2022-02-16
INDICE DEL LIBRO:
Hunga Tonga-Hunga Ha‘apai è il generoso nome di un’isola/vulcano dell’Oceania esplosa il 15 gennaio 2022. Situato a circa 65 chilometri da Nuku‘alofa, capitale del Regno di Tonga, il vulcano ha innalzato una nuvola di polvere e ceneri alta quasi 20 mila metri, che si è poi estesa su un diametro di 400 chilometri. Lo tsunami marino che ne è seguito e quello provocato, un paio di giorni dopo, da una nuova esplosione, hanno colpito con onde alte più di un metro le isole circostanti e poi via via l’Australia, il Giappone, le Hawaii, il Perù e la California. Più o meno ventuno ore dopo la prima esplosione, gli appassionati di meteorologia in Italia hanno registrato un’improvvisa variazione di pressione atmosferica nei barometri. La pressione si è alzata, per poi abbassarsi repentinamente e riassestarsi sui livelli precedenti. L’onda d’urto atmosferica provocata da un’esplosione vulcanica è una sorta di tsunami aereo: si propaga tutt’attorno a un centro, come le onde che increspano uno stagno violato da un sasso. La cenere e le preziose sostanze minerali fuoriuscite da Hunga Tonga-Hunga Ha‘apai viaggeranno per mesi nell’atmosfera, fondendosi nelle gocce di pioggia e fecondando terreni lontani migliaia di chilometri. Come osservava Jared Diamond in un famoso libro dedicato alle crisi ambientali, più un’isola è lontana da un vulcano attivo più la sua terra manca di sostanze preziose per lo sviluppo della vita vegetale.
«Hunga», così è stato ribattezzato famigliarmente il vulcano dai mezzi di informazione, è ben più potente del battito di ali di una farfalla, ma ci ha ricordato, con la sua potenza, la famosa domanda di Edward Lorenz: «Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?». Non saprei rispondere, ma sicuramente il vulcano tongano si è fatto sentire dai barometri italiani. «Hunga», che ha coperto di cenere l’arcipelago di Tonga e ha interrotto per una lunga settimana i collegamenti aerei e telematici tra il Regno e il resto del mondo, ci ha ricordato che tutti gli esseri, viventi e no, che abitano il pianeta sono connessi in una rete dalle maglie molto fitte. La vita su Gaia, la Terra, è un coro di contrasti e assonanze e i solisti sono solo una finzione. Siamo legati agli altri esseri umani, agli altri esseri viventi, agli altri esseri in generale (non è facile escludere i vulcani dagli esseri viventi, in effetti) da una trama di connessioni e interdipendenze. Anche se non l’abbiamo percepita con gli occhi e con le orecchie, l’esplosione di Tonga ha increspato l’atmosfera in cui siamo immersi come pesci nelle profondità marine, e nell’aria che respiriamo c’è qualcosa che proviene dagli abissi di un lontano arcipelago polinesiano.
Un nuovo ambientalismo sta lentamente, ma inesorabilmente imponendosi all’attenzione pubblica nell’epoca del riscaldamento globale, un ambientalismo che sottolinea le interconnessioni e le interdipendenze tra tutti gli abitanti della Terra e che si scontra con alcune nostre radicate certezze. La prima di queste è che la condizione umana, la cultura in senso antropologico, sia caratterizzata da esclusività ed eccezionalità. Razionali, (auto)consapevoli, capaci di progettare il futuro e di distruggere il mondo, dotati di un linguaggio raffinato, realizzatori di «artifici» non previsti in natura, i Sapiens sarebbero i protagonisti di una sorta di «salto» quantico che li avrebbe posti fuori o oltre gli altri esseri del pianeta. Fuori dalla «natura», questo concetto pass-partout che appare sempre più problematico e che a lungo la tradizione di pensiero occidentale ha considerato come la squadra in cui gioca tutto il resto del mondo non umano, una bizzarra categoria che tiene insieme orsi, carbone, sale e persino i pianeti e le galassie esterne al sistema solare. Una categoria, quella di «natura», che appare assai strana ai locutori di altre lingue – infatti è intraducibile in molti contesti, come quelli polinesiani di cui si occupa questo libro.
La seconda certezza scossa dall’emergere di quello che abbiamo chiamato il «nuovo ambientalismo» è di tipo politico, è l’idea secondo cui il mondo è, non può non essere, diviso in Stati. Il mappamondo di diversi colori è diventato ben più di una convenzionale divisione dell’ambiente. Lo Stato ha dato forma ai nostri pensieri, come James Scott afferma nei suoi lavori, e ha reso naturale l’idea di un mondo diviso in raggruppamenti politici e culturali dai confini ben definiti. In realtà i vulcani, i grandi mammiferi marini, le gru che in autunno sorvolano il paese in cui vivo per spostarsi dall’est europeo alla Camargue francese, l’ossigeno e le polveri vulcaniche non sanno che farsene dei confini nazionali e molti esseri umani muoiono ogni anno uccisi dalle barriere innalzate dagli Stati. L’esistenza di confini politici (simbolici e reali), tuttavia, non è più una ragione per sentirsi fuori dalle enormi responsabilità che noi Sapiens abbiamo nei confronti dell’ambiente, per i viventi e per le generazioni future. Siamo a bordo della stessa piroga su cui viaggiano tutti gli altri esseri del pianeta e attraversiamo una tempesta minacciosa, l’unico modo per governare l’imbarcazione è lavorare tutti insieme, non chiudersi nei propri egoismi.
Leggere il libro di Emanuela Borgnino è fondamentale per capire questo nuovo ambientalismo della relazione ed è importante da diversi altri punti di vista. In una prospettiva teorica ci consente di seguire con sintesi e precisione filologica i ricchi dibattiti che attraversano l’antropologia dell’ambiente. In una prospettiva etnografica dà conto di come i nativi hawaiani, anche in prospettiva storica, hanno modellato il loro rapporto con l’ambiente. Non si tratta qui di individuare culture che hanno dato vita a rapporti idilliaci e paradigmatici con quella che noi chiamiamo «natura». Si tratta piuttosto di prendere sul serio le loro ecologie, ovvero i modi con cui hanno organizzato la loro interdipendenza con l’ambiente. Quando si parla di «ambiente» in questo libro, non si evocano solo spiagge, litorali meravigliosi o valli verdeggianti dell’interno delle Hawaii, ma anche palazzi storici, zone contaminate da mine e bombe, coste minacciate dall’innalzamento dei mari. La responsabilità, che gli hawaiani chiamano kuleana (parola chiave di tutto il volume), consiste nel prendersi cura e riprodurre la vita nell’ambiente in cui ci è dato nascere e che è già, da sempre, una sintesi di precedenti convivenze e conflitti, come quelli coloniali che hanno opposto e oppongono tuttora i nativi hawaiani e gli «invasori» statunitensi. Il paesaggio insulare qui considerato non è una cornice fissa, ma una sintesi di presenze umane e non umane, di esperienze vissute e di vite a venire. Prendere sul serio gli altri, come ci invita a fare Tim Ingold in un recente volume, significa considerare le loro ecologie non alla stregua di modelli ideali di conservazione dell’ambiente, ma di concrete pratiche della relazione tra umani e oltre-che-umani.
L’onda d’urto del vulcano Hunga è solo una delle innumerevoli assonanze che ci ricorda la nostra somiglianza con gli altri esseri umani e con gli altri esseri in generale, abitanti di un mondo condiviso. Anche il virus e la sua straordinaria diffusione ci hanno mostrato che partecipiamo gli uni alle vite degli altri. Proprio il virus ha messo in crisi la grande narrazione che si era sviluppata a cavallo dei due secoli e che chiamavamo «globalizzazione». I confini del mondo umano sono tornati a chiudersi. Ci siamo accorti che la narrazione di un mondo uniforme per cultura e stile di vita era solo una grande finzione. In questo clima diventa essenziale tornare a porre l’accento sulla diversità culturale come repertorio di forme e possibilità dell’umano. Le somiglianze e le connessioni, tra i Sapiens, convivono con il gusto e la capacità di dar vita a lingue e culture differenti, attraverso le quali – tra l’altro – possiamo prenderci cura e responsabilità del nostro posto nel mondo. È un passaggio chiave di questo libro. Esercitare la responsabilità piuttosto che evocare diritti destinati a rimanere astratte chimere, significa prendersi cura delle persone e dei territori con i quali siamo in relazione. Ciascuno e ciascuna di noi può farlo, dando il proprio contributo e contrastando la narrazione che attribuisce solo ai grandi decisori le responsabilità per il futuro – questo il messaggio forte che ci viene dagli attivisti hawaiani con cui ha interagito Emanuela Borgnino.
Le modalità dell’abitare, le ecologie di cui si parla in questo volume, sono molteplici e abbiamo grande bisogno, in questi tempi, di guardare a questo ampio ventaglio di possibilità. A questo soprattutto serve l’etnografia che il lettore troverà in queste pagine. Conoscere un po’ meglio le culture hawaiane non è affatto un esercizio estraneo o esotico per chi, tra i nuovi ambientalisti, ha deciso di prendersi cura del territorio in cui vive e degli esseri che lo abitano.