2021-07-21
INDICE DEL LIBRO:
L’anarchia, dice Colin Ward, è una teoria dell’organizzazione. E cita Kropotkin: è «il nome dato a un principio o a una teoria della vita e del comportamento in base alla quale la società è concepita senza governo: l’armonia al suo interno si ottiene non per sottomissione alla legge o per obbedienza a una qualsivoglia autorità, ma per libero accordo stipulato fra vari gruppi, territoriali e professionali, liberamente costituiti per fini di produzione e consumo, come pure per la soddisfazione dell’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni di un essere civile». Cita però anche Dwight Macdonald, più vicino a noi, per il quale il compito dell’anarchia è riaffermare «l’individuo e la comunità, cose ‘poco pratiche’, magari, ma necessarie, cioè rivoluzionarie».
Poco pratiche e molto difficili, sempre più difficili via via che la società di massa perfeziona i suoi strumenti di controllo detti democratici, manipola più efficacemente il consenso, si serve di una «industria della coscienza» onnipresente e, nei paesi più fortunati, offre ampie possibilità di consumo agli strati della popolazione che, cadute le antiche e fortissime distinzioni in classi, sono in queste società quelli che più contano, e talora i più numerosi. È lo stesso Ward, con tanti altri, a vedere un limite al pensiero di Kropotkin in quell’eccesso di ottimismo che già criticava il nostro Malatesta, e può allora convincerci di più un’altra più sintetica definizione, quella che Colin Ward dette a voce a noi che gliela chiedemmo al termine di un sereno ed esaltante incontro romano di qualche anno fa: «L’anarchia è una forma di disperazione creativa».
«Disperazione creativa»: i due termini sono oggi più legati che mai, io credo, e forse non possono più risultare divisibili. Se, insomma, un tempo era possibile partire dalla proposta positiva implicita nel termine stesso di anarchia, oggi bisognerà adattarsi a una visione dell’altro tipo, che parta (camusianamente o capitinianamente a seconda della propensione più «individuale» o più «collettiva» di ciascuno) dalla coscienza dei limiti non solo dell’uomo ma di ogni società, e in particolare del peculiare istinto di morte che sembra muovere dal profondo le società contemporanee per affermare nonostante tutto, e anche contro tutto, il nostro rifiuto. Si tratterà allora di accogliere più tranquillamente che in passato il tanto di presunta irrazionalità che questo rifiuto comporta, sfidando la realtà con proposte attive, concrete, inventive, creative e fondative di una diversa realtà.
I campi in cui esercitare questa creatività certo non mancano, e proprio Colin Ward, in questa intervista, li passa in rassegna a partire da quelli nei quali ha esercitato con maggior approfondimento la sua: «L’architettura e l’urbanistica, l’ambiente fisico urbano e rurale, l’infanzia e l’istruzione, l’organizzazione del lavoro, la teoria e la pratica dei gruppi senza leader». È grazie al lavoro di persone come lui, intellettuali concreti e disposti a mettersi in gioco nelle pratiche, nella trasmissione, nella sollecitazione dei talenti individuali e delle potenzialità di gruppo e collettive, che il bilancio delle nostre esistenze può non essere del tutto pessimista: «L’esistenza nelle società occidentali è diventata immensamente più libera nel corso della mia vita adulta», dice Colin Ward. E ricorda per esempio la liberazione delle donne, la fine della criminalizzazione dell’omosessualità, le informazioni sul sesso date ai giovani, la fine delle punizioni corporali nelle scuole, ma non può neanche dimenticare, al negativo, la recente vanificazione di molte conquiste sindacali e sociali o, in campo pedagogico, la vanificazione delle conquiste di appena ieri, o i grandi disastri in campo ecologico, dal trionfo dell’automobile e del modello di sviluppo a essa legato, agli abusi dell’era della chimica, eccetera. È più vivibile, forse, la città di oggi di quella di ieri?
È proprio sui due terreni più cari alla tradizione anarchica – l’urbanistica e la pedagogia, in fin dei conti – che possiamo misurare il fallimento di molte speranze della nostra epoca, o più in generale la preoccupazione, da cui Colin Ward sembra troppo difendersi, dei grandi rischi per la sopravvivenza della vita sul pianeta, per non parlare della sopravvivenza dell’uomo, quantomeno nelle sue definizioni attuali.
Si può rimproverare a Ward quel che Malatesta rimproverava a Kropotkin, un eccesso di ottimismo? È possibile, ma questo non può cambiare il nostro giudizio su di lui e l’affezione che portiamo al suo pensiero e alle sue attività. «Nella nostra società gli anarchici godono di un certo valore in quanto sono rari», egli dice, e gliene diamo atto ben volentieri. Egli è uno dei rari pensatori del nostro tempo la cui opera possiamo mettere a fianco non solo di quella dei grandi anarchici del passato, ma dei maggiori pensatori contemporanei, sia che essi si definissero come anarchici sia che non se ne curassero: Dwight Macdonald e Paul Goodman (forse il pensatore che gli è più vicino), Herbert Read e Lewis Mumford, Alex Comfort e Alexander S. Neill, George Woodcock e Murray Bookchin, e ovviamente gli amici e maestri Vernon Richards e Maria Luisa Berneri, ma anche Weil, Orwell, Camus, Bettelheim, Caffi, Chiaromonte, Morante, Pasolini, Arendt, Chomsky, e «antenati» come Herzen, Buber o Landauer, oltre ai citati, e ovvi, Kropotkin e Malatesta… Una pleiade di intelligenze attive e fattive, speculatrici e concrete, pienamente dentro i dilemmi del loro tempo e luminosamente refrattarie alle ideologie dominanti spesso anche a costo della stessa esistenza.
La parte forse più affascinante dell’intervista di Goodway è quella sugli anni di formazione di Ward, che ricostruiscono un’epoca e un percorso attraverso gli incontri con persone d’eccezione, in anni assai bui ma anche retti dalla convinzione di un futuro tutto da inventare. Quali che fossero i limiti interni di un movimento, le sue divisioni e la sua pletora di egocentrismi (in Italia, soprattutto, le sue pervicaci tentazioni della superficialità e della violenza, in una sorta di sottocultura soddisfatta della sua primarietà…), vi erano al suo interno esempi di pensatori e sollecitatori di straordinaria lucidità, al cui livello, in Italia, mi permetto di iscrivere solo Carlo Doglio e Lamberto Borghi, e se ci aggiungiamo De Carlo e, per altri versi, Capitini, si tornerà a constatare come l’urbanistica e la pedagogia, la città e l’infanzia (o Il bambino e la città, come recita sinteticamente il titolo italiano di un grande saggio di Ward) siano il terreno di riflessione privilegiato dai pensatori anarchici non a caso. Cioè: la convivenza umana, e il futuro, le nuove generazioni, i nuovi nati, e in definitiva la liberazione del presente e del futuro ma con la persuasione che solo in questo modo si «libera» anche il passato, dà dignità e riscatto a tutte le vite che la storia e il potere hanno impedito, castrato e massacrato.
Il presente, però. Quel presente che esige la sua centralità. È ancora l’Herzen del fondamentale Dall’altra sponda a parlare per bocca di Ward: «Un obiettivo che sia infinitamente distante, non è un obiettivo, è un inganno». Ed è chiaro che si sta polemizzando con quel pensiero marxista e comunista che ha avvilito la storia del movimento operaio di due secoli portando ai disastri che si sanno, e sui quali, forse, visti i risultati, è ormai superfluo insistere anche se il suo spettro continua ad affliggere molti almeno in Italia, e forse non finirà mai di far danni.
Lo statalismo efferato della tradizione comunista è, ovviamente, uno degli obiettivi polemici centrali del pensiero anarchico, ma mai come oggi esso è sembrato così terribile e infausto, nella decadenza di ogni sua giustificazione di fronte ai problemi posti, nel bene e nel male, dalla globalizzazione. «La scelta tra soluzioni libertarie e soluzioni autoritarie avviene in ogni istante e in ogni forma». E si torna irresistibilmente al cuore della preoccupazione e dell’insegnamento di Colin Ward, alla convinzione che «una società anarchica, una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle sue ingiustizie, del nazionalismo e della sua lealtà suicida, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni». È questo l’inizio di Anarchia come organizzazione, nell’originale Anarchia in azione, o in atto.
Si tratta allora di «liberare» la società dalle sue storture, di riconquistare e valorizzare le sue tensioni migliori alla cooperazione, al libero accordo, al mutuo soccorso, alla solidarietà attiva, e di metterle in luce poiché l’apparato dello Stato e dei media cospira a nasconderle, a sottovalutarle. Un esempio italiano, per tutti: la dimensione della piccola imprenditoria emiliana o marchigiana e veneta è stata osteggiata dal gruppo FIAT e dai suoi giornali (pressoché tutti), dalla tradizione comunista, e finanche sindacale, e dallo Stato con il suo intralciante e obbligante bagaglio di norme e di leggi, fino al punto di regalarla alla destra, fino al punto di farne il campo di rapina per la parodia di liberalismo e federalismo e autonomia che sono Berlusconi o la Lega – salvo, una volta al potere, cercare anch’essi di farsi Stato, di «occupare» lo Stato a proprio vantaggio.
È proprio sugli esempi italiani che talvolta, nel corso di questa intervista, possono nascere nel lettore alcuni dubbi: non sarà davvero troppo ottimista, rispetto al nostro carattere e alla nostra (sconsiderata, caotica) creatività, Colin Ward? Non tenderà anche lui a idealizzarci un tantino?
Più in generale, non sarà anche quello della «società civile» un terreno ormai più scabroso di quanto non fosse ieri, quando essa davvero avanzava proposte e correttivi efficaci e salutari al dominio della politica? Qui in Italia, quantomeno, abbiamo dovuto scontare nel corso degli anni Novanta molte illusioni sulla positività «di per sé» della società civile, frammentata in interessi corporativi e di gruppo e in nuove finzioni retoriche anche nei suoi settori più vitali, quali le associazioni (di servizi, anzitutto, nello smantellamento del Welfare, ma anche di produzione e consumo, anche di formazione e cultura).
Queste sono però osservazioni decisamente secondarie rispetto alla varietà di insegnamenti che è possibile ricavare dalla ricca storia di Colin Ward, dall’esempio di inesausta dedizione e creatività della sua biografia. Un aspetto in particolare mi ha personalmente toccato di questa intervista, ed è il discorso sulle riviste, e in particolare sull’esperienza di «Anarchy», 1961-1970, 118 numeri, una rivista che ho seguito con passione e verso la quale, come verso poche altre, ho un grandissimo debito di riconoscenza perché, nella sua bellissima grafica (le copertine di Rufus Segar!) e nei franchi approfondimenti dei suoi numeri monografici, come nelle sue pieghe e rubriche, c’erano gli antidoti indispensabili alla pesantezza «marxista» di tante altre, alla pesantezza «leninista» dei gruppi politici che hanno soffocato il ’68 e anche alle ambiguità del cosiddetto «marxismo critico» della rivista, pur bella, «Quaderni piacentini», di cui in quegli anni io ero responsabile con altri, e anche rispetto a quell’eccesso di tatticismo che – per non isolarsi troppo dal «movimento», per non farsi isolare dai «gruppi» – ha limitato le aperture e le innovazioni di una rivista come «Ombre rosse».
È anche da artefice di riviste, oltre che da membro di gruppi culturali o di intervento sociale, che ho letto queste conversazioni, con l’ammirazione per un modello ineguagliabile quale fu «Anarchy» grazie al suo formidabile direttore! Ma naturalmente non c’è stato solo questo, e la vitalità di questo libro, il suo aiuto a far germogliare i semi nascosti sotto la neve, anche di un nostro presente italiano forse più sgraziato e sfasciato che cupo, ci rende chiari limiti e forza della nostra azione, ma non ci fa disperare a causa del loro scarso successo. Se è vero, per esempio, che «Anarchy» non ha mai superato le 3.000 copie, posso ben accontentarmi della metà raggiunta dalla rivista che attualmente coordino!
Sono uno stimolo perché si insista e non ci si fermi, le riflessioni ed esperienze di Colin Ward, perché non ci si deprima per la nostra inadeguatezza e per la pesantezza dei problemi che il presente e la storia ci presentano.
Il pensiero libertario è rientrato da anni, come Colin Ward è andato sempre auspicando, «nel flusso vitale dell’intellettualità; nel campo delle idee che sono prese sul serio». E sono davvero tanti i campi in cui questo avviene. Non basta, naturalmente, e nella «esplorazione dei rapporti tra le persone e l’ambiente che le circonda» occorre, sull’esempio di persone come Colin Ward, considerare l’esplorazione come esperienza e sperimentazione nonostante tutto, nonostante il nostro maggiore o minore grado di disperazione, accogliendo la sfida del «non accetto», chiedendo a noi stessi la pratica più cosciente di «una forma di disperazione creativa».