esemplificano bene: mettendo da parte – senza perciò rifiutarle
in toto – le numerose letture teologiche, Löwy propone di
ravvisare in Kafka la descrizione di relazioni tutte umane, con
le loro terribili storture: le relazioni di dominio
innanzitutto.
Di fatto, niente nel Castello indica che la crudeltà
dei funzionari abbia a che vedere con un’altissima istanza
divina; e come già osservavano Deleuze e Guattari, il punto
dello scrittore non è tanto «quello di costruire questa immagine
della legge trascendente e inconoscibile quanto di smontare
il meccanismo d’una macchina di ben diverso genere, che ha
bisogno soltanto di questa immagine della legge per accordare i
suoi ingranaggi». Ora, tale macchina si nutre
dell’automatismo burocratico ma anche del capriccio di chi
detiene una qualsiasi forma di supremazia. Il sistema punitivo
kafkiano appare tanto spietato quanto ridicolmente arbitrario:
agisce spesso a caso e senza chiari motivi, seguendo vie
tortuose, irrappresentabili dalla norma scritta. Nella splendida
immagine di Sàdeq Hedàyat: «La legge è come un gatto in agguato,
a caccia delle vite che passano inosservate, e all’improvviso
attacca, e non si capiscono mai le sue mosse».
Attorno alle vittime di tale attacco si crea il vuoto
sociale: ma – ed è una delle suggestioni cardine di Löwy – molte
fra esse non subiscono passivamente i colpi ricevuti. Il K. del
Castello è sia lo straniero per eccellenza (o per dirla
in termini più chiari, un immigrato: e dunque trattato con
sospetto o condiscendenza), sia un critico fermissimo del
villaggio e del Castello, per quanto interessato solo al proprio
bene. «Da questo punto di vista»,
osserva Löwy, «K. è l’antitesi del ‘campagnolo’ che aspetta
invano, tutta la vita, paziente e sottomesso, che gli sia
concesso di accedere all’interno delle porte della Legge…».
Il «campagnolo» è naturalmente il protagonista della celebre
pagina Davanti alla Legge, pubblicata nel Medico di
campagna e contenuta in uno dei capitoli finali del
Processo. Secondo Löwy, ancora una volta «riportando a
terra» il testo, guardiano, giudici e funzionari
non sono affatto rappresentanti, agli occhi di Kafka, della
divinità […]. Sono invece i rappresentanti del mondo della non
libertà, della non redenzione, l’universo soffocante da cui Dio
si è ritirato. Davanti alla loro autorità arbitraria, meschina e
ingiusta, la sola via di salvezza sarebbe quella che indica la
propria legge individuale, il rifiuto di sottomettersi,
superando le barriere interdette.
In effetti, a un occhio più smaliziato, Davanti alla
Legge appare anche un’esemplificazione non tanto del
«Potere», soggetto astratto dietro la cui maiuscola si cela una
sgradevole semplificazione della realtà specifica, bensì delle
relazioni quotidiane fra chi lavora per un’istituzione e chi
deve seguirne tutte le complicazioni. Lo sportello di un ufficio
pubblico, se vogliamo.
Il guardiano, facendo leva sulla sua pur piccola autorità – è
solo il primo della fila, il gradino più basso – intimidisce il
poveraccio, l’uomo di campagna terrorizzato dagli ostacoli che
gli prospettano per ottenere quanto pure gli spetta di
diritto. Chiunque sia stato trattato con arroganza e
sufficienza dai professionisti della legge o abbia avuto a che
fare con difficoltà burocratiche coglie subito questo aspetto
della parabola. Kafka porta certo la situazione all’estremo, e
la cala in un’atmosfera religiosa impossibile da ignorare; così
com’è impossibile ignorare le ulteriori sfumature del testo, che
il prete del Processo sviscera in lungo e in largo
discutendone con Josef K.: ma la dinamica relazionale di base
resta piuttosto evidente.
Un altro preconcetto tipico di certa critica è la ricerca di
coincidenze fra vita e opera di Kafka: il tentativo di
ricondurre Il Verdetto o La Metamorfosi o
Il Processo a fatti occorsi allo scrittore, come se ciò
potesse illuminarci in automatico su un’entità tanto complessa e
indipendente quanto un’opera d’arte. Anche qui Löwy esercita una
gradita prudenza, pur evidenziando nella biografia di Kafka
autentiche e documentate simpatie per il socialismo libertario,
che nel suo caso si declinò in termini essenzialmente emotivi ed
etici: un orientamento, più che una posizione politica ben
definita.
La prima edizione francese di Kafka sognatore
ribelle è del 2004: fra le biografie citate non poteva
esserci l’ultimo volume del monumentale lavoro di Reiner Stach,
pubblicato in Germania vari anni dopo e dedicato alla giovinezza
dello scrittore. Ma alla luce della sua vastissima ricerca,
anche Stach rileva l’interesse di Kafka per il movimento
anarco-socialista praghese e insieme ne nega la partecipazione
attiva alle manifestazioni, come già riconosciuto da Löwy,
concludendo che lo scrittore mantenne per tutta la vita una
visione lucida e imparziale dei principi guida della sinistra.
Del resto fin da piccolo egli ebbe modo di sperimentare i
metodi autoritari del padre, sia su di sé sia sui commessi
dell’emporio di famiglia, con i quali istintivamente si
schierava; ma anche nella vita adulta non mancano elementi a
supporto del suo vivace istinto di protesta per l’apparato
gerarchico e le diseguaglianze sociali. Da impiegato detestava
le pastoie della burocrazia e le vacue formule che pure doveva
utilizzare, così come i rapporti professionali fondati su un
autoritarismo condito di insulti; e lavorando alle campagne di
sicurezza sociale per gli operai – dove conobbe direttamente gli
effetti materiali dello sfruttamento, al di là di ogni idealismo
e semplificazione – si prodigò molto più di quanto non fosse
previsto dai suoi compiti d’ufficio.
Peraltro Löwy non cerca mai di ridurre meccanicamente la
letteratura a ideologia; mostra invece come la passione per la
libertà e la giustizia sociale trovino uno spazio anche
nell’opera letteraria di Kafka: «Anche astraendo dai contatti di
Kafka con gli ambienti anarchici praghesi, è perfettamente
possibile cogliere la dimensione sovversiva e libertaria della
sua opera, grazie a una lettura attenta e sensibile dei testi».
Basti pensare alla veemente, benché inefficace, protesta di
Josef K. nel Processo; o allo sdegno e la
caparbietà di Karl Rossmann contro lo sfruttamento nel
Disperso; o alla straordinaria resistenza nonviolenta
di Amalia nel Castello.
Ma la narrativa kafkiana svela con grande finezza come
l’autorità offra anche una risposta semplice al bisogno di
identità e sicurezza. Essere radicalmente liberi è difficile non
solo a causa del dominio imposto dall’esterno; richiede una
complessa revisione interiore, riconoscendo innanzitutto la
propria disponibilità a infilare la testa nel giogo anche in
assenza di minacce concrete o violenza fisica – l’aspetto
autopunitivo che Kafka ha raccontato come nessun altro. Il Georg
Bendemann del Verdetto è spinto a buttarsi nel fiume
tanto dalla condanna paterna quanto dal proprio senso di colpa;
e il Josef K. stremato che compare alla fine del
Processo sa che la vergogna (di essersi arreso, fra le
altre cose) gli sopravviverà.
E c’è di più. Ricordano Deleuze e Guattari che Josef K. «non
si scaglia mai contro la legge e si schiera volentieri dalla
parte del carnefice: dà uno spintone a Franz che sta per essere
flagellato, terrorizza un imputato prendendolo per un braccio,
si prende gioco di Block dall’avvocato»; e pure il K. del
Castello non brilla certo per umanità o comprensione,
nella sua indomita ma privatissima battaglia contro i
funzionari. Libertà, del resto, può essere anche libertà di
imitare il dominio che opprime nel tentativo di rovesciarlo:
un’altra sfida cruciale per un’organizzazione sociale più
giusta. Da vero artista e non da semplice «critico del potere»,
Kafka non chiude mai gli occhi davanti a tali ambivalenze e
chiaroscuri – un antidoto prezioso all’anarchismo più ingenuo.
Eppure – ed è la tesi fondamentale di Löwy – nelle sue pagine
emerge comunque un’utopia che si manifesta paradossalmente
«attraverso la sua totale assenza»: dalla violenza e
dall’arbitrio emerge in negativo un mondo nuovo; più scendiamo
nell’abisso della sopraffazione, più intuiamo quali forme
possono avere le relazioni liberate.
Ma in che modo rendere giustizia a tale utopia? Con un uso
attento e quasi sacrale della parola, innanzitutto. Con uno
stile antilirico, estremamente preciso quanto sobrio, che
rivolga contro il mondo reale le sue stesse armi: «Il tedesco di
cancelleria diventa così la più grossa possibilità offerta al
suo genio», suggerisce acutamente
Marthe Robert. Attraverso tale lingua – praticando la più alta
devozione alla letteratura, alla scrittura «come forma di
preghiera» – Kafka si impegna in una
lotta per la verità e indica, forse, anche un ideale
comunitario.
Certo tutto ciò non dovrebbe farci adorare nuovi idoli: gli
scritti di Kafka sono talmente variegati e complessi – pieni non
solo di figure dominanti e individui schiacciati ma anche di
animali parlanti, motivi fiabeschi, momenti erotici, enigmi
irrisolvibili, scene meravigliosamente comiche e così via – che
ogni lettura unilaterale li svilisce, anche quando è ben
radicata nel testo come certo lo è l’esperienza dell’umiliazione
e della solitudine. Lo stesso
Löwy, del resto, si premura di precisarlo; e uno degli aspetti
più encomiabili del suo lavoro è proprio una fedeltà filologica
che non sempre anima le letture di carattere politico, unita
alla grande attenzione nel suggerire tesi interessanti e
feconde. Insomma: Kafka sognatore ribelle è un testo
che ancora oggi apre orizzonti critici tutti da esplorare, dando
al contempo un’altra salutare picconata all’immagine dell’opera
kafkiana quale mera descrizione di un potere passivamente
subìto, e rivalutandone invece il carattere libertario.
In tal senso, fra i numi tutelari del testo mi pare esserci
Elias Canetti; e con Canetti vorrei chiudere, lasciando infine
la parola a questo libro appassionato e per molti versi
rivoluzionario:
Bisogna procedere con lui a piccoli passi e si diventerà
modesti. Nella letteratura moderna non c’è nulla che renda così
modesti. Egli riduce la presunzione di ogni vita. Mentre lo si
legge si diviene buoni, ma senza esserne orgogliosi. Le prediche
rendono orgogliosi coloro che ne sono commossi, Kafka rinuncia
alla predica. Non trasmette ad altri i comandamenti di suo
padre; una straordinaria ostinazione, la sua dote principale,
gli permette di spezzare l’ingranaggio di catene dei
comandamenti che continuano a tramandarsi dai padri ai figli.
Egli si sottrae alla loro violenza; la loro energia, quanto in
essi vi è di animalesco, manca su di lui il suo effetto. Tanto
più lo occupa il loro contenuto. Per lui i comandamenti
divengono altrettanti dubbi.
Note alla Prefazione